Corriere della Sera - La Lettura
Scarabocchi e parole di due scassinatori
Abbiamo iniziato lo scorso 21 luglio con Jan Fabre. Da allora, quell’inatteso e mutevole museo di carta che è «la Lettura» ogni settimana ha accolto originali omaggi alla poesia realizzati da significativi artisti contemporanei. Idealmente, potremmo organizzare queste presenze in due ampi gruppi. Da un lato, i «letterati»: Anselm Kiefer, Michelangelo Pistoletto, Giosetta Fioroni, Joseph Kosuth ed Ernesto Tatafiore, nei loro lavori, hanno assorbito e risemantizzato versi e frasi, come citazioni esplicite, rimandi manifesti, assonanze svelate. Dall’altro lato, i «cifrati»: Fabre, Ettore Spalletti e Mimmo Jodice hanno preferito nascondere rinvii segreti tra le pieghe delle proprie costruzioni pittoriche e fotografiche.
Siamo all’ultimo capitolo di questo progetto estivo, dunque. Si tratta di un capitolo imprevisto. Un polittico a quattro mani concepito insieme da Mimmo Paladino e da uno tra i maggiori cantautori italiani, Francesco De Gregori. Tre collage. Che, in filigrana, rivelano un’autentica intesa umana e intellettuale.
Muoviamo dal vostro rapporto con la letteratura e la poesia. Da anni, Paladino si dedica a commenti visivi anarchici, liberi, giocosi, distanti dai modi propri dell’illustrazione tradizionale: dai classici greci («Iliade» e «Odissea») a quelli latini («Metamorfosi» di Ovidio), dai capolavori del Medioevo e del Rinascimento («Divina Commedia», «Il Milione», «Il Principe», «Orlando furioso») a libri immortali (come «Pinocchio»), da scrittori e poeti del XX secolo (Pavese, Ferlinghetti, Adonis, Alajmo, Merini, Nove e Conte) ad alcuni capisaldi della cultura novecentesca («Ulisse» di Joyce e «Tristi tropici» di Levi-Strauss), passando per la «Bibbia» e le «Fiabe ebraiche». Per «riattivare» la parola scritta, Paladino sembra comportarsi non da artista-critico, ma da dilettante. Un po’ come faceva Fellini, legge a salti, in maniera intermittente. Ricerca corrispondenze tra le parole di un determinato scrittore e qualche sua ossessione. Poi, lavora con la fantasia. MIMMO PALADINO — Sì, è così. Negli anni, ho illustrato tanti libri. Ma non sono un lettore professionista. Mi annoio facilmente. Mi distraggo. Preferisco frugare tra le pagine, indugiare su qualche parola. E il De Gregori lettore di poesia? FRANCESCO DE GREGORI — Ho tanti debiti verso la poesia. Dai classici agli autori contemporanei. Da Omero a Leopardi. Leggo e rileggo tanti libri di poesia. Anche di poeti contemporanei? FRANCESCO DE GREGORI — Mi piace molto Patrizia Cavalli. Mi interessa anche Valerio Magrelli. Ma secondo me i poeti di oggi hanno molte colpe. Preferiscono non apparire. Non vogliono mescolarsi con il pubblico. Scelgono di non comunicare. Mirano a difendere una sorta di sacralità. Mi sembra che così rischino di non esistere. In tanti considerano le sue canzoni autentiche poesie. Siamo alla «classica» querelle canzone/poesia. FRANCESCO DE GREGORI — Sono due linguaggi in contraddizione. Anche quando non è solo intrattenimento, la canzone ha uno spessore diverso dalla poesia. Inoltre, la vera differenza sta nella musicalità. Nel caso delle poesie, è interna. Invece, le canzoni non stanno in piedi senza ritmi, senza accordi. Le sue canzoni sembrano avere un impianto quasi filmico. FRANCESCO DE GREGORI — Sì, in tutte le canzoni che ho scritto ho avuto sempre una visione cinematografica, non pittorica. I miei brani è come se fossero piccole sceneggiature.
