Corriere della Sera - La Lettura
Anche un killer, dice Elia Kazan, può servire il proprio Paese
Vent’anni dopo aver denunciato i colleghi «comunisti», il regista di «Fronte del porto» scrive nel 1972 «Gli assassini», un romanzo che sembra proprio una storia di traditori. Lo leggiamo nella traduzione di Ettore Capriolo
Il 1972, l’anno in cui esce Gli assassini, il terzo romanzo del regista Elia Kazan,èunannodis volta per l’America. La guerra in Vietnam continua, il bombardamento di Hanoi e Haiphong nel giorno di Natale provoca proteste in molti Paesi d’Europa. Negli Stati Uniti il movimento pacifista cresce di intensità, Jane Fonda e poi Joan Baez vanno a Hanoi. Il 1972 è l’anno dello storico viaggio a Pechino del presidente Richard Nixon, che in febbraio incontra Mao Zedong. In novembre, Nixon viene rieletto. Ma intanto, a giugno, scoppia l’affare Watergate, che porterà, due anni dopo, alle dimissioni del presidente. È una stagione difficile per un Paese diviso fra una «maggioranza silenziosa» (il termine silent majority fu coniato in America in quegli anni) che approva le scelte del governo e i gruppi di hippy e radicali che le contestano.
Di questo malessere profondo ci parla Gli assassini, il meno autobiografico dei libri di Kazan. Qui non ci sono personaggi di origine greca come in America America (1962, il racconto del viaggio dalla Turchia a New York) e ne Il compromesso (1967, l’emigrante è diventato un uomo di successo, marito adultero proprio come il regista). Certo, anche il sergente Cesario Flores è un emigrante: nato a Sonora, in Messico, è un cittadino americano che si è arruolato nell’esercito. È un bravo soldato, un patriota fedele al Paese che gli ha dato da vivere. Ha vissuto con le truppe di occupazione in Germania, dove ha sposato una ragazza tedesca, Else, e ora pre
sta servizio in una base nel Texas. Continua però a sentirsi legato alle antiche tradizioni, ai culti della sua infanzia, e per questo, fra le tre figlie avute, preferisce la maggiore, Juana, perché ha fattezze azteche come lui.
Juana, però, fugge da casa e si unisce a una comunità hippy che vive nel deserto: meditazione, amore libero, cannabis, Lsd e altri stupefacenti che liberano il flusso della coscienza. Contestano, i ragazzi, la società capitalistica e la guerra, la politica del sistema che vive di soprusi e violenze. Alcuni di loro spacciano, come Vinnie, il compagno di Juana, e sono fieri del loro essere fuorilegge. Cesario riesce a riportare a casa la figlia nella base dell’aereonautica, ma quando Vinnie e un amico arrivano in città, il buon soldato prende la pistola e li ammazza. Lui dice che ha solo voluto eliminare due trafficanti. Finirà sotto processo. I militari e i benpensanti sono dalla sua parte, ma il giudice istruttore gli contesta un delitto in cui non c’è neppure l’attenuante della legittima difesa. E a collaborare con il magistrato c’è Michael, l’hippy più ragionevole del gruppo, quello che pure aveva aiutato Cesario a ritrovare la figlia. Per lui l’omicida dev’essere condannato, in nome del diritto e della legalità, contro la campagna dell’esercito e dei bravi cittadini che anzi ritengono che il gesto di Cesario sia giusto perché è servito a liberare la società da due delinquenti. Dove sta la ragione, chi sono veramente gli assassini? I criminali sono quelli che contestano il sistema o quelli che lo appoggiano?
Vent’anni dopo la decisione più traumatica di tutta la sua vita (nel 1952 Elia Kazan aveva denunciato alla Commissione per le attività anti-americane del senatore Joseph McCarthy una decina di ex colleghi e amici, iscritti al Partito comunista o simpatizzanti) Kazan torna ad affrontare il dramma di coscienza di allora. Per molti fu il traditore, quello che aveva venduto i compagni in cambio di ricchi contratti a Hollywood, lui invece sostenne di aver fatto il dovere di ogni buon americano. Comunista negli anni Trenta a New York, quando lavorava in teatro, si era molto presto dissociato dal partito e dai suoi metodi staliniani. E nel clima della Guerra fredda aveva rinforzato la sua convinzione sulla «minaccia rossa». Chi era davvero il traditore, il bravo cittadino che faceva i nomi dei nemici del Paese o chi lavorava per quelli che volevano distruggere l’America? Lui, nel 1954, trasportava in un film il dilemma sul tradimento. In Fronte del porto — otto Oscar, di cui uno a Kazan e uno a Marlon Brando — lo scaricatore Terry Malloy (Marlon Brando) si ribella al predominio della mafia del porto che controlla i sindacati ed elimina chi non si assoggetta. Così va a denunciare alla polizia gli autori dell’uccisione di un suo amico che si era ribellato. Disprezzato da molti, Terry Malloy vince la sua sfida: chi denuncia, chi elimina i nemici del Paese non è un traditore, non è un assassino. Cesario come Terry Malloy ha fatto il suo dovere di bravo cittadino.
Eppure, anni dopo, nel 1999, nell’edizione dei due Oscar a Benigni, quando il vecchio regista si presentò sul palco per ricevere l’Oscar alla carriera, metà della platea restò seduta senza applaudire. In molti ancora non l’avevano perdonato.
Oggi leggiamo Gli assassini nella traduzione di Ettore Capriolo, quella del 1972 per il Club del Libro. Il libro che allora non arrivò nelle librerie, diventa una assoluta novità per il mercato.