Corriere della Sera - La Lettura
Un progetto per salvare la Petra degli Etruschi
Civiltà A Norchia, nell’area di Viterbo, sopravvive a fatica una delle più straordinarie necropoli. Su alcune tombe è ancora leggibile il nome delle famiglie. Accanto a quelle, in disparte, la sepoltura di una schiava morta di parto con il suo neonato
Il sentiero è un viottolo angusto tagliato nella parete di tufo. Scende a precipizio in mezzo ai rovi e piomba un centinaio di metri più in basso in una valle stretta e lunga, dove scorrono le acque del Pile. In realtà, più che una valle è un canyon scavato fra massicci bastioni rocciosi. Siamo a Norchia, nell’area di Viterbo, uno dei più straordinari siti archeologici dell’Etruria. Un paesaggio aspro e solitario coperto da un fitto bosco di lecci. In mezzo agli alberi, ruderi imponenti rivelano opere arcaiche della mano dell’uomo.
Sono tombe. Una necropoli che risale al IV secolo a. C.
«La vegetazione la soffocava — dice l’archeologa Simona Sterpa —. L’abbiamo liberata dalla morsa delle piante con l’aiuto della Soprintendenza di Roma e la generosità di Lorenzo Benini e dell’imprenditore Romeo Stelliferi». È solo l’inizio. L’intero progetto coltiva l’ambizione di ripulire nell’arco di tre anni tutte le monumentali costruzioni
sparse in mezzo a sessanta ettari di bosco. Per far splendere di nuovo quella che è stata definita la Petra italiana. E renderla accessibile ai visitatori.
Alcune tombe sono incredibilmente ben conservate. In certi casi è possibile leggere perfino il nome della famiglia a cui appartenevano.
Ci sono le tombe degli Smurina, dei Tetatru, dei Veie e quella dei Ziluse che accoglieva due fratelli, la scritta «Vel figlio di Larth» corrispondeva al nome di uno dei due. Un’importante famiglia di Norchia doveva essere quella dei Churcle. Il nome è inciso su una tomba monumentale, isolata, ma semidistrutta. Notevole solo per una scultura difficile da interpretare, forse un felino, un animale cui era attribuito un duplice ruolo, di difesa del sepolcro e di accompagnamento nell’aldilà. Su un’altra tomba impressiona l’immagine del Charun, il demone, il Caronte incaricato di traghettare il defunto nell’altro mondo.
Le tombe più integre permettono di capire com’erano concepite. Le costruivano su quattro livelli. Cominciavano con uno scavo sotterraneo, un ipogeo accessibile attraverso una scala, il dromos. Da morto, ogni membro della famiglia trovava posto nella camera ipogea, dove i sarcofagi erano disposti su due linee a spina di pesce. Al piano terra, sotto una copertura retta da un colonnato, parenti e amici onoravano la memoria del caro estinto con danze e libagioni. Non era per gli Etruschi un evento suscettibile di tristezza e pianti. La morte era considerata solo un passaggio verso una nuova forma di vita. Per questo il defunto portava con sé tutti gli oggetti e i servizi necessari alla sopravvivenza nell’aldilà: cibo, vestiti, pettini, gioielli. Al di sopra del colonnato spiccava la parte più vistosa della tomba, un grosso blocco di tufo squadrato (di qui la dizione «tomba a dado»). Sulla facciata del dado un bassorilievo rettangolare simulava una porta. Simbolicamente, il defunto la attraversava entrando in un mondo nuovo e misterioso. Una scala scavata nella roccia conduceva in cima alla piattaforma finale. Lassù ogni defunto aveva diritto al suo ricordo personale sotto forma di cippo: una piccola colonna se il seppellito era un uomo, una casetta di tufo o un minuscolo busto per sepolture femminili. Mentre sotto il colonnato si danzava, sulla piattaforma si svolgevano preghiere, riti religiosi e propiziatori.
Quello che abbiamo perduto è il colore. Oggi vediamo solo il rosso del tufo. In origine le tombe erano rivestite di stucco bianco con strisce rosse e nere per mettere in rilievo alcuni dettagli architettonici.
