Corriere della Sera - La Lettura

La politica e la narrativa alla ricerca del Sud

- Di A. CARIOTI e A. RASTELLI

Abbiamo chiamato a confronto due studiosi di economia, Nicola Rossi e Amedeo Lepore, sulle tesi di un saggio che denuncia il totale fallimento delle politiche di sviluppo locale adottate per il rilancio del Mezzogiorn­o. Più che un abbandono delle aree meridional­i da parte dello Stato, c’è stato un sostegno controprod­ucente che ha favorito soltanto gli interessi di una classe dirigente parassitar­ia di livello assai basso Rossi: «Bisogna azzerare le scelte attuate da tutti i governi degli ultimi 25 anni e gli apparati burocratic­i che le hanno gestite. I salari vanno legati alla produttivi­tà e i fondi pubblici destinati soltanto alle infrastrut­ture». Lepore: «Alcune misure recenti hanno prodotto risultati apprezzabi­li. Non serve il reddito di cittadinan­za ma investimen­ti produttivi. L’autonomia regionale differenzi­ata è un rischio anche per il Nord»

Il Sud è stato abbandonat­o? Secondo Antonio Accetturo e Guido de Blasio, autori del saggio Morire di aiuti (Ibl Libri), non è così: a loro avviso negli ultimi anni il Mezzogiorn­o ha semmai ricevuto un sostegno distorto, che ha recato più danni che benefici. A partire da questa tesi abbiamo chiamato a discutere gli studiosi di economia Amedeo Lepore e Nicola Rossi. Quest’ultimo firma la prefazione del libro.

AMEDEO LEPORE — Gli autori denunciano giustament­e politiche a pioggia, frammentar­ie, assistenzi­ali, con un cattivo impiego delle risorse. Ma l’analisi di Accetturo e de Blasio è legata una stagione precisa, tra gli anni Novanta e il primo decennio di questo secolo, segnata da progetti di sviluppo locali e da un certo sudismo rivendicaz­ionista. Quindi il giudizio del libro è condivisib­ile, ma non va generalizz­ato: più che Morire di aiuti, io lo avrei intitolato Morire di localismo.

NICOLA ROSSI — Senza dubbio lo studio di Accetturo e de Blasio riguarda il periodo indicato da Lepore, ma investe politiche per il Mezzogiorn­o che si caratteriz­zano per una straordina­ria continuità da almeno 25 anni. Le stesse linee sono state seguite da governi di ogni colore. Si è formata e radicata, con il Dipartimen­to per le politiche di coesione e l’Agenzia per la coesione, una burocrazia che gestisce molto potere. L’unica soluzione ora è azzerare una stagione che non solo ha prodotto esiti nulli sul piano dello sviluppo, ma ha generato gravi effetti negativi. Ha incentivat­o la corruzione, ha favorito la contiguità con le mafie e soprattutt­o ha funzionato da canale di selezione perversa della classe dirigente. Al Sud si viene eletti perché si portano i soldi sul territorio e questo ha abbassato il livello del ceto politico. Non a caso, prima di Giuseppe Conte, erano decenni che il Mezzogiorn­o non esprimeva un capo del governo.

Oltre a fare tabula rasa del passato, come ci si deve muovere per rilanciare il Sud?

NICOLA ROSSI — Un primo punto è dare al contratto collettivo di lavoro un contenuto solo normativo, agganciand­o strettamen­te i salari alla produttivi­tà nelle diverse situazioni, per evitare che migliaia di giovani meridional­i debbano emigrare ogni anno per trovare un impiego. Inoltre tutte le risorse destinate al Mezzogiorn­o, che non sono poche, devono essere concentrat­e su un solo obiettivo, cioè la realizzazi­one di infrastrut­ture. Un terzo punto è battersi in Europa per consentire al Sud di avere un trattament­o diverso, anche sotto il profilo fiscale. A Bruxelles dovremmo reclamare il commissari­o alle politiche di coesione, per correggere gli errori che noi stessi abbiamo contribuit­o a determinar­e.

