Corriere della Sera - La Lettura
Un ritaglio (tradito) di Broch La serva Zerlina è noiosa
Al Festival dei Due mondi è andata in scena «La ballata della Zerlina», tratta da un racconto dello scrittore austriaco, che però di ballata non ha nulla. Sul palco Adriana Asti e Lucinda Childs, che ha curato anche la regia
Prima che arrivi l’ora di entrata al Caio Melisso per assistere allo spettacolo, La ballata della Zerlina, ci sediamo al centro della piazza e a lungo guardiamo la facciata del Duomo di Spoleto. Mi ricordo di quando nel 1969, mezzo secolo fa, in cima alla scalinata alle mie spalle, fui presentato a Ezra Pound ed egli, mantenendo il suo silenzio, mi dette la mano.
Torno a guardare il Duomo. Torno a pensare a Hermann Broch. Pound e Broch: due colossi. Così lontani l’uno dall’altro, hanno qualcosa in comune: sono due scrittori della prima metà del Novecento, due scrittori moderni, che gli storici della letteratura chiamano modernisti. Modernisti, cioè ai limiti della leggibilità. Broch, che stiamo per incontrare di nuovo a distanza di tanto tempo da quando per l’ultima volta lo salutammo, è uno scrittore moderno, dunque difficile. Personalmente ho due debiti nei suoi confronti e ora mi si offre l’occasione per almeno un poco cancellarli.
Il debito indiretto (di trascuratezza) è a causa di Klaus Grüber, il regista che mise in scena al Piccolo di Milano lo stesso racconto di oggi, quello dedicato alla serva Zerlina, e che io liquidai come non fosse uno dei grandi registi di quel tempo scomparso, non meno di quanto lo sia il tempo di Broch. Perché lo liquidai? Ero abbagliato dall’interprete. Jeanne Moreau era un mito e, incredibile a dirsi, eravamo lì, davanti a lei: Jeanne Moreau in persona. Il debito diretto è tale in quanto inconsapevole, muto. Anche Broch era stato un mito della giovinezza e lo avevo dimenticato. Avevo letto i suoi cinque ro
manzi, i suoi saggi, le sue lettere. Poi, niente più Broch. Ma riprendendo in mano Gli incolpevoli e prima di vedere lo spettacolo, firmato da una stella della danza, Lucinda Childs (e interpretato da un’attrice come Adriana Asti), ho cercato di capire perché.
Ecco, nel 1987 non credo di essermi reso conto di quanto arbitraria fosse (e a maggior ragione oggi sia), da quel romanzo composto da undici novelle, toglierla dal suo contesto, che l’autore alle soglie della morte (il romanzo è del 1950, Broch morì nel 1951) aveva con tanta perizia costruito, o ricostruito, cucendo testi scritti anche a distanza di decenni tra l’uno e gli altri. È vero che Il racconto della serva Zerlina nel titolo sembra prestarsi a una simile operazione — fino al punto che il titolo di Spoleto appare come un arbitrio, se non un abuso (poiché nello spettacolo di ballata non c’è nulla — non c’è quel qualcosa di coreografico che ci si sarebbe potuti aspettare dalla firma di regia). Ma è altrettanto vero che questo «racconto», separato dagli altri undici, diventa non solo illeggibile nel senso in cui Broch lo è, ma incomprensibile, vacuo, una piccola storia di omissioni, illegittimità, tradimenti. Ancora più vacuo, noioso, astratto, lo rende proprio la regia.
Tranne le due o tre volte in cui per breve tempo Adriana Asti, cioè Zerlina, e Lucinda Childs, negli abiti del narratore Andreas (al quale Zerlina racconta la sua storia, così modificando o completando quanto egli già sa, o solo lui sa), tranne, dicevo, le due o tre volte in cui l’una e l’altra si alzano in piedi, non vi è movimento alcuno.
