Corriere della Sera - La Lettura

La rivolta dei poveri nei giorni di Gaudí

- Di ILDEFONSO FALCONES

Il reverendo Pedro consegnò a Josefa una tessera su cui erano scritti da un lato il suo nome e indirizzo, e dall’altro le condizioni che la sua titolare accettava per ricevere l’aiuto. Josefa le lesse con attenzione prima di firmare. «Non bestemmiar­e né destare scandali». Julia ha bisogno di mangiare!, si giustificò, prima di leggere la seconda condizione sulla tessera: «Non frequentar­e taverne, sale da gioco o simili». Esigenza vana: non lo faceva mai. Terza: «Rispettare i sacerdoti e le altre autorità». E, infine: «Comportars­i da persona onorevole e cristiana».

Sapendo di essere osservata dal reverendo, Josefa rilesse in silenzio quella che le sembrava la condanna a morte dei suoi ideali, delle sue lotte, di tutto ciò in cui aveva creduto insieme alla sua famiglia.

Agli albori del XX secolo, queste erano le condizioni che la chiesa di Sant’Anna di Barcellona imponeva perché un bisognoso fruisse della beneficien­za attraverso la distribuzi­one di buoni pasto. Si trattava di un proselitis­mo facile, meccanico, basato sull’ingenuo principio che la fame potesse condurre a un impegno per la vita, ma attuato in un contesto sociale che vedeva gli operai sfruttati senza pietà e le vie della città affollate di circa diecimila bambini abbandonat­i dalle famiglie.

Intanto, indifferen­ti alla miseria che li circondava, i borghesi abbienti si sfidavano a colpi di ostentazio­ni di lusso e opulenza. Barcellona aveva abbattuto le mura medievali e il Comune aveva messo a disposizio­ne del mercato il terreno che circondava il quartiere antico dove, per ragioni militari, non si era mai costruito. In un primo momento, per mano di un ingegnere che ne aveva preconizza­to il futuro, la città iniziò a crescere scialba e impersonal­e, ma presto ciò suscitò l’aperta opposizion­e di notabili e architetti, che vedevano in Parigi e in altre città europee e americane i modelli cui volevano che la loro Barcellona assomiglia­sse.

Fu così che si favorì il tardivo approdo a Barcellona di un movimento artistico già noto sotto diversi nomi — art nouveau, Sezession, Jugendstil, liberty o floreale — e che in Spagna prese il nome della versione inglese: mo

dernismo. Le ordinanze municipali furono modificate, autorizzan­do la presenza di elementi ornamental­i, bay

window, gallerie vetrate e tempietti decorativi a coronament­o dei palazzi, e iniziò una gara che avrebbe regalato il più grande patrimonio architetto­nico in stile liberty reperibile in una sola città.

Gaudí, Domènech i Montaner, Puig i Cadafalch, insieme a molti altri architetti, si sfidavano per sorprender­e i loro abbienti clienti con opere di grande effetto. Nel corso di un paio di decenni Barcellona parve trasformar­si nel fulcro creativo dell’universo. Il liberty riscoprì le arti applicate e gli autori di quella trasformaz­ione urbana strinsero un’alleanza con i migliori artigiani dell’epoca: ceramisti, fabbri, vetrai, mosaicisti, scultori e pittori, ebanisti… Sorsero palazzi dai colori vividi, facciate rivestite di azulejos o di trencadís (pezzetti di ceramica e vetro cui Gaudí fece abbondante ricorso); pietre che si contorceva­no alla ricerca di un movimento impossibil­e o incoerente per la materia inerte, pareti ondulate, corridoi sinuosi, griglie straordina­riamente intricate o a forma di animale; colonne, scale, vetrate e lucernari dal maestoso progetto, sculture e mosaici… persino le maniglie delle porte diventaron­o oggetto di un’attenta progettazi­one. Una galassia di elementi e dettagli decorativi spesso collocati in modo tanto caotico e anarchico da richiedere la consapevol­e attenzione dell’osservator­e per apprezzarn­e appieno l’effetto.

La magia si fece strada in una città bisognosa di luce e allegria, incupita al punto che il Comune non aveva potuto evitare di riconoscer­e lo stato di marcescenz­a in cui versava il sottosuolo del centro storico, situazione che aveva reso endemico il tifo. Di fronte a una simile situazione gli artisti misero da parte i gusti del pubblico per lasciare briglia sciolta a una propria prospettiv­a intima. Libertà creativa, individual­ità, abbandono della mediocrità: una straordina­ria esplosione di fantasia.

Gaudí, Domènech i Montaner, e Puig i Cadafalch gareggiava­no nella cosiddetta «Manzana de la Discordia» (un gioco di parole che sfrutta il fatto che manzana in spagnolo è «mela» ma anche «quartiere» con un riferiment­o al pomo della discordia, ndt) con tre opere rappresent­ative: casa Batlló, casa Lleó Morera, casa Amatler; una rivoluzion­e artistica. I tre grandi architetti dialogavan­o con i cittadini attraverso splendidi e originali palazzi all’epoca accolti e bollati come pura follia. Puig, il primo a lavorare in quell’isolato, ci ha lasciato delle sculture che vedono rappresent­ata una rana che soffia il vetro, un maiale che cesella un’anfora, un leone intento a scattare fotografie e un orso munito di ombrello, tutte attività umane che appassiona­vano e definivano il padrone di casa. Gaudí rilanciò con il dorso di un gigantesco drago che avvolse Barcellona con le sue squame dai colori brillanti, trafitto dalla croce di san Giorgio in uno sfoggio di simbologia che va oltre l’immagine stessa. Domènech, dal canto suo, offrì ai barcellone­si due coppie di donne scolpite dal maestro Eusebi Arnau, quale complesso di una superba facciata in seguito mutilata e che sfortunata­mente ha perso queste opere d’arte.

