Corriere della Sera - La Lettura
Lo stile contadino La reinvenzione del lavoro
Una passione straordinaria ha consentito a un artista, Piero Leddi, di collezionare per tutta la vita utensili da agricoltore, falegname, fabbro, sellaio, maniscalco, conciatore, ciabattino... Il risultato è ora questo piccolo museo in provincia di Alessa
Mille e più oggetti. Oggetti poveri dal design primitivo (ma anche elegante) e dai nomi che immediatamente richiamano alla memoria l’idea del lavoro, della fatica, della sofferenza (ma anche del riscatto sociale). Oggetti ormai dimenticati come il saracco (sega per il legno); il graffietto (attrezzo per incidere il legno); il gattuccio (utensile multiuso da falegnameria); la sponderuola (pialla lunga e stretta); il licciaiolo (per «fare strada» alla lama della sega); il lisciatoio (per lisciare, levigare, spianare); la cavicchia (forse il più antico di tutti, un semplice pezzo di legno o di ferro destinato a riempire un foro proprio come un dito). Oggetti ancora individuabili (forse più per «sentito dire» che per esperienza diretta) come il trapano, l’incudine, la fiocina («la stessa del Dio Nettuno»), il compasso, la pialla, le lame, la raspa, le tenaglie, la lima, il punzone, le morse, le pinze. Oggetti evoluti che raccontano anche di una condizione umana che cambia: la squadra, la riga, il calibro, il micrometro (una sorta di calibro ad altissima precisione).
Potrebbe sembrare l’estratto di un trattato di tecnologia meccanica — il più classico è quello dell’emerito ingegnere Germinal Giraudi pubblicato nel 1939 dalla Società editrice internazionale — o il racconto a parole di una delle tavole illustrate dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Lungo le pareti della Casa del Principe Doria (ma qui di «principesco»
c’è soltanto il lavoro) di San Sebastiano Curone (576 abitanti nella provincia di Alessandria, in bilico tra Piemonte e Liguria, lungo l’antica Via del Sale) si celebra per la prima volta la collezione di Piero Leddi (1930-2016), pittore nato proprio qui, vissuto in gioventù nella vicina Tortona e attivo per oltre mezzo secolo a Milano.
Mille e più utensili da falegname, da fabbro, da maniscalco, da contadino, da sellaio, da conciatore oppure da ciabattino «che — raccontava Leddi — riflettono nella loro varietà l’inesauribile ingegnosità di chi in epoche diverse e per usi differenti li ha prodotti». E che altro non sono, sempre secondo Leddi, che« prolungamenti di un arto umano, come una dentiera, come gli occhiali, come una gruccia».
Grazie anche all’allestimento curato da Piero Mega, artista e amico di lunga data di Leddi che sembra aver guardato alla lezione degli assemblaggi multiuso e multimateriali di Tony Cragg ( Stack, 1975; Mittelschicht, 1984; Minster, 1992) lungo le quattro pareti ricoperte di legno chiaro del grande spazio al primo piano non si ritrova un semplice repertorio di vecchi oggetti dimenticati, spesso arrugginiti (se di ferro) o scheggiati (se di legno) ma simboli di un’indagine appassionata e compulsiva intimamente legata all’esperienza artistica di Leddi. Che spesso ha scelto di rappresentare con determinazione questi strumenti di lavoro «cercando di coglierne la suggestione», ma anche «il rapporto tra il corpo umano e la materialità in cui l’uomo si trova a vivere e operare». E il loro destino «legato al declino dei mestieri tradizionali e all’avvento del lavoro meccanizzato». Anche per questo «il lavoro dell’artigiano e dell’artista, le forme degli utensili e la loro relazione con la funzione e la manualità» sono i temi del «Premio Piero Leddi 2019», dedicato ai giovani artisti, che anche quest’anno sarà organizzato in collaborazione con l’Accademia di Brera e con Artinfiera a San Sebastiano Curone. Da lunedì 15 luglio fino al 28, gli studenti candidati al premio (500 euro) parteciperanno alle Masterclass di Artinfiera, nelle quali i maestri artigiani trasmetteranno loro le tecniche di lavorazione della tornitura del legno, della serigrafia su vetro, dell’ecoprinting con tintura naturale e della ceramica. La passione di Leddi per questi oggetti di lavoro ha segnato la sua stessa storia familiare: dal padre falegname e da altri parenti artigiani Piero aveva appreso le tecniche di lavorazione dei materiali (tra gli oggetti non esposti per specifica volontà dell’artista c’è la cassetta con «25 sgorbie di mio padre falegname Leddi
«La sega aveva una voce ritmata, sprigionava il noce un profumo di semi tostati, il legno fresco mostrava le vene violacee»
Renzo, 1909»), mentre dal ramo materno arriva il legame con la terra, con l’agricoltura, con gli animali. La Bionda tortonese
e altre opere è così il titolo della mostra aperta al Palazzo Comunale di Fortunago (Pavia) fino al 22 settembre, una serie di ritratti di vacche di razza tortonese. Ancora una volta una creatura destinata alla fatica: la tortonese è la razza più utilizzata nelle risaie perché, pur rimanendo con le zampe immerse a lungo nelle acque, non sviluppa infiammazioni alle caviglie come gli altri bovini; è forte e adatta al tiro, sia degli attrezzi da lavoro che dei carri; chiamata anche montanara o montana ben si adattava ai pascoli montani; in grado di trascinare i pesanti carri dei boscaioli che recuperavano il legname per farne pali da vigna.