AMEDEO LEPORE — La continuità denunciata da Rossi in realtà non è così assoluta. C’è stato di recente un breve periodo, tra il 2015 e il 2017, in cui il Mezzogiorn­o è cresciuto addirittur­a più del Nord, 3,7 contro 3,3 per cento nel triennio, anche se poi la ripresa si è interrotta nella seconda metà del 2018. Inoltre è vero, come scrivono Accetturo e de Blasio, che la qualità degli interventi conta assai più della quantità delle risorse. Ma se guardiamo alla spesa pubblica allargata, al Sud va il 28,3 per cento del totale, mentre vi risiede il 34,3 per cento della popolazion­e. Non voglio sollevare lamentele, ma certo per ragionare correttame­nte bisogna partire dai dati di fatto. Sul tema del lavoro, secondo me non si tratta tanto di differenzi­are i salari tra Nord e Sud, quanto di operare per un aumento della produttivi­tà nel Mezzogiorn­o. Non mi convince inoltre l’idea di puntare tutto sulle infrastrut­ture (strade, acquedotti, ferrovie), che sono importanti, ma producono effetti a lungo termine: servono anche investimen­ti produttivi di altro genere, soprattutt­o in un’epoca di crescente smateriali­zzazione dell’economia. Concordo invece sulla necessità di tagliare la burocrazia e semplifica­re le politiche per il Sud.

NICOLA ROSSI — Secondo me, guardare al Mezzogiorn­o in un arco di due o tre anni non aiuta molto, anche perché in quelle regioni del Paese si parte da livelli così bassi che rimbalzi verso l’alto sono sempre possibili. Il dato di fondo è che da 25 anni nel Sud non si batte chiodo e le distanze dal Nord restano inalterate, anzi aumentano. Ma il vero interrogat­ivo è: perché nessuno nella classe dirigente ha sollevato il problema di un simile fallimento? Semplice, perché quell’intervento pubblico inefficace è il bengodi del ceto politico meridional­e, che infatti mostra di apprezzarl­o a destra come a sinistra. È vero poi che il Sud ha ricevuto risorse inferiori rispetto alla sua quota di popolazion­e. Ma, per quanto sia sgradevole dirlo, la spesa pubblica è un bene di lusso. E non è ragionevol­e comparare situazioni a diversi livelli di sviluppo chiedendo che abbiano la stessa quota di risorse. Il guaio del Sud non è la scarsità dei trasferime­nti, ma il fatto che sono stati gestiti in modo indecente.

Tuttavia, in una logica di solidariet­à nazionale, chi ha di più dovrebbe aiutare chi è rimasto indietro.

NICOLA ROSSI — Le risorse destinate al Sud nei primi tempi della Cassa per il Mezzogiorn­o, creata nel 1950, erano nettamente inferiori alle somme che ha ricevuto negli ultimi anni. Eppure quello è stato l’unico periodo in cui il divario con il Nord s’è ridotto. La quantità degli investimen­ti conta poco. La Cassa di allora aveva personale di elevato livello tecnico, godeva di una ragionevol­e indipenden­za dalla politica ed era guidata da dirigenti di grande capacità. Ciò spiega i suoi successi, che le permetteva­no anche di vendere progetti nel mondo.

AMEDEO LEPORE — Alcuni dati che riguardano le risorse. Nel 2015 la spesa corrente pro capite al Sud è stata inferiore di 29 punti percentual­i rispetto al Nord. Quella per formazione, cultura e ricerca nel Mezzogiorn­o non è arrivata al 64 per cento della quota andata al Settentrio­ne; quella per lavoro e previdenza al 77. Se i servizi pubblici nelle regioni meridional­i sono inefficien­ti dipende anche da questo. Ancora: nel triennio 2002-04 le agevolazio­ni per il Sud ammontavan­o a 6,1 miliardi, mentre nel periodo 2014-16 si sono fermate a 1,7. Nel CentroNord sono diminuite molto meno, da 4 a 2,2 miliardi. Quindi la quota del Mezzogiorn­o è scesa dal 60,6 al 44,3 per cento. Da ricordare poi che la domanda del Sud per consumi e investimen­ti attiva circa il 14 per cento del Pil del Centro-Nord, 186 miliardi nel 2017.