Siete due personalità piuttosto diverse. De Gregori: riservato, severo, lontano dai riti della società dello spettacolo, portato a difendere la specificità del proprio lavoro. E Paladino: un nomade la cui esperienza è stata segnata da ininterrotti transiti, che lo hanno portato dalla pittura alla scultura, dalla grafica all’illustrazione, dalla fotografia al cinema. FRANCESCO DE GREGORI — Sono legato alla chitarra, alla penna, al foglio. Il resto conta poco. Sono solo distrazioni.
MIMMO PALADINO — All’apparenza, abbiamo temperamenti diversi. Francesco difende la concezione del mestiere solitario del poeta, che si ritira per pensare a una parola, a una costruzione. Anche io sento la pittura come un esercizio che esige una grande disciplina interiore. Nel 1977, ho dedicato a questa esigenza un dipinto, Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro. Ma, per me, il silenzio è un momento: non è una condizione permanente. Ho bisogno di andare verso spazi ampi. Ho una profonda fiducia nel fatto che i linguaggi corrano paralleli. Mi servo, spesso, di altri media: come quando scelgo i colori di una tela. Pittura e scultura devono aprirsi a raggiera, dimostrando disponibilità nei confronti dell’architettura, della musica, del teatro, del cinema. Mi appassiona attraversare i plurali territori dell’arte, sia in senso geografico che temporale. Con la massima libertà tecnica e creativa.
Tra i continenti che l’hanno sempre affascinata, la musica. Tra l’altro, ha lavorato insieme con Brian Eno. Inoltre, ha ideato la copertina di uno tra i dischi più belli di Lucio Dalla, «Henna» e la scenografia del tour dello stesso Dalla e di De Gregori, «Work in progress» (2010).
MIMMO PALADINO — Di solito, ascolto musica mentre dipingo. Da Glenn Gould ai cantautori italiani. Mi è piaciuto molto anche collaborare con musicisti e cantanti. Da autori sofisticati come Brian Eno a Lucio Dalla, straordinario nella sua capacità di arrivare a tutti. Ora ho scoperto un giovane di grande talento, Luca D’Alberto. Mi interessa soprattutto la musica popolare, non quella pop. Può essere fruita a tutti i livelli. Anche nel mio modo di dipingere la musica entra come riferimento implicito. I miei quadri sono come partiture, in cui scelgo colori, figure, fughe e silenzi proprio come un musicista. Inoltre, per i titoli di molte mie opere, non di rado ho adottato termini come minuetto e partitura.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito a una mutazione. È come se lei si fosse «paladinizzato», mostrandosi più disponibile a uscire fuori dal recinto della musica, come rivelano il documentario «Vero dal vivo» di Daniele Barraco e il libro-intervista scritto con Antonio Gnoli, «Passo d’uomo» (Laterza). Passaggio centrale in questo percorso di apertura, l’incontro con l’arte.
FRANCESCO DE GREGORI — Nel 1996 ho dedicato un brano, Un guanto, ad alcune misteriose incisioni di Max Klinger su un guanto. Mi sarebbe sempre piaciuto saper disegnare bene, ma non lo so fare: non ho quel talento. Per me, l’arte è come un amore non ricambiato. Se potessi rinascere, in un’altra vita, farei il pittore. Oggi mi incuriosisce la possibilità di entrare in altri campi. Innanzitutto, c’è il De Gregori-collezionista.
FRANCESCO DE GREGORI — Sono sempre stato mosso da un amore intenso per l’arte. Soprattutto, per le opere nelle quali colgo una certa semplicità di espressione. Anche grazie ai suggerimenti di Dalla, ho acquistato incisioni di espressionisti come Grosz e Dix. Poi, ho comprato opere di Franz Kline, Kounellis, Pizzi Cannella e Paladino. E tanti disegni di architettura. Non mi considero un collezionista rigoroso. Sono caotico nelle mie scelte.