Sulla sinistra della scena c’è, seduta dietro un tavolino, Zerlina. A destra vediamo spuntare parte della testa di Lucinda-Andreas da un divano rovesciato a bella posta, come se lo si fosse messo in quella posizione irreale perché le due attrici si potessero guardare in faccia (ma noi spettatori non troppo vedere quella di Andreas l’ascoltatore). Ciò che Zerlina racconta è la relazione che lei stessa ebbe con von Juna, l’amante della baronessa di cui è serva. Ma von Juna era il padre di Hildegard, la figlia che il barone credeva sua. Sarà Zerlina a consegnare al barone lettere che gli riveleranno la verità: una verità di cui il barone non terrà conto nel processo intentato a von Juna per la morte improvvisa di una sua terza e segreta amante.
L’unico che ne terrà conto (è un momento cruciale del romanzo, non registrato né da Mittner né da Schiavoni né da Baldacci — per citare alcuni dei grandi lettori de Gli incolpevoli) è Broch, nel decimo capitolo, Il convitato di pietra. Quando questo ennesimo personaggio mozartiano si presenterà al narratore, unico vero colpevole tra tanti, come fosse nello stesso tempo von Juna. Tra Andreas e von Juna una singola identità è indistinguibile, sono l’uno il doppio dell’altro (una delle ragioni per cui separare il quinto capitolo dal decimo e da tutti gli altri appare un clamoroso errore, un errore di riduttività riguardo le intenzioni dell’autore). Teoricamente, a metà del romanzo, il racconto della serva Zerlina ha la funzione di smascherare quello che Broch chiama «fracasso dell’anima» (non il blando e quindi insignificante «tumulto» del drammaturgo René de Ceccatty e della traduttrice Ada Vigliani). Ma nella realtà della scrittura quel fracasso continua a essere da Broch ospitato. Basterebbe l’uso delle maiuscole («Con quello che viene dimenticato noi diamo da mangiare al tempo, diamo da mangiare alla morte, ma l’Indimenticabile è un dono della morte a noi»).
Non si tratta qui di un’obiezione alla implausibilità realistica che Zerlina, la serva, parli in questo modo. L’obiezione è più radicale. A parlare non è il grande romanziere Broch, e neppure il grande saggista, l’autore di Poesia e conoscenza. A parlare è uno scrittore vittima di sé stesso, uno scrittore che non rinuncia mai alle note alte — per il quale le maiuscole costituiscono la nobiltà della letteratura. Ed è proprio quello che Broch non ignora. Egli viene condannato dal Convitato di pietra per l’ineluttabile volontà di sedurre, ossia per la colpa di scrivere: il tormento che lo accompagnò per tutta la vita. In confronto alla sua, quella dei personaggi appare a tutti comune, appare la distrazione che consentì a Hitler di diventare Hitler: «La demoniaca ossessione del piacere, da cui era posseduto, contiene da un lato, come sua parte migliore, la pesante serietà in cui il piacere si compie, quella sua onestà che non tollera inganni, ma contiene anche, d’altro canto, la coscienza di colpa dell’oscuramento dell’Io, che inerisce a ogni ossessione demoniaca». Gli incolpevoli dunque sono i personaggi, sono gli altri: non il loro autore o il dittatore (sottospecie dell’autore) che ne ha preso il posto nella vita reale.
In tal senso, direi, incolpevoli anche Adriana Asti e Lucinda Childs: poiché dominate dal piacere di essere lì, sulla scena: sono alle soglie di ciò che dicono e fanno, o non fanno; vittime di sé stesse. O, se si preferisce, eminenti come sempre, precise nelle loro scelte — di dizione, di immobilità, o di breve, inutile mobilità — e tuttavia, nei confronti del «colosso», spietate come io stesso da ragazzo lo ero, quando me ne lasciavo travolgere e volevo a tutti i costi abbracciarlo o, almeno, dargli la mano come ebbi la ventura di darla a quell’altro colosso, lassù in cima alle scale.