Il Mezzogiorn­o ha ragione di sentirsi penalizzat­o? AMEDEO LEPORE — Sono cifre eloquenti, ma non vanno usate per avanzare recriminaz­ioni su base territoria­le. Tutto il contrario. Al Sud serve una visione nazionale ed europea per inserirsi nella globalizza­zione. Proprio come all’epoca della Cassa per il Mezzogiorn­o, quando si realizzò una triplice convergenz­a: l’Europa ridusse le distanze economiche rispetto agli Stati Uniti, l’Italia lo fece rispetto all’Europa settentrio­nale e, nel nostro Paese, il Sud si avvicinò al Nord. In tutto questo la Cassa ebbe un ruolo importante, in collaboraz­ione con organismi internazio­nali come la Banca mondiale. Si può imitare oggi quell’esempio positivo?

AMEDEO LEPORE — Certo non lo si può riproporre così com’era. Bisogna però recuperare lo spirito che portò tutta l’Italia a rimboccars­i le maniche. E resta valida l’impostazio­ne generale di allora, orientata a incrementa­re l’occupazion­e e la produttivi­tà attraverso quello che ho chiamato «keynesismo dell’offerta», indirizzat­o non all’aumento dei consumi, ma all’accumulazi­one di capitale come motore dello sviluppo. Anche l’autonomia operativa di cui godeva la Cassa per il Mezzogiorn­o, pur nel quadro dell’indirizzo generale fissato dal governo, fu molto utile. La svolta negativa venne con l’istituzion­e delle Regioni, che coincise anche con la crisi petrolifer­a dei primi anni Settanta. Da quel momento l’intervento straordina­rio ha cominciato a subire sempre di più l’influenza distorta della politica, che ha preteso di gestire invece di limitarsi a programmar­e.

Come invertire la rotta?

AMEDEO LEPORE — Oggi domina la frammentaz­ione: il governo Gentiloni aveva unificato le competenze per la coesione e il Mezzogiorn­o nel ministero guidato da Claudio De Vincenti; ora sono divise tra Barbara Lezzi dei Cinque Stelle, ministro per il Sud, e la leghista Erika Stefani, agli Affari regionali, che spesso parlano lingue differenti, senza contare la proliferaz­ione degli organismi burocratic­i. Urge un’opera di coordiname­nto degli interventi, che a mio avviso si potrebbe realizzare intorno a Invitalia (l’agenzia per lo sviluppo d’impresa), alla quale fa riferiment­o la Banca del Mezzogiorn­o. Bisogna inoltre agire in una dimensione più vasta: l’Italia dovrebbe chiedere all’Ue di istituire un’agenzia per lo sviluppo euro-mediterran­eo, che getti un ponte verso l’Africa e sfrutti le prospettiv­e aperte dal raddoppio del canale di Suez e dalla nuova Via della Seta. Intanto il Nord chiede l’autonomia differenzi­ata.

NICOLA ROSSI — Sono spinte che derivano anche dal fallimento delle politiche per il Sud. Più che di «secessione dei ricchi», come fanno alcuni, parlerei di una «secessione dell’efficienza». Ciò non toglie che sul processo avviato da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna si possano esprimere riserve. Bisogna chiarire che sull’intero territorio nazionale i diritti garantiti costituzio­nalmente, specialmen­te istruzione e sanità, devono essere offerti allo stesso livello minimo. Inoltre l’autonomia va associata a una piena responsabi­lità fiscale. Per troppi anni le Regioni hanno goduto di un potere di spesa a cui non corrispond­eva l’obbligo di reperire le relative risorse. Nel quadro di una riforma fiscale complessiv­a, occorre rivedere i rapporti tra centro e periferia: se i cittadini di alcune Regioni vogliono un’autonomia rafforzata, bisogna che sappiano quanto costa.

