Corriere della Sera - La Lettura
Vargas Llosa «I miei maestri di politica»
Marco Missiroli ha incontrato a Madrid il Premio Nobel alla vigilia dell’uscita in Italia del volume «Il richiamo della tribù». È la biografia di sette
intellettuali liberali che vanno a comporre una sorta di autobiografia intellettuale: da Fidel Castro alla Thatcher
«Non ho mai separato la politica dalla letteratura. Ho creduto nella rivoluzione cubana e nel comunismo. Ma mi sono allontanato dall’una e dall’altro. Nel 1966, in Urss, mi resi conto che quello era un luogo di disuguaglianze con una claustrofobia collettiva. Poi, a Londra, ci fu la svolta decisiva»
La casa di Mario Vargas Llosa si trova nel quartiere delle ambasciate di Madrid, nella prima periferia a ovest. L’unica entrata è un cancello in ferro, oltre il quale inizia un breve viale di cipressi e castagni che porta a una villa in pietra. In questa casa l’autore premio Nobel per la Letteratura vive con la compagna e gli amati cani. Sulla porta mi attende un maggiordomo che mi conduce in quella che annuncia come la «biblioteca».
Vargas Llosa mi viene incontro: indossa una camicia a scacchi, pantaloni e mocassini blu. Ci accomodiamo nei due divani color cammello. Intorno, su tre lati, c’è una minima parte della libreria dello scrittore peruviano: un’intera sezione è dedicata a libri e cataloghi d’arte (Picasso e Gauguin in più edizioni), gli altri scaffali sono prevalentemente per la saggistica («Ho donato gran parte dei libri, circa trentamila, alla biblioteca della mia città natale, Arequipa»). In fondo, la scrivania è orientata verso le ampie vetrate che danno su giardino e piscina: sul tavolo si intravedono fermacarte, penne stilografiche, dei taccuini, alcuni volumi e un iMac. È qui che l’autore di Conversazione nella Cattedrale dice di seguire una «liturgia di lavoro precisa e magnifica». Intende che si sente uno scrittore felicemente metodico?
«Scrivo tutto il tempo, sette giorni la settimana. Almeno due ore al giorno. La prima stesura di ogni libro sempre a mano, sempre di mattina, che per me è il momento migliore. Dalle otto e trenta all’ora di pranzo. È la fase in cui in questa stanza non può entrare nessuno, nemmeno i cani, nemmeno la mia compagna — lei sì, sarebbe una distrazione troppo importante (ride). Il pomeriggio sistemo ciò che ho prodotto, il resto della giornata è dedicato alla lettura, e anche la sera. Di notte mi fermo, la notte serve per l’ispirazione».
Sull’ispirazione mi viene in mente un piccolo aneddoto che riguarda Saul Bellow, raccontato da Martin Amis: si racconta che Bellow fosse a Parigi e che fosse disperato perché il suo terzo romanzo era in panne. Voleva incentrarlo sul sentimento esistenzialista, con un po’ di cultura marxista di mezzo, trattava di due invalidi ricoverati in ospedale. Bellow vagava per la città in cerca di una scintilla che gli restituisse forza, all’improvviso vide una canaletta di scolo con dell’acqua che si colorava di «un’assolata iridescenza». Fu un momento chiave che lo convinse a buttare tutto e a fidarsi di una fluidità che chiamò «primo cuore», quel sentimento infantile che dà allo scrittore degli occhi originari. Qual è la sua «assolata iridescenza»?
«Sono le immagini. Io lavoro sempre con immagini che scaturiscono da esperienze personali. Quello che non so spiegare è perché alcune esperienze personali siano molto feconde dal punto di vista letterario e altre no. Alcune di esse per una qualche ragione misteriosa stimolano fantasie, piccole situazioni, strutture, personaggi. Partendo da questi stimoli prendo appunti, scrivo note, faccio schemi prima di iniziare a scrivere. Soprattutto faccio traiettorie, che sono importantissime per tenere il filo di come la vicenda di un personaggio si incrocia o si allontana da quella di un altro. Dopodiché butto giù una prima versione che generalmente è molto caotica, una specie di magma, molto lunga perché ripeto episodi raccontandoli da diversi punti di vista e con diversi personaggi. La prima bozza per me è sempre la parte più difficile. Una volta che ho questa versione il lavoro diventa molto più piacevole. Mi diverto a tagliare, rifare, ricostruire, perché in quel momento ho già la consapevolezza che il romanzo esiste, è lì. E io mi sento molto più sicuro». Vuole dirmi che Mario Vargas Llosa è uno scrittore anche insicuro?
