Corriere della Sera - La Lettura
I nuovi Pinocchi: il burattino sta tornando
Gli atti di un convegno, saggi, fumetti e film, tanti film: il burattino vive una nuova giovinezza. Si cimentano con lui Matteo Garrone con Benigni-Geppetto, di nuovo la Disney con Tom Hanks-Geppetto e l’Oscar Guillermo Del Toro
Guillermo Del Toro, che sta lavorando a un film per Netflix, ha ammesso di aver voluto fare Pinocchio da sempre. Matteo Garrone, che porterà la sua versione sugli schermi di Natale, con il burattino di Carlo Collodi si insegue fin da quando, bambino, disegnava i suoi primi storyboard. Moltissime sono state le versioni di un personaggio che, ha scritto Antonio Faeti, uno dei maggiori studiosi dell’opera di Collodi, «sta nel fiabesco, ma sempre pronto a fuggire, a correre via, non appena avverte il timore di una collocazione definitiva o di una cattura che duri davvero». Il critico Pietro Pancrazi nel piccolo testo pubblicato da Elliot nella collana Maestri, diretta da Antonio Debenedetti, interrogandosi sul perché ogni
anno, nella «stagione della neve e delle castagne», togliesse dagli scaffali dei libri più vecchi Le avventure di Pinocchio, cercasse un «posto quieto vicino alla stufa» e lo rileggesse, dopo aver fatto varie ipotesi arrivava a una risposta semplice: «Perché ogni anno sento di volergli più bene!».
Voler bene a Pinocchio è facile, tanto si è radicato nell’immaginario non solo italiano (incarna fin troppo bene il carattere nazionale), ma di tutto il mondo. E non è un caso che il burattino nato dalla penna di Carlo Lorenzini, continui a incalzare — a sfidare è il caso di dire — studiosi e creativi delle varie discipline. Come il designer Giulio Iacchetti che per NasonMoretti ha appena disegnato una collezione di vetri che ha chiamato Pinocchio combinando un cilindro, una sfera, il cono del cappello e, naturalmente, il naso sottile e appuntito. Una silhouette dalla forte carica simbolica che è facile vedere anche su copertine di libri che con Pinocchio non hanno nulla a che fare, come il Il genio della menzogna, saggio filosofico-letterario di François Noudelmann recentemente pubblicato da Raffaello Cortina.
La continua reinterpretazione (lo hanno fatto artisti contemporanei come Ugo Nespolo, Mimmo Paladino, Jim Dine, Maurizio Cattelan) lo mantiene giovane; d’altro canto Italo Calvino scriveva che «da una parte un Pinocchio centenario non si riesce a immaginarlo; dall’al
tra viene naturale di pensare che Pinocchio ci sia stato sempre», come se non ci si potesse immaginare un mondo senza di lui.
Forse il fatto di essersi sempre mantenuto libero «da pedanterie e obblighi scolastici» — come sottolineano Paola Ponti e Martino Marazzi, curatori del volume della «Rivista di letteratura italiana» che ha appena raccolto gli atti del convegno alla Cattolica di Milano del maggio 2017 — unito a un sistema editoriale che lo ha continuamente portato in libreria e al fascino che ha esercitato sugli altri linguaggi lo hanno fatto diventare «un classico non istituzionale». La creatura di Collodi ora è «un’entità», per usare ancora le parole di Faeti. Nel corso degli anni, da quando è comparsa per la prima volta, il 7 luglio 1881, nella prima puntata de La storia di un burattino sul «Giornale per i bambini», ha superato sia il libro che la figura. «Ti mando questa bambinata... fanne quello che vuoi ma se la pubblichi pagamela bene per invogliarmi a seguitarla» aveva scritto al direttore del giornale Collodi che, in ogni caso, continuò fino al capitolo XV, quando gli assassini raggiungono Pinocchio alla porta della casa della Bambina dai capelli turchini e lo impiccano alla Quercia grande, in uno dei finali più angoscianti della storia della letteratura per ragazzi. Lo stesso Collodi non accetterà quella fine così cruda («Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe, e dato un grande scrollone rimase lì come intirizzito») e la sto
L’acclamato regista messicano de «La forma dell’acqua» ha annunciato che farà una favola politica ambientata nell’Italia degli anni Trenta. Pinocchio sarà una sorta di Frankenstein
ria, qualche mese dopo, continuò sul giornale con il titolo Le avventure di Pinocchio per diventare un volume nel 1883.