La necropoli, la città dei morti, occupava in altezza e in lunghezza l’intera fiancata di un dirupo. Mentre di fronte, in cima a una collina di tufo, stava arroccata l’acropoli, la città dei vivi. Per
arrivarci, bisogna attraversare il ruscello Pile e risalire un camminamento ripido e tortuoso. In prossimità della vetta si aprono nel terreno le bocche scure e affogate nella vegetazione dei pozzi che fornivano acqua per gli abitanti, per gli animali domestici e servivano a innaffiare le coltivazioni di cereali, legumi e ortaggi.
Delle abitazioni arcaiche non è rimasto niente. Le orme degli Etruschi sono state cancellate dalle popolazioni che si stabilirono sul pianoro durante il Medioevo. Questi abitanti successivi hanno lasciato segni non sempre mirabili: una sala circolare scavata nella roccia, con una colonna di tufo al centro, lo scheletro maestoso della chiesa di San Pietro e un arco di pietra che non ha nulla della raffinatezza degli Etruschi, ai quali si deve proprio l’invenzione architettonica dell’arco, poi copiato e perfezionato dai Romani. Niente, dunque, rimane dell’acropoli. Tuttavia, gli archeologi hanno rinvenuto un reperto significativo che illumina un aspetto della comunità etrusca. È un pocolom, vale a dire un piatto di ceramica decorato. Al centro è dipinto un elefante da guerra. La prima volta che Etruschi e Romani videro gli elefanti (li chiamavano buoi lucani) fu quando Pirro, re dell’Epiro, li portò in Italia nel 280 a. C. Il
pocolom di Norchia dovrebbe risalire a quell’epoca.
Dalla sommità si capisce che la zona abitativa era stata scelta con criterio. La città era molto protetta. Le forze della natura hanno spalancato sui lati della collina due valli solcate da ruscelli, il Pile da una parte e l’Acqualta dall’altra, che poi confluiscono entrambi in un terzo corso d’acqua, il Biedano. L’unico lato scoperto a sud fu reso inespugnabile con la costruzione di un muro e u n a t o r r e d ’a v v i s t a men t o i n t u f o . L’Etruria meridionale ha un cuore di tufo, eruttato dai vulcani milioni di anni fa.
Il nome originario di Norchia sembra che fosse Orcla. Già nel 1500 a. C, gli esseri umani si aggiravano fra queste lande. Ma le prime tracce importanti risalgono al VI secolo a. C. Geograficamente, la città occupava una posizione strategica, al vertice di un triangolo che agli altri due angoli vedeva a nord Tuscania e a ovest Tarquinia, con cui Norchia intrecciava commerci. Per favorire gli scambi commerciali le comunità etrusche avevano tracciato una via lungo la direttrice nord-sud che passava per Norchia. Poi i Romani conquistarono l’Etruria, ampliarono la via a una larghezza di 4 metri e 10 e la chiamarono via Clodia. Era ancora agibile nell’anno 800, quando la percorse Carlo Magno diretto a Roma per farsi incoronare imperatore dal Papa.
Al di là del ruscello Acqualta, sul fianco di una collina appaiono le colossali tombe a tempio, dette anche doriche. Sono la meraviglia di Norchia. Il frontone è istoriato con bassorilievi di figure umane e mitologiche, la Gorgone sembra puntarti gli occhi addosso. Nella fascia sotto il frontone si distinguono uno scudo, un demone alato e un gruppo di personaggi. «In origine — spiega l’archeologa Laura Ambrosini — ogni cosa era splendente di colori vivaci». Ricercatrice Cnr di etruscologia, Laura Ambrosini ha appena pubblicato il terzo libro dedicato alle tombe di Norchia. E sta lavorando all’ultimo volume, ne risulterà un monumentale studio in quattro tomi sulla città etrusca rimasta sepolta per secoli.
Davanti alle tombe a tempio, ce n’è una che suscita tenerezza per la storia che ci racconta. Custodiva lo scheletro di una ragazza sui vent’anni, alta un metro e 52. Aveva ai piedi sandali di legno e cuoio. Sul petto due monete di bronzo. E, accanto, i resti di un bimbo. La sepoltura isolata, fuori dalle tombe delle famiglie, fa ritenere che la giovane fosse una schiava morta di parto e sepolta con il suo neonato.
Norchia fu abitata fino al 1453, quando scoppiò un’epidemia di peste e malaria. Da allora divenne una città fantasma.