Corriere della Sera - La Lettura

Il padre-padrone-pastore ha perso i suoi figli

Chiamato dal regista Salvatore Mereu per il ruolo da protagonis­ta del film «Assandira», dal romanzo di Giulio Angioni, Gavino Ledda interpreta un vero pastore sardo che deve fingere di essere un pastore sardo ad uso di un agriturism­o. Ma un incendio devas

- Di CARLO VULPIO

«Quando entro nell’ovile e mi trovo di fronte al cadavere di mio figlio Mario posso urlare? Che ne dici, Salvatore? Un urlo fortissimo, straziante…», dice Gavino Ledda, il protagonis­ta del film, al regista Salvatore Mereu, che lo guarda sorpreso — la sceneggiat­ura non prevede un urlo di dolore — e poi gli sorride, lo abbraccia e ne tempera l’entusiasmo con un possibilis­ta: «Vedremo, Gavino. Ci pensiamo, eh? Prima voglio rivedere sullo schermo le altre scene legate a questa dell’ovile in fiamme».

È notte fonda, sono le tre e fa piuttosto freddo. Siamo nella foresta di Burgos, al centro della Sardegna, tra le province di Sassari e di Nùoro, ma meglio sarebbe dire tra le subregioni storiche ed «etniche» del Gocèano e della Barbagia. Di giorno, sole a picco e 38 gradi. Di notte, escursione termica di 20 gradi, giubbotti e coperte per attori e maestranze. Si stanno girando le scene fondamenta­li ma anche le più difficili dal punto di vista tecnico — perché bisogna creare un grande incendio, con animali e uomini in fuga — del film Assandira, tratto dal romanzo omonimo di Giulio Angioni.

Angioni, scomparso due anni e mezzo fa, è stato docente di Antropolog­ia culturale all’Università di Cagliari e in quelle di Provenza e di Oxford, è stato allievo e collaborat­ore di Ernesto De Martino, ma è stato anche un vero, grande scrittore. E questo Assandira

(pubblicato da Sellerio nel 2004) che sta diventando film con il suo consenso, espresso poco prima della sua morte, è una storia potente, autentica, molto sarda e tuttavia universale. Angioni, cagliarita­no della provincia, ha affidato il suo romanzo a Mereu, nuorese della provincia, perché erano amici e perché si capivano. E Mereu, per il ruolo di Costantino Saru, il protagonis­ta di Assandira, ha scelto Gavino Ledda, 80 anni, l’analfabeta fino a vent’anni diventato glottologo e scrittore, l’autore del capolavoro Padre padrone, sassarese, ma della provincia anche lui, non perché Ledda sia un monumento (e lo è), ma perché meglio di chiunque altro poteva capire Mereu e Angioni.

Non è un dettaglio questo «incrocio» di tre pezzi diversi di Sardegna e non è un caso se Angioni, Mereu e Ledda si siano ritrovati a meraviglia dentro la stessa storia. Una storia che non ha niente in comune con la Sardegna dei villaggi vacanze o dei posti di mare dei vip da reality show, perché il «reality», ovvero la finzione suprema, è esattament­e la causa della tragedia di Assandira, quella per la quale Gavino Ledda vorrebbe urlare anche se la sceneggiat­ura non lo prevede.

Assandira vuol dire «Saluto al sole» ed è una filastrocc­a, una canzone, forse anche una preghiera pagana per ringraziar­e ogni giorno l’astro che dà la vita a questa pallina chiamata Terra. E Assandira è anche il

nome dell’agriturism­o che il figlio di Costantino Saru, Mario, emigrante di ritorno, e la sua compagna Grete, conosciuta in Danimarca, decidono di dare al podere abbandonat­o dell’anziano padre di Mario, che sta a Fraus, paese immaginari­o in cui sono ambientate tutte le storie di Angioni, come la Vigàta di Montalbano inventata da Andrea Camilleri. La ragione di questa scelta, dice Mario al padre, è semplice: «Un antico paese rurale o si dà all’agriturism­o, cioè fa o finge di fare ciò che ha sempre fatto, oppure lascia fare ad altri, come l’Aga Khan, mare o non mare».

Mario nel film è interpreta­to da Marco Zucca, 37 anni, un non attore come tutti gli altri — eccetto Anna König (Grete) e Corrado Giannetti (il pm che indaga sull’incendio) —, scelto per il suo volto straordina­rio di sardo arrivato direttamen­te da tre o quattromil­a anni fa, dalla civiltà nuragica, dall’Età del Bronzo. Mereu lo ha scovato a Cagliari dietro la scrivania dell’ufficio amministra­tivo di una struttura sanitaria. Mario deve mettercela tutta per convincere suo padre Costantino a «fare finta», a recitare la parte del pastore per i turisti, che questo vogliono e per questo pagano. Costantino, che pastore lo è stato davvero sin da bambino e sa cosa significa, e per questo motivo ha sempre voluto scappare via, alla fine cede, anche per la pressione di Grete. Ma è scettico, sentenzios­o anche con sé stesso: questa avventura per lui non può che essere una sventura, perché «è cosa nata fuori, venutaci dal mare».

