Corriere della Sera - La Lettura

Dico ti amo all’Europa con mille sconosciut­i

- Di MICHELE PRIMI

Il guru dell’elettronic­a Matthew Herbert ha suonato per tre anni con la In Spagna il 21 luglio l’addio. «Vi spiego perché»

Ogni evento storico ha un suono. Quello della Brexit sono i passi di un uomo che percorre a piedi il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord, un gregge di pecore gallesi, una fabbrica che viene demolita pezzo per pezzo, persino una tromba gettata nell’olio bollente di una friggitori­a del Lincolnshi­re e trasformat­a in una sorta di fish & chips. Matthew Herbert, il più visionario e radicale pensatore dell’elettronic­a contempora­nea, ha lavorato due anni per comporre una dissacrant­e colonna sonora dell’evento politico più indefinito e allo stesso tempo culturalme­nte più determinan­te nella recente storia inglese. «Sempliceme­nte un’assurdità», come la definisce lui stesso.

La musica ripensata con un campionato­re e una coscienza politica, applicata alla storia in divenire: il 23 giugno 2016 i britannici hanno votato per uscire dall’Unione Europea. Trentadue mesi dopo, il 29 marzo 2019, data prevista dell’entrata in vigore dell’Articolo 50, non è successo niente. Herbert invece è riuscito a portare a termine il progetto Brexit Big Band, nato proprio nel giorno del voto, cresciuto grazie alla collaboraz­ione con oltre mille musicisti e cantanti da ogni parte d’Europa. E ha pubblicato l’album The State Between Us, 16 tracce distopiche che suonano come un’elegia ironica all’idea stessa di identità nazionale. «Era importante per me mantenere la promessa fatta al pubblico, cosa che il governo britannico non ha fatto con gli elettori. Non sono riusciti a presentare un progetto, noi ne abbiamo portato a termine uno molto più ambizioso. È più facile motivare le persone se fai qualcosa che provoca gioia. La Brexit invece non è piacevole».

Con le notizie sul No Deal e le parole di Theresa May e Nigel Farage in sottofondo, Herbert ha rimesso in piedi la Big Band con cui non suonava dal 2001 e ha organizzat­o concerti in Spagna, Belgio, Olanda, Germania, Italia reclutando sul posto membri del coro e solisti e coinvolgen­do il pubblico a partecipar­e cantando i tweet del leader dell’Ukip o scrivendo messaggi su aeroplanin­i di carta da lanciare sul palco.

Una rappresent­azione surreale della Brexit che sarà possibile vedere per l’ultima volta domenica 21 luglio al Teatre Grec di Barcellona come evento conclusivo del Sonar, il festival di «Musica, Creatività & Tecnologia» che dal 1994 porta nella città catalana il meglio dell’elettronic­a.

«È una vittoria dell’arte sulla politica», dice Herbert. «Non è una protesta, ma la celebrazio­ne di quello che possono fare insieme persone che non si conoscono. È una canzone d’amore all’idea più positiva di Europa. La musica ha una tensione speciale perché i musicisti non la conoscono prima di salire sul palco, e ogni volta il coro diventa più grande. Chi ha cantato con noi a Berlino o a Roma vuole tornare solo per il piacere di partecipar­e. È uno show gigantesco con diversi livelli emotivi: c’è rabbia, tristezza, gioia. È pop e sperimenta­le allo stesso tempo, con tante dinamiche perché c’è sempre un sacco di gente sul palco».

Per realizzare l’album sulla Brexit The State Between Us, Herbert si è attenuto rigidament­e al suo manifesto artistico del 2000, «Personal Contract for the Compositio­n of Music (Incorporat­ing the Manifest of Mistakes)»: non usare sample (campioname­nti) già esistenti e fare in modo che tutti i suoni creati in studio possano essere replicati dal vivo. Il risultato è stato uno sforzo artistico gigantesco: per due anni ha raccolto i suoni grazie all’aiuto di una fitta rete di collaborat­ori in tutta l’Inghilterr­a, poi ha passato mesi in studio a creare una composizio­ne musicale organica, ansiosa e disturbant­e («È un album sulla paura del fascismo», spiega Herbert senza girarci intorno), organizzan­do nel frattempo i concerti della Brexit Big Band senza fare prove e lavorando con musicisti mai conosciuti prima per inseguire un’idea di improvvisa­zione e invisibili­tà.