Ma la pittura neorealista di Leddi resta comunque una pittura «di città», fatta di interni di auto, di strade, di famiglie nella quotidianità della vita urbana ( Mansarda, 1960; La Millecento, 1961; Discussione
degli intellettuali, 1964; Stazione Centrale, 1992; Scala mobile, 1993) che non disdegna però di tornare con insistenza alle radici (anche geografiche) di Leddi: la lezione di Mario Patri (il suo maestro, di Tortona); l’eredità di Pellizza da Volpedo (pochi chilometri dividono San Sebastiano Curone da Volpedo dove fino a pochi giorni fa era stata esposta una delle sue opera più emblematiche, Sul fienile del 1893); l’eroismo di Fausto Coppi (nemmeno trenta quelli tra Castellania e San Sebastiano) protagonista di una serie di opere esposte nel 1966 alla Nuova Pesa di Roma.
Quello di Piero Leddi («accumulatore seriale di utensili» come lo raccontano con affetto i figli Colomba, Lorenzo e Tommaso che si occupano dell’Associazione culturale Archivio Piero Leddi a sua volta curato da Mariachiara Fugazza) è un amore profondo e vero (come lo era stato quello di Fausto Pirandello, di Raffaele De Grada, di Ottone Rosai, di Afro). Un amore che costantemente (e spesso con grande amarezza) si trasmette dalle «cose» alle «persone».
E cco a l l or a c he l a s e g a da bot t a i o (triangolare, più piccola del consueto) in mostra non è un utensile qualsiasi, ma è stata «regalata dal figlio Carlo in memoria del bottaio Polidoro» che Piero aveva conosciuto in gioventù. Molti di questi attrezzi sono passati dalle mani dei re
sgotti: piccoli gruppi di lavoranti nomadi, spesso di origini friulane, robusti e «molto adatti alla fatica», che durante l’anno percorrevano le campagne «a richiesta» per realizzare tavole utilizzando quella «grande sega a lavoro verticale» che altrimenti sarebbe stato impossibile usare, dal momento che ci volevano tre o quattro uomini per tenerla costantemente sollevata da terra. Il racconto di Piero, affidato al video che fa da corredo alla mostra, si conclude ancora una volta con un velo di tristezza: «I resgotti facevano una vita durissima di cui però erano molto orgogliosi» almeno fino a quando il «progresso» non li ha cancellati.
«Ho sempre onorato questo strumento come essenziale per secoli, fino alla sega a nastro elettrica attuale, che ha risolto lo sforzo muscolare con l’applicazione del motore elettrico e il carrello su rotaie», scriveva Leddi parlando della «scie à refendrè» (è lui stesso a usare l’espressione francese in omaggio all’Encyclopédie), la grande sega a lavoro verticale che compare anche nel ritratto Mio Padre (1975). È uno degli oggetti simbolo dell’esposizione (che ha anche una colonna sonora, firmata dal figlio Tommaso con il nipote Piero jr), che ruota attorno a una scultura realizzata con 25 incudini di fine ’700 (a lungo contese da Leddi a un collezionista fiorentino) sopravvissute a un’officina di strumenti musicali a fiato (forse erano gli ottoni per una banda) di Firenze. «Tavole, travi, tutto quello che è stato realizzato nel tempo è dovuto all’impiego di questa sega: come dire tutti i tavolati, tetti, pavimenti, mobili, navi, carri — spiegava l’artista —. Aveva una voce ritmata, l’avantiindietro del braccio, sprigionava il vecchio noce un profumo di semi tostati, la polvere di segatura e il legno fresco che si mostrava con le sue vene violacee». E il lavoro, oltre che arte, diventa poesia.