Corriere della Sera - La Lettura
Il primo a non «battezzare» una sua opera fu Kandinskij Da allora quel gesto è diventato un rito, motivato da un certo elitarismo degli artisti ma anche dal loro non volere imporre sentieri interpretativi allo spettatore. Detto questo, rinuncereste a dare
Momenti di una lunga storia di nomi. Per secoli, abbiamo incontrato opere con titoli «mimetici», che confermavano i soggetti rappresentati ( La Primavera di Botticelli, i Tre filosofi di Giorgione, Las Meninas di Velázquez). Nel Novecento, molti pittori hanno iniziato a servirsi di titoli descrittivi per aiutare il pubblico a comprendere meglio le drammaturgie spesso ermetiche da essi dipinte: si ricordino Le linee forza di paesaggio di Balla, Strada principale e strade secondarie di Klee, il ciclo Molo-oceano e Broadway Boogie-woogie di Mondrian, Venezia era tutta d’oro di Fontana, le Venetians di Rauschenberg, la Morocco Series di Frank Stella, Rome di Twombly. Altri artisti, invece, hanno scelto di sperimentare sofisticati cortocircuiti tra i motivi raffigurati e i titoli scelti: si pensi alla paradigmatica Ceci n’est pas une pipe, dove Magritte ritrae una pipa e accompagna quell’immagine con un commento straniante («Questa non è una pipa»), infrangendo così ogni relazione immediata tra parola e icona.
Infine, ci sono i Senza titolo. Il primo risale al 1910. Un giorno Kandinskij abbozza un paesaggio. Poi, esce dal suo atelier. Quando ritorna, vede il suo quadro ribaltato e inonda todi forme nonri conoscibili. Esclama :« Va bene così ». È il primo acquerello astratto. Da allora è diventata quasi una moda. Che, da più di unsecolo, sta contagiando artisti di diverse generazioni, appartenenti a tendenze lontane, provenienti da esperienze biografiche e poetiche non contigue.
Dai minimalisti ai concettuali, daip overisti ai trans avanguardisti. Da Mark Rothko a Robert Ryman, da Joseph Kosuth ad Alighiero Boetti, da Lawrence Weiner a Hanne Darboven, da Art & Language a Robert Barry, da Mimmo Paladino a Nino Longobardi: l’elenco potrebbe continuare a lungo. Una consuetudine che ha contaminato anche il mondo della musica ( Untitled dei Simple Plan), quello del cinema ( Untitled di Michael Glawog
ger e Monika Willi) e quello della letteratura ( Untitled Novel di Alex Garland). Dunque, un super-genere: «senza titolo» possono essere ritratti, paesaggi, nature morte, installazioni, happening, performance, ma anche cd, film, romanzi.
Qual è il senso di questa bizzarra ritualità? Si tratta di una questione su cui si sono interrogati due originali filosofi dell’arte come Arthur C. Danto (in La trasfi
gurazione del banale, Laterza) e Reinhard Brandt (in Filosofia nella pittura, Bruno Mondadori). I titoli, secondo Danto, sono qualcosa più di un nome odi un’ etichetta: dotati di un valore enunciativo, rivelan oche ogni opera d’ arte è sempre ab out
ness(«a- proposito-di »); e, spesso, offrono« un’ indicazione di lettura o un suggerimento interpretativo, che non è necessariamente sempre utile».
Secondo Brandt, i titoli non consentono «a nessuno di riconoscere o di supporre il tema dell’opera», perché svolgono «una funzione simile a quella del nome proprio, che permette di identificare qualcuno, ma non di comprenderlo o riconoscerlo come un particolare essere umano». Siamo dinanzi a paratesti che, sottolinea ancora Brandt, hanno una funzione cruciale. Talvolta, si limitano a presentare gli elementi più esteriori del quadro. Altre volte servono per orientare chi guarda. Sono come ponti che rimandano a suggestioni lontane. Non riportano «a un tema e a un oggetto del dipinto, ma alla riflessione che noi, insieme con l’artista, facciamo sull’opera».
Gli artisti dell’Untitled sembrano muoversi su registri diversi, oscillando tra elitarismo, tensione analitica e ricerca della libertà. Per un verso, confermano l’inclinazione aristocratica di ampie regioni dell’arte contemporanea, che tendono a proporre soluzioni compositive di difficile interpretazione per chi non ne conosca già le regole interne. Per un altro verso, avvertono il bisogno di decretare il declino dell’arte come metafora, come forma differita di narrazione, come esercizio letterario, come espressione di un iconismo fiducioso nella somiglianza e impegnato a difendere la corrispondenza tra linguaggio e realtà.
Iscrivendosi in quella frastagliata cartografia della linea analitica dell’arte del Novecento, alcuni astrattisti, concettuali, minimalisti ma anche tanti neo-espressionisti tendono a decostruire il codice rappresentativo. Intenti a ridurre l’opera a una serie di unità linguistiche finite e costanti, prive di significati denotativi e connotativi dati elementari, affermano l’autonomia strutturale del medium di cui si servono. Pensano, perciò, il proprio mestiere come gesto capace di trasformare l’arte in un sistema esatto, indipendente dalle voci del mondo esterno, non più debitore di nessuna eco di fondo.
Ma, forse, il Senza titolo va letto soprattutto come una diretta conseguenza della filosofia dell’opera aperta elaborata da Umberto Eco. Non un atto pilatesco. Rinunciando alla propria auctoritas, l’artista rivolge un invito allo spettatore affinché si emancipi da ogni referenzialità superficiale. Finalmente, possiamo muoverci con libertà, senza più attenerci a sentieri interpretativi già imposti. In fondo, scegliendo di non sigillare la propria opera con un nome, un artista ci chiede di abbandonare un atteggiamento passivo e contemplante, per avviare una relazione più profonda con l’opera stessa.
Affidarsi all’Untitled, per un creatore, è anche un modo per suggerire sentieri ulteriori, coinvolgendo chi osserva in un gioco inatteso. Condannati a una condizione di choc stimolante e di benefico smarrimento, abbiamo il compito di scoprire altri significati possibili nascosti tra le pieghe di quadri e sculture: in base alla nostra interiorità, alla nostra sensibilità, alla nostra cultura. Anche se resta aperta una questione decisiva. Riuscireste a immaginare un padre e una madre che scelgono di non dare un nome al figlio?