Corriere della Sera - La Lettura

La musica nasce di nuovo ed è afro-europea

- dal nostro inviato a Siena HELMUT FAILONI © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Ogni tanto interrompe la conversazi­one per qualche seco n d o . « Ma s o n o i o ? Non pensavo di poter arrivare così in alto nel registro acuto». Accenna un sorriso di soddisfazi­one e continua «...stavo dicendo di Miles...». Enrico Rava è seduto nel salone di un hotel di Siena, dove il suo amico eritreo Atla — che lavora qui da anni — gli ha preparato una piccola sorpresa. Musica di Rava diffusa dai piccoli altoparlan­ti in tutto il salone, in un mix di dischi vecchi e nuovi con l’inconfondi­bile suono della tromba che contrappun­ta la conversazi­one. Rava, 80 anni il 20 agosto, è un pezzo di storia del jazz. È uno che — citando il titolo di un suo disco del 1972 ispirato all’omonimo libro di Julio Cortázar — ha fatto Il gi

ro del giorno in ottanta mondi. Stilistica

mente negli anni ha ridisegnat­o il suo concetto di jazz all’insegna di una nuova classicità, trovando un equilibrio tra il concetto tradiziona­le della melodia e la libertà di un linguaggio individual­e. Anche nei suoi momenti più sperimenta­li e radicali più che l’effetto, ha sempre cercato l’affetto. Ha inciso da poco il nuovo disco Roma, in uscita per Ecm il 6 settembre (ne parliamo, tournée compresa, a sinistra). A Siena Jazz Rava viene da decenni per insegnare Musica d’insieme. Il che significa suonare in gruppo con gli allievi, catapultar­li nel vivo del mestiere.

Rava, lei ha scoperto molti giovani talenti e ama suonare spesso con loro.

«Ai seminari senesi ho conosciuto alcuni dei migliori giovani musicisti che poi hanno collaborat­o con me. Amo suonare con gente che più o meno condivida la mia visione. È più frequente che io queste persone le trovi tra i giovani che non tra i coetanei. Primo, perché i miei coetanei in genere non ci sono più, secondo perché i pochi che ci sono ancora, tranne rarissime eccezioni, cioè Franco D’Andrea e Dino Piana, sono legati a quello che facevano 40 anni fa».

La tecnica fra i giovani è migliorata?

«Moltissimo. Fra i trombettis­ti, Fabrizio Bosso tecnicamen­te al mondo ha pochissimi rivali. Parlo da un punto di vista tecnico, non musicale, che è un’altra cosa. Un altro come Bosso è Peter Evans».

Parliamo allora dell’altro aspetto.

«Qui cominciamo a usare anche altri parametri. Parlando del passato, un’unica nota di Miles Davis valeva l’opera omnia dei suoi colleghi trombettis­ti, anche famosi. Lo stesso discorso vale anche per un poeta come Chet Baker».

Che cos’è il jazz oggi?

«Un genere, un linguaggio all’interno del quale ognuno può dire ciò che vuole. Oggi forse non significa più niente. Stiamo parlando infatti di una musica che va dallo stile New Orleans all’elettronic­a».

Le dispiace?

«No, anzi. Trovo che l’elettronic­a possa essere molto interessan­te, anche una via di scampo, tra l’altro: perché il problema oggi è che i giovani americani, quelli che fanno il jazz, sono noiosi».

Sta parlando di Steve Lehmann?

«Sì. Lui e tanti altri sono incredibil­mente bravi, teoricamen­te, tecnicamen­te. Sanno tutto. Suonano su tempi impossibil­i ma è musica che non mi dice niente. Che non mi tocca, mi annoia».

Il jazz non è più in America?

«Il jazz si è sempre mosso. È nato a New Orleans, si è spostato a Chicago, Saint Louis, Kansas City, New York e oggi vive in Europa, dove sta nascendo una musica afro-europea, figlia dell’immigrazio­ne africana. In Europa oggi si sta creando la stessa situazione che c’era in America all’inizio del secolo con sincretism­i culturali diversissi­mi fra loro. Ma per vedere un risultato bisognerà aspettare ancora».

Quando si è innamorato del jazz?

«Sono nato nel 1939. Mi rendo conto che uno dei motivi per cui a 6-7 anni mi innamorai di questa musica fu che arrivò insieme alla vita. Prima la mia vita erano i bombardame­nti, gli sfollati in campagna, i tedeschi, gli aeroplani, mangiare niente, cartoni al posto dei vetri alle finestre... Quando finì la guerra, con gli americani arrivò un’ondata di benessere. E nel pacchetto completo c’era anche la musica, il jazz, che ho amato subito perché lo associavo alla vita».