«All’inizio di ogni libro io lotto contro l’insicurezza. L’insicurezza è il grande problema che riscontro ogni
volta che comincio una storia, un racconto, un’opera di teatro. Al contempo è curioso che quando ho in mente una trama, anche in forma ancora vaga, so già se sarà un romanzo, un racconto o un’opera teatrale. Lo so dal principio in modo chiaro, le storie mi si presentano già con una sorta di etichetta nitida». Si fida sempre di una sua epifania?
«Sempre. Non mi ha mai tradito. E poi ho tanti progetti in circolo, molti di più di quelli che posso portare a termine. Quel vuoto di cui parlano molti scrittori, io non l’ho mai provato. Al contrario mi è sembrato sempre di non avere abbastanza tempo per realizzare tutte le mie potenziali opere. Ma quella specie di paralisi io non ce l’ho mai avuta, tocco ferro che non succeda ora». Forse perché politica e amore non si estingueranno mai.
(ride) «Credo sia questo, ed è vero: sono le mie due strutture fondamentali. Non ho mai separato la politica dalla letteratura. Mi sono formato con i pensatori esistenzialisti come Sartre, Camus, Merleau-Ponty per i quali l’azione politica era inscindibile dalla letteratura che, necessariamente, doveva avere a che fare con le problematiche sociali ed economiche. Credo che in me sia inestinguibile l’idea realista che la letteratura riguardi la storia e le realtà che si vivono, senza possibilità di separazione. Ecco perché quando ho un’idea faccio molte ricerche. Mi aiuto con le informazioni che posso raccogliere, le visite che posso fare ai luoghi, le testimonianze che ricevo. Non è un’indagine per ricercare la verità, come può fare uno storico, un sociologo. Serve per poter mentire con cognizione di causa».
Eppure «Avventure della ragazza cattiva», o «La zia Julia e lo scribacchino», avrebbero potuto correre il rischio di fermarsi al puro sentimento, all’intimità, alle traiettorie emotive.
«Apparentemente. Ma poi c’è sempre un filo che li lega al mondo di quel momento. Ogni storia deve dialogare con una situazione reale. Credo che il romanzo, al contrario della poesia che può essere individuale, sia qualcosa di sociale che pone l’individuo all’interno di una struttura che lo trascende. Per me il romanzo è un genere legato alla città, alla società, più che al singolo. Anche se spesso sono i traumi del singolo a legarci alla società».
Mi racconti il suo trauma. «Mio padre. Era terribile».
È vero che la costrinse alla Scuola Militare per tenerla lontana da ogni rischio, compresa la letteratura?
«Sì, avevo quattordici anni. Credeva che così sarei diventato un uomo e mi sarei dimenticato della letteratura. Aveva orrore della letteratura, ci vedeva lo stile di vita bohémien, l’alcol, le droghe e soprattutto l’omosessualità. E questo lo spaventava. Così mi iscrisse all’accademia militare Leoncio Prado dove rimasi due anni. È stata un’esperienza dura ma anche proficua perché mi permise di conoscere il Perù dove le classi sociali erano molto ben distinte. Fu utile a un ragazzo come me, che proveniva dalla piccola borghesia, che viveva in una bolla e ignorava tutto il resto del Paese. All’interno della scuola militare c’erano ragazzi di tutte le estrazioni, dai figli di famiglie agiate a molti altri della classe media e soprattutto tanti ragazzi di origini umili. La scuola conferiva borse di studio e sostegni e quindi entravano tanti figli di contadini, di operai, e si poteva conoscere il Perù attraverso la compagine degli studenti. La scuola era violenta però allo stesso tempo era un riflesso molto chiaro del Paese». Era già un lettore vorace?