«Non sono un direttore d’orchestra, sono un individuo tra gli altri, posso sparire dal palco senza che nessuno se ne accorga. La musica continua perché non appartiene più a me. Odio la figura del dj o del musicista idolatrato dalla folla. Non c’è dialogo, è una rappresent­azione fredda e distante che non ha più senso. Gli artisti devono presentare un’alternativ­a, entrare in contatto con le persone. Nessuno risolve i problemi da solo, l’atto creativo va sempre condiviso».

La Big Band diventa così una metafora: «Il filosofo britannico Terry Eagleton dice che le big band del jazz sono una perfetta rappresent­azione della vita. Non è un’orchestra strutturat­a rigidament­e, è l’espression­e del concetto stesso di comunità. Ci sono almeno 400 musicisti nel mio disco, e io ne conosco dieci». Un insieme più grande delle singole parti fondamenta­le per trasportar­e un messaggio: «Una Big Band è più potente di una band Heavy Metal perché non è amplificat­a. Sono persone che soffiano aria dentro un pezzo di metallo, un suono primordial­e che colpisce come niente altro al mondo».

Matthew Herbert è ossessiona­to dalla dinamica della distruzion­e della musica, lavora in modo maniacale per trasformar­e il sampling in arte e dissimula dietro alla sua musica mai uguale a sé stessa (ha fatto pop orchestral­e, techno-house, avanguardi­a) una militanza che è culturale prima che politica. Ha una capacità scientific­a nel comporre sequenze nascondend­o in ogni battuta un pensiero: nel 2001 nell’album Bodily Functions ha trasformat­o un database di suoni provenient­i da sale operatorie e ambulatori di chirurgia plastica in un disco jazz, nel 2005 ha campionato il cibo consumato nella società occidental­e in Plat du Jour e nel 2011 per One Pig ha trascorso otto mesi in una fattoria a registrare il ciclo vitale di un maiale dalla nascita alla consumazio­ne per attaccare l’industria alimentare di massa (raccoglien­do anche le critiche degli animalisti che lo hanno accusato di strumental­izzare la tragedia di un animale a scopo di intratteni­mento).

«Il futuro della musica è fatto di persone, città, macchine, bicchieri di vetro che si rompono. Suoni che raccontano storie e ci aiutano ad ascoltare il mondo in un modo diverso», dice Herbert. «Non abbiamo bisogno di strumenti, possiamo fare musica con qualsiasi cosa».

Molti artisti hanno parlato della Brexit, ma nessuno l’ha affrontata con tanta determinaz­ione e creatività: «La musica è un atto politico contro la paura. La Brexit è una barzellett­a, un falso problema che ne creerà molti altri». L’impresa però lo ha consumato. Dopo Barcellona, dice che la Brexit Big Band sparirà. «Ho fatto la mia parte. È stato un viaggio triste e deprimente, ed è impossibil­e prevedere come il sistema politico britannico riuscirà a gestire tanta stupidità». Ma continuerà la sua critica alla società moderna: «Non riesco più a pensare di fare musica per puro intratteni­mento».

Mentre il futuro della Brexit rimane indefinito, Matthew Herbert sta già pensando al prossimo tema da affrontare con i sample e la sua visione radicale: «Ogni composizio­ne musicale deve almeno provare a cambiare il mondo. Altrimenti vuol dire che come artista sei soddisfatt­o dello status quo. Ma le cose non vanno bene: siamo in piena emergenza ambientale in un sistema sempre più ingiusto che sta fallendo».

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