Vide per la prima volta anche gli afroameric­ani...

«C’erano dei neri e io non avevo mai visto un nero in vita mia: era una cosa magica per me. Aggiunga che uno dei primi che vidi era Miles Davis... con Lester Young poi vidi Thelonious Monk, Bud Powell, John Coltrane... Li ho ascoltati in un momento in cui ciò che loro facevano era nuovo. Non esisteva prima. Il periodo fino al ’65 fu un’esplosione di genialità, di personaggi, che oltre a essere bravissimi musicisti avevano una grande presenza scenica. Rimanevi catturato a osservarli, è come quando vedevi Marlon Brando: anche se c’erano altri cinquanta attori lì,

tu guardavi lui, anche se stava zitto. Personaggi così non esistono più». I suoi genitori?

«Con mia madre, che suonava il piano classico, avevo un bel rapporto. Con mio padre meno. Per fargli dispetto, perché era abbastanza di destra, non appena era a portata di orecchio, mi mettevo a cantare Bandiera rossa. E lui urlava: “Basta”». I primi dischi?

«A 7-8 anni impazzii per Louis Armstrong e Bix Beiderbeck­e. Ancora oggi ascolto Bix: I’m coming Virginia è pura emozione, un suono, una poesia, un modo di utilizzare gli spazi. La forza di essere semplici, di farsi capire, ma allo stesso tempo di essere anche profondiss­imi». Ha descritto la grande musica...

«E non importa il genere. Prendiamo João Gilberto, che adoro e che è morto da poco. Musica meraviglio­sa la sua, non quella brasiliana che canta sempre l’allegria e il carnevale: gioia fittizia, che alla fine risulta macabra. Chiunque poteva godere della musica di João ma allo stesso tempo questa era di una profondità inaudita. Non serve che la musica sia complicata. Uno dei più bei pezzi mai scritti, il Concerto per pianoforte e orchestra in sol maggiore di Maurice Ravel, non si può dire che sia difficile. È bello. Punto. E se lo suona Martha Argerich...». Il jazz soffre di troppa tecnica?

«Spesso sì. Un sassofonis­ta bravo come Mark Turner nel disco che ha fatto con me ( New York Days, Ecm, 2009) suona con un canto incredibil­e, melodie bellissime, ma quando fa la sua musica diventa incomprens­ibile. Parlo per me».

un plus valore essere l’unico italiano». Perché il free jazz ebbe vita breve?

«Perché la libertà totale, l’anarchia, non può durare, non la si può pretendere. La libertà totale è destinata a creare anch’essa, dopo breve tempo, dei cliché. Paradossal­mente la vera libertà, quella che produce arte, era quella che c’era nei gruppi di Miles Davis: suonare, liberi, su delle strutture, all’interno dei limiti imposti dal leader. E se andiamo a guardarci meglio, tolto Coltrane, tutti, e dico tutti i musicisti che hanno suonato nei gruppi di Miles, il meglio lo hanno dato con lui». E gli anni Settanta?

«Anni bui, dominati da una stupidità totale con la finta creatività al potere. A Umbria Jazz mi ricordo una volta che una parte di pubblico provò a bloccare Chet Baker perché, dicevano, era uno sfruttator­e dei neri. Dovette salire sul palco Elvin Jones e dire che Chet era uno di loro. Non a caso quel periodo sfociò nella fu

sion, che sfruttava il jazz senza approfondi­rne minimament­e il senso». La sua prima volta a Umbria Jazz?

«Credo fosse il 1976. C’erano 60 mila persone. Di colpo il Pci capì che il jazz tirava tra i giovani, quindi, da quel momento in poi, tutte le feste dell’Unità organizzav­ano concerti di jazz». Il brano standard del cuore?

« My Funny Valentine. Ancora oggi mi emoziono a suonarla». Un rimpianto?

«Non avere registrato con il gruppo formato da me, Joe Henderson, John Taylor, Paul Motian e Furio Di Castri».

Enrico Rava è un mito della tromba: il 20 agosto compie 80 anni. A «la Lettura» spiega perché suonando la libertà totale non può esistere, ricorda la «stupidità totale» degli anni Settanta, rimpiange un disco non fatto, dice che il «Concerto in sol maggiore» di Ravel è «uno dei pezzi più belli mai scritti»

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