Poi, c’è il De Gregori che frequenta artisti. Intenso soprattutto il rapporto, oltre che con Paladino, con Pizzi Cannella, con cui lei ha una lunga consuetudine. Proprio a Pizzi ha chiesto di concepire un quadro per la cover di un suo disco, «Amore nel pomeriggio» (2001).
FRANCESCO DE GREGORI — Ricordo le discussioni per convincerlo a realizzare quella copertina: una giacca da torero ispirata a Morte nel pomeriggio di Hemingway.
Infine, c’è il De Gregori-artista, la cui prima uscita pubblica risale al 2014, quando, presso lo Studio Trisorio di Napoli, ha presentato un’installazione creata insieme con Lucia Romualdi. «Soundings» è come una cripta abitata da cartografie, da geometrie, da nomi di porti, da annotazioni algebriche, da documentari sgranati. Il centro dell’installazione era occupato solo dalla sua voce. Per quell’occasione, lei reinterpretò una sua canzone, «Cardiologia», riflessione sull’amore «indecente» e «prepotente», sentimento che divora e non ammette paure, in cui ci si sente come «chi raccoglie conchiglie dopo la mareggiata». La modificò lievemente e la ricantò per tre volte in tre versioni diverse, in un gioco di variazioni.
FRANCESCO DE GREGORI — L’incontro con Lucia avvenne in maniera casuale. 2013, primarie del Pd. Roma, quartiere Prati. In fila per votare. Fu immediata l’intesa. Ho capito subito che Lucia è un’artista vera. Abbiamo deciso di fare un lavoro a quattro mani. A lungo mi sono interrogato sul modo migliore per entrare dentro le videoanimazioni di Lucia. All’arte volevo accostarmi con rispetto. Mi sono sentito come un uomo semplice del Quattrocento al cospetto di un capolavoro di Mantegna. Nella piccola storia del De Gregori-artista, decisivo un progetto del 2018. Un classico della canzone napoletana, «Anema e core», che è stato ricantato da lei e da sua moglie Francesca Gobbi. Il vinile è stato custodito in un cofanetto-scultura disegnato da Paladino, costellato di grafie impazzite e di numeri di una cabala indecifrabile. Inoltre, avete deciso di accompagnare questo disco-opera con una xilografia realizzata dai fratelli Bulla, una storica stamperia romana.
FRANCESCO DE GREGORI — Dopo anni passati a fare il mio mestiere, avevo voglia di contaminarmi, sporcarmi le mani con arti diverse dalla musica. Io e Mimmo abbiamo cominciato a pensare di fare qualcosa insieme. Ma non poteva trattarsi solo di una copertina. Quell’avventura ha corroborato la nostra intesa, la nostra conoscenza.
MIMMO PALADINO — Il risultato di Anema e core non è così strano. Microsolco del vinile e xilografia hanno qualcosa in comune: sono incisione sulla materia.
Paladino-Virgilio, De Gregori-Dante.
FRANCESCO DE GREGORI — Per me, Mimmo è una sorta di Virgilio da cui io, nei panni di Dante, mi faccio condurre in un viaggio attraverso l’arte. MIMMO PALADINO — Guarda che Virgilio ha portato Dante all’Inferno. Ma l’Inferno è un posto interessante.
Le ragioni di questa sperimentazione sono anche di tipo estetico. C’è un concetto che vi accomuna: l’ermetismo. I testi delle canzoni di De Gregori, che si sottraggono a una comprensione immediata e distratta. E i quadri di Paladino: drammaturgie discontinue, attraversate da attimi interiori e motivi culturali, da memorie private ed elementi astratti, da immagini concrete e imprendibili, consce e inconsce, che sembrano evocare il moto ondoso della voce.
