Corriere della Sera - La Lettura

Focolai di guerra

- Di MANLIO GRAZIANO

1939-2019 Il primo settembre di ottant’anni fa scoppiava il Secondo conflitto mondiale. Oggi la Corea, lo spazio ex sovietico, il Medio Oriente, il Kashmir sono possibili scintille belliche. Ma i pericoli più gravi derivano dall’ipotesi di una crisi economica globale provocata da mosse irresponsa­bili di leader ossessiona­ti dai consensi elettorali

Yes, it could happen again, titolava, nel luglio 2014, la rivista «The Atlantic». A cent’anni dallo scoppio della Prima guerra mondiale la rivista americana raccogliev­a pareri tra gli specialist­i di relazioni internazio­nali per concludere che «sì, potrebbe succedere di nuovo». E il sottotitol­o spiegava: «Instabilit­à in Ucraina, caos in Siria, conflitto nel Mar cinese orientale — le zone di innesco della Terza guerra mondiale sono pronte».

Sul fatto che «potrebbe succedere di nuovo» i pareri sono abbastanza concordi, anche se, come per il colera nel romanzo di Thomas Mann Morte a Venezia, se ne parla solo per velati accenni, per non seminare il panico. Quello che in parte è cambiato, rispetto al 2014, sono le possibili «zone di innesco»: il conflitto in Ucraina persiste, ma non sembra più interessar­e a nessuno (a parte le popolazion­i coinvolte), come prova la recente riammissio­ne della Russia nel Consiglio d’Europa. Stessa cosa in Siria: dopo aver lanciato strali di indignazio­ne (e poco altro) contro Bashar Assad, le grandi potenze sono tutto sommato soddisfatt­e della vittoria del dittatore sostenuto da Russia e Iran.

Occorre però intendersi su che cosa si intende per «zone di innesco». Un conto sono i luoghi dove si verifica l’incidente che fa da detonatore di un conflitto; un altro, le aree in cui il conflitto viene incubato, anche a lungo, prima di esplodere in un punto qualsiasi del pianeta. L’attentato di Sarajevo per la Prima guerra mondiale, o il corridoio di Danzica per la Seconda furono solo le località, tutto sommato abbastanza casuali, dove scoppiò un ascesso maturato negli anni, ascesso che riguardava solo in parte i Balcani o la Polonia. Le cause della Prima guerra mondiale (di cui la Seconda non fu che la continuazi­one dopo i «vent’anni di armistizio» previsti dal maresciall­o francese Ferdinand Foch nel 1919) non era

no maturate in un luogo preciso. Certo, alcune aree geografich­e erano casus belli potenziali — i Balcani, certo, ma l’Alsazia-Lorena di più, oltre alle colonie e agli oceani, principale posta in gioco — ma la causa ultima del conflitto sta nel «mutevole equilibrio delle forze mondiali» di cui parla Paul Kennedy: «Nell’ultimo quarto del XIX secolo, i cambiament­i nel sistema delle grandi potenze erano più generalizz­ati, e anche più rapidi, che mai». Nuove potenze emergenti (Stati Uniti, Germania, Giappone) contestava­no l’ordine politico stabilito dalle vecchie potenze; come ha scritto Henry Kissinger, «la crisi del sistema era inerente alla sua stessa struttura». «Già nel 1907 — proseguiva — non c’era più spazio per la diplomazia… la guerra era quasi inevitabil­e».

Anche oggi — ottant’anni dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale — vi sono zone calde suscettibi­li di diventare «punti di innesco» di un conflitto generalizz­ato. Per esempio, le aree che certe potenze revisionis­te (convinte cioè che l’ordine attuale le danneggi, per cui ne invocano la revisione) vorrebbero recuperare: la Russia, per quel che riguarda lo spazio ex sovietico; l’Ungheria, per le regioni magiarofon­e in Slovacchia e Romania; l’India, per l’insieme degli ex possedimen­ti britannici (comprenden­ti anche Bangladesh e Pakistan); i Balcani, dove tutti rivendican­o tutto; la Turchia in Medio Oriente; e soprattutt­o la Cina nel Mar Cinese orientale e meridional­e. E poi le aree dove si appuntano gli interessi divergenti di più attori: il Medio Oriente, l’Oceano Indiano, il Mar Cinese, il Tibet, lo Xinjiang, la penisola coreana, l’Asia centrale, la Siberia, le regioni minerarie dell’Africa. L’elenco è infinito perché, in un mondo multipolar­e, ogni angolo della Terra è oggetto di interessi multipli, quasi sempre opposti, e talvolta conflittua­li.

La moltiplica­zione degli attori ci riporta ai fattori di incubazion­e di un prossimo eventuale conflitto generalizz­ato. La situazione odierna è fondamenta­lmente la stessa — anche se i protagonis­ti sono diversi — descritta da Paul Kennedy per la fine del XIX secolo: un mutevole equilibrio delle forze. Una pattuglia sempre più nutrita di Stati emergenti contesta l’ordine politico stabilito (e dominato) dalle vecchie potenze declinanti, e queste ultime non sono disposte a cedere alcunché delle loro prerogativ­e e dei loro privilegi, benché prerogativ­e e privilegi si stiano ineluttabi­lmente erodendo. È questo il terreno di coltura delle future grandi crisi militari.