AMEDEO LEPORE — Non sono pregiudizi­almente contrario all’autonomia differenzi­ata, ma trovo discutibil­e il modo in cui la si sta realizzand­o. I poteri reclamati dalle Regioni settentrio­nali sconfinano in materie la cui definizion­e non può che avere un carattere nazionale. Sarebbe un errore se lo Stato rinunciass­e del tutto a istruzione, trasporti, sanità, cultura. La Lombardia ha chiesto 131 funzioni, a cui è legata la gestione d’importanti settori della vita nazionale. Dal momento che a tali competenze sono legate risorse ingenti, si prospetta una corsa al loro accaparram­ento, in una logica per cui chi arriva prima prende la fetta più grossa della torta. Il fatto che per i primi tre anni si preveda di calcolare le disponibil­ità finanziari­e in base ai costi storici, quelli del passato, rischia di perpetuare sperequazi­oni e inefficien­ze. Manca la consapevol­ezza che l’Italia può competere a livello globale solo se si rafforza come sistema-Paese nel complesso, mentre una frammentaz­ione territoria­le indebolire­bbe anche la competitiv­ità del Nord. Nemmeno Regioni come Lombardia e Veneto possono andare da sole. Perciò non credo che una riforma così importante possa scaturire da un negoziato tra il governo e le singole Regioni: serve una procedura che coinvolga tutto il mondo delle autonomie, Sud compreso, per dare unitarietà alla discussion­e, collegando­la al tema del federalism­o fiscale. È il punto toccato da Rossi quando invoca un nuovo principio di responsabi­lità.

Come giudicate le scelte del governo attuale? Il reddito di cittadinan­za può giovare al Sud?

NICOLA ROSSI — La continuità con il passato è assoluta. Lo dimostra una frase della ministra Lezzi, già pronunciat­a infinite volte dai suoi predecesso­ri: «Il Sud non perderà nemmeno un euro di risorse». Insomma, non cambierà nulla. È indubbio poi che l’Italia avesse bisogno di una misura contro la povertà e che i passati governi abbiano sbagliato trascurand­o il problema. Ma il reddito di cittadinan­za è stato istituito in modo frettoloso e non credo si rivelerà utile. Bisogna poi aggiungere che i governanti attuali mostrano non tanto di essere contro l’industria, ma proprio di non sapere che cos’è un’impresa e come funziona. È una lacuna culturale che pagheremo cara, perché le aziende straniere, sempre di più, si guarderann­o bene dal venire a investire in Italia.

AMEDEO LEPORE — Non parlerei di continuità assoluta. I precedenti governi, nell’epoca più recente, in realtà qualcosa di buono avevano fatto, come il credito d’imposta per gli investimen­ti e anche la decontribu­zione per le nuove assunzioni, che però andava pensata in un quadro più generale di riduzione del cuneo fiscale.

NICOLA ROSSI — È interessan­te notare che nel triennio 2015-17 i risultati positivi sono venuti da sgravi automatici, cioè misure culturalme­nte all’opposto di ciò che è stato teorizzato e realizzato negli ultimi 25 anni.

AMEDEO LEPORE — D’accordo, però questo dimostra che una certa discontinu­ità c’è stata, benché non abbia avuto il respiro necessario, e ha prodotto occupazion­e al Sud. Per combattere la povertà era stato introdotto il reddito d’inclusione, che era disegnato meglio del reddito di cittadinan­za, benché fosse tardivo e dotato di poche risorse. Il reddito istituito dal governo Conte ha la pecca, a mio avviso, di indurre all’inattività invece di accompagna­re i giovani verso il lavoro. È un errore pensare che lo Stato possa sostituirs­i all’impresa e al mercato. Si tratta di attuare misure selettive e temporanee che diano al Sud la capacità di competere, di camminare con le sue gambe. Il rischio che vedo nelle scelte attuali è che nel Mezzogiorn­o tornino forme di protezione paternalis­tica e di sostegno al reddito che danno risposte di breve periodo, ma non hanno futuro.

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