Le forme del burattino
La scena dell’impiccagione scompare nella celebre versione Disney, datata 1940, che vede trasformare il burattino «da discolo impenitente e sfrontato a prototipo dell’innocenza e della sprovvedutezza», come ricostruisce Gianni Bono, nel saggio contenuto in Pinocchio e la
sua immagine (Giunti). Rileggere, o riscrivere, anche cinematograficamente, un libro come Pinocchio è impresa scivolosa, che ha il fallimento come orizzonte più probabile. Non è un caso che il cartone animato Disney, che più smussa le peculiarità del burattino, sia il più universalmente noto. Lo coglie, nel saggio L’invenzione
della solitudine, lo scrittore americano Paul Auster che all’originale collodiano è arrivato passando attraverso la versione Disney: la reticenza a chiarire le motivazioni della vicenda che nel libro «restano intatte, in una forma onirica e preconscia», nel cartone animato vengono esplicitate e quindi banalizzate. Pinocchio non segue direttive, nemmeno dalla Fata Turchina: «Improvvisa, abborraccia, vive, e a poco a poco perviene alla consapevolezza dell’essere che può diventare», sintetizza felicemente lo scrittore americano.
E se la stessa Disney ha messo in programma la versione live action della fiaba — con Tom Hanks che dovrebbe vestire i panni poveri di Geppetto — in Italia l’attesa è tutta per la versione di Matteo Garrone, di cui si sono viste le prime, promettenti immagini. Il film segna il ritorno sul set di Roberto Benigni, 17 anni dopo «il suo» Pinocchio (un progetto, partito anni prima con Federico Fellini). Questa volta non sarà lui a interpretare il burattino (il ruolo tocca a Federico Ielapi, attore romano di 8 anni), la maturità gli porta in dono Geppetto (ruolo che il «piccolo diavolo» ha catalogato come «una forma di felicità»), accanto a Gigi Proietti- Mangiafuoco, Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini-il Gatto e la Volpe. «Negli anni ho sempre sentito in quella storia qualcosa di familiare — ha detto Garrone annunciando il progetto — come se il mondo di Pinocchio fosse penetrato nel mio immaginario, tanto che in molti hanno ritrovato nei miei film tracce delle sue avventure».
E poi c’è Guillermo Del Toro. Anche sulla versione (forse musical) per Netflix del pluripremiato autore messicano de La forma dell’acqua, c’è molta attesa e le informazioni sono pochissime. Del Toro ha annunciato che sarà una favola politica in stop motion (una tecnica di animazione che usa, in alternativa al disegno, oggetti inanimati), ambientata nell’Italia degli anni Trenta durante l’ascesa del fascismo. Il suo Pinocchio sarà una sorta di Frankenstein, «una creatura nata in modo innaturale da un padre che poi allontana», una creatura «che deve conoscere il fallimento, il dolore e la solitudine». «Non c’è favola senza politica» è il credo di Del Toro, quindi c’è da aspettarsi una versione dark che, non soltanto dal punto di vista delle immagini, potrebbe essere rivoluzionaria. Di certo, per quanto animato, non sarà un film per famiglie.
Bambinate per adulti
La modernità di Pinocchio, il suo esserci sempre, irriducibilmente, contemporaneo, pur sfuggendo a qualunque classificazione, emerge anche dalla rilettura teatrale che ne hanno fatto Silvia Calamai, Dacia Maraini e Paolo Taramella al Centro Culturale Italiano Italytime, nel West Village di New York. Il burattino alle prese con monete da seppellire e turlupinato dal Gatto e dalla Volpe; Pinocchio accudito e preso in giro dalla Fata dai capelli azzurri; Pinocchio irretito nel Paese dei balocchi: sono tre scene capitali del romanzo di Collodi che gli autori raccontano. Tre episodi, Tre sguardi su Pinocchio, come recita il titolo del libro pubblicato da Robin edizioni, che mostrano il burattino-bambino che conosciamo: «Disobbediente, ingenuo, egoista, pigro, bugiardo, ma anche amabile, allegro, vitale e generoso». Per Dacia Maraini è l’occasione per riflettere sui grandi temi del presente: «Il desiderio di paternità, il rapporto complesso e giocoso che può prodursi fra menzogna e verità, la voglia di creare un figlio, a costo di scavarlo in un pezzo di legno, la fuga dalla povertà, il sogno di un futuro migliore, l’inganno e la crudeltà dei forti sui deboli». Temi attuali perché eterni.