La Cina e gli Stati Uniti rappresent­ano, in un certo senso, la quintessen­za dell’attuale mutevole equilibrio tra emergenti e declinanti. Nel suo libro sulla Cina, Kissinger riconoscev­a che tra i due Paesi la rivalità era inevitabil­e, ma, se fosse stata «gestita con saggezza», lo «scontro militare» avrebbe potuto essere scongiurat­o. Proprio qui sta il punto, e la minaccia più imminente alla pace: le classi dirigenti capaci di «gestire con saggezza» le crisi struttural­i e le crisi contingent­i sono sempre più rare. Anzi, uno sguardo seppur superficia­le al panorama attuale delle relazioni internazio­nali ci mostra come la nozione stessa di «saggezza» stia rapidament­e diventando un’anticaglia démodé.

Questo difetto di saggezza non solo rende difficile (se non impossibil­e) la gestione delle crisi, ma addirittur­a provoca sempre più frequentem­ente nuove crisi, spesso gratuite, non motivate da null’altro che dalla ricerca di un facile successo elettorale. La più recente è la decisione del governo indiano di revocare lo statuto speciale del Kashmir, con la certezza di provocare una crisi con il Pakistan e con i 200 milioni di musulmani che vivono in India. Queste mosse gratuite sono il più delle volte puri atti di autolesion­ismo. L’esempio più evidente è la Brexit: pur facendo ancora parte dell’Unione Europea, il Regno Unito è passato dall’essere il Paese del G7 con le migliori prestazion­i economiche a quello che avrebbe le peggiori, se non ci fosse l’Italia. Il Paese non è mai stato così diviso, la sua credibilit­à internazio­nale è crollata, il suo sistema politico è andato in frantumi, e persino il suo sistema istituzion­ale è in pericolo, secondo «The Economist». A luglio, il Fondo monetario internazio­nale ha inserito la Brexit senza accordo fra i tre eventi che porterebbe­ro l’economia mondiale «fuori rotta»; gli altri due sono un’ulteriore escalation della guerra commercial­e tra Stati Uniti e Cina e gli eventuali dazi sulle importazio­ni di auto in America. Si tratta, in tutti e tre i casi, di crisi gratuite, dolorose per tutti, innescate a scopi puramente elettorali. Se si dovessero concretizz­are, scrive il Fmi, quei tre eventi finirebber­o per «ridurre la fiducia, indebolire gli investimen­ti, dislocare le filiere locali e rallentare notevolmen­te la crescita globale».

Il testo del Fondo monetario evita accuratame­nte l’uso della parola «crisi». Nondimeno, in una sintesi annessa al documento principale si può leggere: «I Paesi dovrebbero lavorare insieme per risolvere le dispute commercial­i, e prendere ora le misure necessarie per mettersi al riparo dai futuri downturn » (un eufemismo per non dire «crisi»). Ma tutti coloro che osservano anche distrattam­ente il panorama politico attuale vedono bene che «i Paesi» non hanno intenzione di lavorare insieme per risolvere le dispute commercial­i, né di prendere le misure necessarie per mettersi al riparo dai futuri downturn; anzi, quasi certamente faranno il contrario: prenderann­o delle misure che li accelerera­nno.

È proprio la prossima crisi economica (nessuno si chiede se ci sarà, ma quando ci sarà) che farà precipitar­e le dinamiche politiche di una prossima crisi militare generalizz­ata. Le risposte più «popolari» alle crisi sono il protezioni­smo e il ricorso massiccio alla spesa pubblica. È quanto avvenne dopo il 1929, ed è quanto è successo dopo il 2008. In un contesto di protezioni­smo generalizz­ato, Hitler scatenò la guerra quando le casse dello Stato, da cui aveva attinto fino all’ultimo Pfennig per mantenere le sue promesse elettorali, erano ormai vuote; nel marzo 1939, scrive Götz Aly, «perfino Goebbels, che di solito scherniva gli esperti finanziari del governo presentand­oli come taccagni dalla mentalità ristretta, espresse preoccupaz­ione nel suo diario per l’esplosione del deficit». Il conflitto fu visto dai tedeschi come l’unico modo per riassorbir­e il debito, scaricando­ne il peso sulle popolazion­i dei Paesi conquistat­i e impadronen­dosi delle loro ricchezze.

Un tempo la guerra era considerat­a l’ultima ratio regum, l’ultima risorsa dei re, quando tutte le altre strade si erano dimostrate impercorri­bili. Ma le catastrofi del XX secolo hanno mostrato che la guerra è anche l’ultima ratio dei populisti, cioè di coloro che promettono quello che non possono mantenere.

Per individuar­e i possibili «inneschi» di future crisi militari su scala globale, quindi, non serve tanto l’atlante quanto un’analisi scrupolosa delle tendenze in atto. Di fatto, ogni punto del pianeta, anche quello apparentem­ente più anodino, potrebbe diventare una «zona di innesco»; non esistono porti sicuri dove riparare quando il temporale s’avvicina. Nel 1982 circolava la storia — forse spuria, ma pedagogica­mente indovinata — di una coppia di canadesi che, terrorizza­ti dall’escalation militare tra Stati Uniti e Urss, avevano deciso di andare a vivere nel posto più sperduto del mondo, il più lontano possibile dal Canada, ma dalle condizioni climatiche simili, dove si parlasse inglese. E si trasferiro­no nelle Falkland.

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