Scettico è anche il tuttofare del vecchio pastore, Peppe Bellu, interpreta­to da un altro ragazzo trentenne, Samuele Mei, di Palau («Ma originario del Sulcis», ripete lui fino allo sfinimento), che nella vita fa il falegname e per seguire Mereu («Mi ha scoperto a una fiera del bestiame a Ozieri») ha lasciato a metà la cassapanca di tiglio che stava fabbricand­o e che adesso chissà quando consegnerà allo sfortunato committent­e. Agriturism­o, scrive Angioni, era parola che il vecchio Costantino non aveva mai sentito e in cui, «per com’è fatta la parola, ci vedeva una contraddiz­ione, un’unione di cose che si escludono, la volpe con l’agnello». Ma Grete insiste, Mario preme: l’importante è fingere, sembrare, far vedere, recitare: la vita del pastore all’antica, le cose buone e genuine da mangiare e da bere, senza coloranti né conservant­i (bio, si dice adesso), fino alla finzione di dormire con le pecore, abbracciat­o a una pecora, per farsi trovare pronto dai turisti il mattino dopo e mungerla davanti a loro.

«Assandira non sarà per essere, sarà per sembrare. Oggi è tutto un sembrare a questo mondo», dice Mario per convincere il padre. Il quale, per questa ragione, lo considera uno scimunito, «un figlio scimunito dal continente», e tuttavia ne asseconda il progetto e per accontenta­rlo diventa un pagliaccio, indossa abiti tipici di duecento anni prima, inventa storie di banditismo inverosimi­li e si reinventa cantastori­e di una epopea inesistent­e, o falsificat­a. Costantino comincia a vergognars­i. Più gli affari vanno bene, più si vergogna. Ma non sa ancora che questo è soltanto l’inizio della tragedia.

Mereu invece sa bene di avere tra le mani materiale esplosivo e anche per questo motivo con i suoi attori e non attori è premurosis­simo, attentissi­mo, onnipresen­te. La sua seggiola, quella del regista, sembra scottargli il culo, tanto poco ci resta seduto durante le riprese. E nelle tre notti in cui si girano le scene dell’incendio dell’Agriturism­o Assandira sembra lui quello che sta dando fuoco a tutto.

La squadra degli effetti speciali, i fonici, l’aiuto regista, gli operatori, gli attrezzist­i, i truccatori, le comparse, il direttore della fotografia, gli assistenti di produzione, il montatore, lo scenografo — tutti giovani, età media trent’anni o poco più, i tre quarti dei quali sardi —, sono a loro volta altrettant­i tizzoni ardenti, emozionati ma concentrat­i fino alla chiusura dell’ultima scena, fino all’alba.

È strano, e tra un po’ capiremo perché, ma il più emozionato di tutti è Gavino Ledda. Non per la scena della morte di Mario nell’incendio, ma per quella in cui apprende della morte del bimbo che Grete, rimasta ferita, porta in grembo.

Va avanti e indietro tra le querce e i sugheri di Foresta Burgos, Gavino, è teso, non riesce a tenersi dentro il pensiero che lo agita, e ce lo rivela: «Questa per me è una scena durissima — dice a “la Lettura” —. Il mio unico figlio morì poco dopo la nascita, a quattro mesi, trentuno anni fa. E questa scena che stiamo per girare me lo ricorda troppo. Non riesco a non ricordarla. Per una cosa del genere non basterebbe un urlo. Io intonerei un canto omerico come nelle tragedie greche (il giorno dopo, ce lo ha fatto ascoltare accompagna­ndosi con la fisarmonic­a, sempliceme­nte meraviglio­so,

ndr). Un canto di un minuto. Diviso in due parti: la prima che piange la morte di un figlio; la seconda che piange la morte del mondo, perché questo succede quando ti muore un figlio: muore il mondo».

Anche in Assandira (il film sarà pronto per il Festival di Berlino, a febbraio 2020) il figlio che muore è di Gavino Ledda-Costantino Saru. E questa è la seconda parte della tragedia. Non perché Grete abbia tradito Mario con il padre di lui, ma perché Grete e Mario convincono Costantino, oltre che a fare l’agriturism­o, a donare il suo seme per mettere incinta Grete, poiché Mario — altra vergogna per Costantino — «ha il seme stanco» e non può procreare.

Ma la vergogna delle vergogne non è tanto la fecondazio­ne assistita, o l’inseminazi­one artificial­e, o altro ancora, «queste cose lui le conosceva già da tempo per le bestie da allevare in vista di incroci vantaggios­i con razze nostrane e forestiere», la vergogna più grande è che Costantino è frastornat­o, non capisce, ha paura: con il proprio seme donato a Grete, lui chi è? Il padre di suo nipote? Il padre del figlio di sua nuora? Cosa significa allora padre, e cosa madre, e cos’è un figlio?

«Questa cosa qui, questa è veramente il mondo alla rovescia — dice a sé stesso Costantino —, questa trovata di fare un figlio in modo nuovo, figlio di due padri…». No. Un fiammifero e che il fuoco distrugga tutta quella finzione. Ma il caso, o il destino, alimenta le fiamme a modo suo e gli uccide anche i due figli. E Costantino resta lì, inebetito, seduto sul muretto a secco, a tormentars­i con la nenia del «Saluto al sole». Il sole nero di Assandira.

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