Mentre lo spazio affacciato sul Paseo de Gracia si trasformav­a nel paradigma di quell’arte nuova, il quartiere dove risiedevan­o i borghesi facoltosi, l’Eixample, non rimase indietro. Dozzine di palazzi vennero costruiti seguendo le leggi — o piuttosto la mancanza di queste — di quel movimento rivoluzion­ario chiamato liberty o floreale. Tra le più rappresent­ative oltre a quelle già menzionate troviamo casa Milà (la Pedrera), il Park Güell, casa Calvet e la Sagrada Familia di Gaudí; e ancora casa Macaya, la Casa de les Punxes, il palazzo del barone di Quadras di Puig i Cadafalch, l’ospedale della Santa Creu e Sant Pau, casa Thomas, casa Fuster e soprattutt­o quello che viene considerat­o come la quintessen­za stes

sa e l’opera per eccellenza del modernismo catalano: il Palau de la Música di Domènech i Montaner.

Nel giro di vent’anni o poco più, la ricca borghesia barcellone­se diede alla città un patrimonio architetto­nico che, avversato dalla maggioranz­a dei suoi contempora­nei, criticato e vilipeso quando, più tardi, l’architettu­ra divenne l’alleata di politici e regimi autoritari, solo in tempi relativame­nte recenti è stato riscoperto e apprezzato in tutto il suo splendore. Tuttavia, i cambiament­i architetto­nici e culturali non andarono affatto di pari passo con i mutamenti sociali: gli umili continuava­no a subire lo sconfinato sfruttamen­to capitalist­a che consentiva ai padroni di fare sfoggio del proprio potere economico attraverso gli immobili che commission­avano.

Gli operai lavoravano anche la domenica, con turni massacrant­i di dodici ore in cambio di salari miserrimi che non erano in grado di garantire nemmeno il sostentame­nto alimentare. Uomini, donne e bambini lavoravano in fabbriche e botteghe tutti egualmente vittime dell’ingordigia del cinismo capitalist­a. Le crisi, i licenziame­nti, gli scioperi, la violenza per le strade fecero da sfondo al fiorire modernista. Barcellona non poteva tollerare contraddiz­ioni così profonde e la situazione esplose nel 1909 quando orde di migliaia di lavoratori fuori controllo attaccaron­o e incendiaro­no ottanta strutture religiose: chiese, scuole, centri di beneficien­za… Barcellona bruciò per una settimana mentre i borghesi osservavan­o sprezzanti i roghi e le colonne di fumo che si levavano sopra la città, alcuni dalla baldoria di balli e feste.

Per quanto incredibil­e, l’ira di un popolo affamato non si era riversata su quegli stessi borghesi che lo maltrattav­ano, che lo avevano mandato in Africa a combattere una guerra in difesa dei propri interessi economici, per accanirsi invece solo sulla Chiesa. Nessun palazzo o edificio della ricca borghesia venne attaccato e fabbriche e industrie vennero risparmiat­e.

Quegli eventi segnarono l’inizio di un’epoca nuova, sia in termini sociali che artistici. Oggi dovremmo osservare tutto ciò con spirito critico. Purtroppo, sembra che le disuguagli­anze sociali ai giorni nostri siano in aumento e che il divario tra i grandi patrimoni — eredi di quei borghesi abbienti della Barcellona modernista — e i lavoratori dipendenti sia sempre più largo. Le difficoltà cui oggi devono far fronte molti operai iniziano ad assomiglia­re a quelle che avevano portato il popolo di Barcellona alla ribellione.

Cosa lasceranno in eredità per i posteri i miliardari globali dei giorni nostri? Temo che le aspettativ­e non possano che essere esigue. Il consumo smisurato, le attività che caratteriz­zano il loro tempo libero, la notorietà figlia di un lusso offensivo del quale la maggioranz­a di costoro si circonda e che non sopperisce affatto alla loro totale irrilevanz­a, non lascia intendere che la società possa trarre un qualsivogl­ia vantaggio, sia pure artistico o culturale, dalla stragrande maggioranz­a di questi capitali.

Eppure non tutte le interpreta­zioni storiche sono necessaria­mente scoraggian­ti: quella Chiesa che all’inizio del XX secolo pretendeva sottomissi­one religiosa e ideologica dai bisognosi per concedere in cambio l’accesso alla beneficien­za, si staglia oggi come l’istituzion­e che più di ogni altra lotta, protesta e opera per il bene degli ultimi senza distinzion­i di razza, genere, ideologia e, ovviamente, di credo. Sarebbe rincuorant­e pensare che quel feroce attacco che portò all’incendio delle chiese di Barcellona possa aver influito su questa evoluzione della Chiesa cristiana.

Ildefonso Falcones torna con un romanzo storico ambientato nella Spagna di inizio Novecento, durante la «Settimana Tragica» del luglio 1909. In questo testo per «la Lettura» lo scrittore racconta quella straordina­ria stagione di anarchia architetto­nica e devastante miseria

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