FRANCESCO DE GREGORI — Mi sono sempre affidato alla libertà di scrittura. Un po’ come fa Mimmo nei suoi quadri. Quando li osservi, molti aspetti ti sfuggono. Poi, scopri passaggi che, inizialmente, non avevi colto. C’è sempre altro. Per me, l’arte non può che essere ermetica. Per godere davvero, chi osserva un quadro o ascolta una canzone deve scassinare colori e parole.
MIMMO PALADINO — Anche la mia pittura è ermetica. La guardi, e non ne afferri subito il significato. «E non c’è niente da capire...», mi verrebbe da dire citando una canzone di Francesco.
Ulteriore capitolo del vostro percorso, il polittico per «la Lettura». In un primo momento, abbiamo chiesto a Paladino di scegliere un poeta cui fare un omaggio...
MIMMO PALADINO — Avrei potuto individuare un poeta classico. Ma le pagine di un giornale sono un luogo vivo. Per questo, ho pensato di fare una scelta diversa. E ho costretto Francesco a disegnare. Già in precedenza gli avevo chiesto di farmi vedere i suoi disegni. E lui: «Ma sono solo scarabocchi». Poi, me li ha mostrati. Sono migliori dei pessimi dipinti di Bob Dylan, il mito di Francesco.
FRANCESCO DE GREGORI — Mimmo mi ha proposto di fare un lavoro insieme. Gli ho chiesto di ascoltare una mia canzone di qualche anno fa, In onda. L’ha sentita e gli è piaciuta. Poi, mi ha spinto a fare qualche disegno. Dopo iniziali esitazioni, gli ho mandato i miei scarabocchi infantili. Mimmo li ha tagliati, li ha usati, ci ha costruito sopra, infine li ha immessi in un trittico. È stato eccitante.
MIMMO PALADINO — Come una sfida a duello: mettere insieme un pittore con un artista che scrive versi e compone musica, per elaborare una grammatica di segni che prima non esistevano. Il passaggio successivo? Una mostra insieme?
FRANCESCO DE GREGORI — Non so proprio quale potrebbe essere il passaggio successivo. Nel tempo, sono cresciute tra di noi amicizia e confidenza. Ora ho meno pudori dal punto di vista personale ed emotivo. Ma Mimmo è l’artista. Io sono solo prestato all’arte.
Vi affascina la possibilità di abbandonare ogni tanto la pratica della creazione solitaria e individuale, misurandovi con frequenti collaborazioni. Un’esperienza naturale e necessaria, per i musicisti.
FRANCESCO DE GREGORI — Mi è capitato spesso di collaborare con altri musicisti e cantanti. Si guadagna sempre da questi scambi. C’è una crescita reciproca. Il lavoro di un altro che si affianca al tuo lo arricchisce. Artisti diversi rinunciano a una parte della propria autonomia, per creare una «cosa» ulteriore. Questa alchimia scatta soprattutto quando non ci sono patti da rispettare, né strategie cui attenersi. E tutto è istintivo, naturale. Anche lei, spesso, ha incontrato compositori, cantautori, attori, registi cinematografici e teatrali.
MIMMO PALADINO — Mi piace riportare nel mio lavoro i segni di altri. Ma com’è nata la vostra amicizia? Che cosa vi accomuna davvero? FRANCESCO DE GREGORI — Condividiamo un fondo di umanità, un’idea di arte. MIMMO PALADINO — Abbiamo amori comuni, passioni comuni, idiosincrasie comuni. Sia per Francesco che per me, l’arte resta un campo imprendibile, senza mete certe. Come un viaggio per afferrare una gemma che non si troverà mai. Ma questo ci tiene in vita.
Francesco De Gregori, cantautore, uno che legge e rilegge poesia, è un escursionista delle arti. Mimmo Paladino, artista, è un nomade della letteratura e della musica Per «la Lettura» hanno realizzato insieme questo trittico: gli «scarabocchi» di De Gregori ritagliati e riassemblati da Paladino: «Segni che prima non esistevano»