Corriere della Sera - La Lettura
La mente reazionaria non è solo nostalgica
Sul pensiero rivoluzionario è stato scritto moltissimo, su quello reazionario meno, con il risultato che della mente reazionaria si sa poco e si è portati a bollarla come barbarie. Invece, a leggere Il nau
fragio della ragione (Marsilio) di Mark Lilla, docente alla Columbia University di New York, si ha l’impressione che la storia sia regolata da idee reazionarie, rivolte costantemente al passato, nel tentativo di trattenere il tempo. Nulla sarebbe cambiato da quando Esiodo, nel poema
Le opere e i giorni, prospettava un susseguirsi di età sempre più impoverite — dall’età dell’oro, in cui l’umanità delle origini viveva un’esistenza felice, a quella del ferro, caratterizzata dal disordine e dalla mortalità. È qui, nella Grecia di Socrate e Platone, che si radica l’operazione nostalgia, la visione passatista di un’evoluzione che si attorciglia su sé stessa e cerca, anche violentemente, di ristabilire le apparenze di un passato glorioso. Nell’impossibilità di ricreare le condizioni iniziali di perfezione, al reazionario non resta che cercare di recuperare quanto c’era di valido nel lontano passato, consapevole che il futuro non sarà altro che un continuo peggioramento.
Lilla ha ragione quando riconosce che «i reazionari non sono conservatori»: rischiosa identificazione, poiché sottovaluta la portata rivoluzionaria, radicale, del potere reazionario, che non si accontenta di mantenere lo status quo, di ostacolare il cambiamento, ma lotta attivamente per creare una società ideale improbabile, a cui guarda con struggente nostalgia. È questa forte componente mistica e mitica, come aveva messo in evidenza Furio Jesi, a rendere inquietante il pensiero reazionario, com’è stato per il nazionalsocialismo hitleriano, in cui convergono modernismo, razionalismo e misticismo. Ed è pur vero che i reazionari del nostro tempo hanno capito che la nostalgia è un potentissimo motivatore politico e che è necessario puntare sulla delusione per ottenere il consenso: invece di guardare avanti con fiducia, è più facile rivolgersi a un passato conosciuto, visto che «le speranze possono essere deluse», mentre «la nostalgia è indiscutibile».
Giusto quindi analizzare la mentalità reazionaria e i suoi meccanismi per comprendere ciò che sta accadendo ai giorni nostri, ma non è sufficiente armarsi di buoni propositi: benché partito da un presupposto sostenibile, il lavoro di Lilla si arena subito dopo l’introduzione, nel tentativo di andare alle radici del pensiero americano di destra, limitandosi all ’a p p o r to d i F r a n z Ros e n z wei g , L e o Strauss e Eric Voegelin, che però non è un reazionario, bensì uno studioso dello gnosticismo. Ai reazionari autentici — Joseph de Maistre, Oswald Spengler, Martin Heidegger, Carl Schmitt — riserva solo sparse citazioni. L’assunto di Lilla si perde così nella confusa associazione tra esponenti politici, pensatori e figure letterarie, mescolando Paolo di Tarso e Mao, Alain Badiou e Don Chisciotte, Karl Marx ed Emma Bovary, finendo per confondere il lettore.
La modernità non sarebbe che un incidente di percorso, un brusco salto in avanti dalle conseguenze nefaste. Dalla modernità deriverebbe la discontinuità col mondo antico; una discontinuità che i pensatori reazionari si affannano a ricercare nelle «grandi divisioni» che si sono succedute, aprendo a un domani oscuro e inconoscibile, suscitando una vera «paura irrazionale del futuro». Anche se talvolta la discontinuità è fatta risalire a radici più lontane, al cristianesimo (Nietzsche) o anche a Socrate. Eppure la modernità non ha un volto univoco. Anzi, il grandioso processo di rinnovamento del pensiero, sviluppatosi attorno al XVII e al XVIII secolo, ha aperto a una molteplicità di sviluppi che le scelte degli uomini purtroppo hanno spesso privilegiato in un solo senso. Così per l’idea di progresso, per la democrazia, l’uguaglianza: promesse non mantenute, sacrificate sull’altare del profitto e della convenienza politica. Non solo esistono «modernità multiple», come ricorda Shmuel Eisenstadt, con sviluppi, tempi e ritmi diversi, ma infinite modernità potenziali.
Nell’impossibilità di un reset cronologico, Ulrich Beck ha parlato di una seconda o terza modernità, mentre Zygmunt Bauman ne ha osservato la liquefazione per il venir meno dei valori fondanti. Michel Maffesoli guarda alla post-modernità con lo stesso spirito con cui si affronta la ristrutturazione di un edificio cadente ed è indubbio che quella modernità che Nietzsche ha criticato, abbia esaurito il suo ciclo vitale. Non si tratta di una crisi dell’Occidente alla Spengler e della sua «singolare metafora botanica», per cui le civiltà attraverserebbero fasi di fioritura, maturazione, appassimento e morte, ma dell’esigenza vitale di operare scelte diverse: non autolesive, né illibertarie, penalizzanti o irrazionali.
Sfugge a Lilla l’insolita concentrazione di antimodernisti tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Senza domandarsi perché tutto questo ribollire di velleità reazionarie avvenga proprio allora (e non prima) e conduca verso i totalitarismi. Dove l’emergere delle masse, spinte da ideologie massimaliste e rivoluzionarie (socialismo, anarchismo, marxismo) fa temere una società preda di un disordine incontrollabile. Da qui più la paura che la nostalgia, più la ragione che l’irrazionalità, sono finalizzate a rimettere ordine nella società attraverso l’autoritarismo, il controllo individuale, la repressione della libertà d’espressione.
La ragione, che con la modernità avrebbe dovuto guidare l’umanità, è invece gravata di pessimismo storico, causato dal crollo delle aspettative rivoluzionarie. Resta, secondo Lilla, solo una sinistra «quasi esclusivamente accademica», che si nutre «di una forma paradossale di nostalgia storica, di nostalgia del futuro». Così nelle vene della sinistra, unita agli antimodernisti dallo stesso mito della naturalità perduta, scorrerebbe sangue reazionario, quandosi tratta di« ecologisti apocalittici, no globale attivisti della decrescita». Di questo passo si potrebbero accusare di essere reazionari i vegani, i salutisti e persino coloro che fanno la raccolta differenziata.
La mente reazionaria non è una «mente naufragata», quanto invece il tentativo di strumentalizzare la ragione a fini eversivi. La stessa distopia, ovvero la negazione di ogni speranza utopica, non è per il reazionario la narrazione di un futuro insostenibile, bensì la conseguenza confortante del ristabilimento dell’ordine infranto. È la narrazione di una faticosa conquista della perfezione; qualcosa che assomiglia al senso di giustizia, ma che è più probabilmente volontà di dominio.
Il nuovo libro di Mark Lilla sottolinea una giusta esigenza: analizzare le idee di chi sogna radicali ritorni al passato. Ma trascura autori fondamentali come Schmitt, de Maistre, Spengler. E soprattutto sottovaluta il fatto che questi pensatori non negano la ragione, ma mostrano una grande capacità di strumentalizzarla ai fini della loro volontà di dominio