Che non fosse «una bambinata» ma anche libro di satira sociale, di ant ropol ogi a , di i ndagi ne sull’infanzia, d’altronde, doveva saperlo bene anche il suo autore. Piero Dorfles, critico e divulgatore, nel suo appassionato Le palline di zucchero della
Fata Turchina, da poco pubblicato da Garzanti, riporta il lettore alle origini del libro notando come Collodi abbia voluto scrivere, più che un libro per bambini, un libro sui bambini, «su come sono fatti, su com’è il loro mondo, su come si articola il loro linguaggio e il processo di organizzazione che lo sostiene». Quella di Dorfles è una vera, documentatissima indagine letteraria che tocca archetipi e simboli dell’opera di Collodi, che entra con Pinocchio nel ventre del Pesce-cane, nella guazza «sdrucciolona» che deve attraversare per trovare Geppetto, invecchiato e imbiancato «come fosse di neve o di panna montata», seduto a una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde. Il viaggio di Dorfles si spinge anche nello stile di Collodi, in quella mescolanza di toscano e italiano, di linguaggio popolare con le sue frasi fatte, e linguaggio alto, da cui deriva una lingua genuina «né alta né bassa, adatta a un Paese che si apre ai consumi di massa». Le suggestioni che offre il testo collodiano sono infinite se è vero che anche Hans Tuzzi nel suo ultimo giallo Polvere d’agosto (Bollati Boringhieri), inserisce «il più grande testo iniziatico della letteratura italiana dopo Dante» in una trama che coinvolge libri antichi e presunti legami massonici. E Pinocchio come opera iniziatica massonica viene evocato anche nel nuovo thriller di Luca D’Andrea, Il respiro del sangue (Einaudi Stile libero).
Visto da lontano
Il libro di Collodi è stato anche una sorta di esame di maturità per gli illustratori. Dalle prime tavole di Mazzanti, Chiostri, Mussino a quelle di Topor, Cassinelli, Innocenti, in molti si sono seduti, matite in mano, di fronte a questo gigante dell’immaginazione. Qualche mese fa Bompiani ha riportato in libreria le tavole di Lorenzo Mattotti: pastelli a cera, giochi d’ombre, movimenti, spessori e lì, sì, il burattino svolazza impiccato alla quercia in una notte buia di tempesta. Luca Caimmi per il volume di Orecchio Acerbo lo ha trasformato in pesce immergendolo in un mondo acquatico dove nuotano tutte le creature collodiane: Mangiafuoco ha le pinne, la Fata Turchina è una sirena con la sfera di cristallo, mentre sullo sfondo le colline marchigiane, luogo d’origine dell’artista, producono un suggestivo effetto straniante.
Bisognerà invece aspettare Lucca Comics (dal 30 ottobre al 3 novembre) per ritrovare sugli scaffali Povero Pi
nocchio, storia di un bambino di legno, opera prima a fumetti, e per certi versi fuori dagli schemi, uscita vent’anni fa dalla testa di quelli che allora erano due esordienti e ora sono firme riconosciute di questo mondo: Alessandro Bilotta (creatore di Mercurio Loi, è autore anche di alcuni «Dylan Dog») ed Emiliano Mammucari (tra le altre cose con Roberto Recchioni ha creato per Sergio Bonelli Editore la serie Orfani). L’editrice Star Comics ha annunciato che celebrerà l’anniversario con una nuova edizione rimasterizzata e con contenuti extra che ne raccontano la lavorazione. Delicati disegni ad acquerello e una storia alternativa, trovata tra le pieghe del racconto di Collodi, mettono di fronte alla vera domanda: e se fosse meglio non diventare mai un bambino? Restare di legno, per restare sé stessi.