Corriere della Sera - La Lettura

Il pubblico in sala, io no Il mio teatro è virtuale

- Di MAURIZIO PORRO

Ateatro si potrà avere una scenografi­a povera, il sipario di velluto consunto, la regia potrà essere fastidiosa e i costumi arruffati come nei giochi delle bambole, perfino il testo può non esserci, come in tanto teatro dell’assurdo o del silenzio. Ma l’attore, in corpo, sangue e voce, ci deve essere in scena.

No, sbagliato. Per la prima volta un esperiment­o di teatro virtuale rinuncia anche alla presenza fisica dell’attore.

Così ha pensato Elio Germano con il multimedia­le gruppo Gold fondato da Omar Rashid che dal 25 al 27 luglio porterà al XVII Kilowatt Festival a Sansepolcr­o — comune di 15.907 abitanti, al confine con Umbria e Marche nella toscanissi­ma provincia di Arezzo, regno di Piero della Francesca — La mia battaglia VR (Virtual Reality). Un delirio con arringa (ma anche viceversa) di Elio Germano e Chiara Lagani (fondatrice e anima del gruppo Fanny & Alexander), con la regia dello stesso attore premiato a Cannes e formidabil­e interprete di film di Daniele Luchetti, Ferzan Özpetek, di Suburra (il film) e soprattutt­o Giovane favoloso cioè Giacomo Leopardi per Mario Martone e Antonio Ligabue nel prossimo film di Giorgio Diritti.

Ma c’è o non c’è Germano? «Io non ci sono — dichiara a “la Lettura” —: è la provocazio­ne tecnologic­a di un millantato­re che però contiene anche il suo contrario, cioè l’invito a far discutere gli spettatori alla fine dello spettacolo». Si entra e si indossano visori a 360 gradi, cuffie (quindi niente acconciatu­re), ci si trova immersi in un’altra realtà con cui

sembra di poter interagire vivendola in diretta. Ma siamo in un teatro dove tutto è stato registrato e però ti cattura in modo prepotente fin dall’inizio, attraverso la forza della dialettica.

«È un esperiment­o sociologic­o con una forte metafora che dimostra come un millantato­re ti possa portare su posizioni che non condivider­esti, facendoti subire il suo discorso. Ognuno è solo. L’apparecchi­atura indossata nasce come strumento drammatica­mente singolare e individual­ista. Ma noi la rendiamo collettiva. Usiamo la realtà virtuale spostandol­a dalle singole case per avere visioni contempora­nee, restituend­o la dimensione collettiva. Alla fine quando togli la maschera si può discutere. Nascono dibattiti spontanei».

Elio Germano in genere non è presente, se non con la sua carica provocator­ia di 70 minuti di show. «Lo spettacolo — spiega l’attore — è assai particolar­e e prevede il coinvolgim­ento del pubblico. Anzi avviene soprattutt­o in platea. È anche un modo per capire come l’attore riesca a manipolare gli spettatori; come sia pericoloso lasciarsi coinvolger­e da un applauso o una risata». A volte, dice Germano, «ci troviamo a calcare gli stessi palchi dove si sono esibiti veri politici. Ma io non sono un politico. Nello spettacolo sono un comico, un uomo qualunque, con un piccolo pulpito per mettere alla prova le reazioni del pubblico che vediamo cambiare ogni sera. Quindi via con una battaglia contro la tecnologia troppo spesso alleata della cultura main

stream. Usiamo la tecnica virtuale per contraddir­la, metterla in discussion­e, criticarla e avere così materiale alternativ­o».

Sono stati fatti esperiment­i nelle scuole — e ce ne saranno molti in seguito — riuscendo per una volta a non far accendere i telefonini. Ma volete mimare un momento politico? «Vogliamo dimostrare che chi urla più forte, chi declina lo slogan migliore, alla fine vince e che il vero mostro è oggi l’esigenza di un capo, il pensare che la soluzione sia nel carisma individual­e».

Quello di Elio Germano, «in compagnia della sua assenza», è un monologo che spinge gli spettatori a riflettere, porsi domande, immaginare risposte su temi come il consenso, il libero pensiero, l’affabulazi­one, la dittatura — in questo non casuale ordine — e alla fine con una gran sorpresa che lascia il pubblico sconcertat­o.

Tutti dovranno indossare un’apparecchi­atura quasi spaziale come per una partenza verso i terreni ignoti del teatro virtuale. Ci avviciniam­o alle tecnologie digitali del cinema, come il green screen in cui un attore recita davanti a uno spazio vuoto. Gli attori, al cinema, sono riproduzio­ni, fantasmi per dirla poeticamen­te: ai registi più geniali, come Woody Allen, può capitare anche di farli uscir e d a l l o s c h e r mo c o me n e l l a Rosa

purpurea del Cairo. E quando al cinema mettiamo gli occhialini 3D, lo scopo è rendere tutto più vicino e vero. Così come questa apparecchi­atura con cui sembrerà di avere Elio Germano in sala e invece chissà dove se ne sta.

Ma certo non è un esperiment­o innocuo, lui forse un ipnotizzat­ore non dichiarato che manipola gli spettatori in crescendo di autocompia­cimento fino a raggiunger­e al termine del suo show una non prevista (e non comunicabi­le) svolta. È un artista che, dal pulpito circolare, con un enorme schermo dietro, davanti al leggio di plexiglass, si fa sempre più autorevole ma anche autoritari­o, portatore di un muto volere diffuso nell’aria, tra istanze diverse, aneddoti e proclami, trascinand­o la platea alla terribile sorpresa finale: sembra quasi ci sia lo zampino di Hitchcock, come nei 39 scalini.

C’è da dire che con le tecnologie digitali sembra che gli attori siano sul set e invece non ci sono. Ma in teatro onestament­e non avevamo mai fatto a meno del protagonis­ta, specie di un monologo: con tutto il necessario supporto visivo, occhiali immersivi e cuffie. E a noi, 20, 70, 80 spettatori per volta, in una scuola, in un carcere, in un ospedale o in un teatro, sembrerà di avere lì con noi il trentotten­ne Elio Germano, la cui assenza serve proprio come prova nel processo contro la complicità ideologica­mente invasiva della tecnologia, secondo gli autori. La mia battaglia (tradotto in tedesco sarebbe Mein Kampf) non è certo un titolo né casuale né innocuo.

Al monologo di Elio Germano — «La mia battaglia VR», esperiment­o sulla manipolazi­one — si assiste con i visori. Il titolo in tedesco diventa non a caso «Mein Kampf». Segue dibattito (reale)

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