Corriere della Sera - La Lettura
«Un posto al sole» è più di una serie tv
Agli occhi dello spettatore fedele le storie personali degli attori offrono ulteriori sfumature ai personaggi di finzione, sovrapponendosi alla trama
Partita il 21 ottobre 1996, è arrivata alla puntata 5.329. Vi recita lo stesso gruppo di attori, intorno ai quali si dipana una trama arricchita da infiniti sviluppi e, soprattutto, destinata a non concludersi. Viene da chiedersi dove finisca la vita e dove cominci la recitazione per gli interpreti. Poi c’è la fedeltà all’italiano, senza cedere alla moda del dialetto napoletano. E c’è un intento pedagogico sano e prezioso. Fenomenologia di una soap opera soltanto in apparenza fuori dal tempo
Mi capita di vedere sempre più spesso Un posto al sole. Lo faccio quando vado a trovare mia madre, a Trieste, o la madre della mia compagna, qui a Roma. Entrambe, a quell’ora, non transigono: si può chiacchierare prima o dopo, ma durante Un posto al sole non deve volare una mosca. E così, seppure in grave ritardo, ho scoperto la bellezza di questa soap.
È facile sapere da quando va in onda (21 ottobre 1996), c’è una pagina Wikipedia dettagliatissima che, tra l’altro, viene aggiornata ogni due-tre puntate. Ma Un posto al sole sembra essere sempre esistito, ponendosi come una struttura aperta il cui inizio si perde nel mito, qualcosa che ricorda più il Mahabharata che una storia inventata da sceneggiatori di Rai Fiction, un’antica epopea i cui primi autori sembrano a loro volta ripetere episodi raccontati da cantori ancora più lontani, storie tramandate dalla notte dei tempi eppure riprese e moltiplicate e riattualizzate in migliaia di rivoli sempre nuovi, da cui altri inediti personaggi vengono a complicare la vita di quelli già esistenti. Dimenticate quindi l’insegnamento di Vladimir Propp: qui si tratta piuttosto di una favola in cui le peripezie dell’eroe non portano mai all’equilibrio ristabilito della conclusione, semplicemente perché Un posto al sole non ha un finale, o per lo meno non è previsto che finisca. Il che lo sposta in una dimensione non banalmente narrativa, bensì artistico-performativa.
Gli attori della prima ora — circa una dozzina i professionisti del nucleo storico — indossano i panni dei loro personaggi da 23 anni. Sono cresciuti e invecchiati nel ruolo che incarnano. C’erano attori bambini i cui personaggi sono diventati adolescenti e poi adulti, hanno vissuto eventi inventati dagli sceneggiatori nel modo più coerente possibile con le stagioni scolastiche, i brufoli, l’avanzare dell’età. Le storie raccontate si sono adattate alle trasformazioni degli attori e delle attrici facendo inevitabilmente filtrare, nella vicenda inventata, elementi biografici reali. A un attore con gravi problemi di peso magari è possibile imporre una dieta quando si tratta di un film con poche settimane di riprese, ma quando si tratta di un film infinito, nel quale quell’attore deve recarsi ogni santo giorno sul set, bisogna introdurre elementi di sceneggiatura che giustifichino i cambiamenti del suo corpo, il fatto che sia dimagrito o ingrassato.
Ecco il primo motivo di grande interesse, una soap come performance collettiva permanente. Ogni giorno, tranne i weekend e una breve interruzione agostana, gli attori recitano al Caffè Vulcano o nello studio legale Navarra
o negli spazi di Palazzo Palladini (in realtà Villa Volpicelli, uno splendido caseggiato di Posillipo) e lo fanno seguendo un copione aggiornato sui fatti della più stringente attualità, dove il tempo del racconto porta la stessa data del calendario reale: se, fuori, noi spettatori stiamo preparando la cena della vigilia di Natale, loro, dentro la tv, stanno mettendo i pacchetti sotto l’albero. Questa corrispondenza risulta ancora più fervida di significato se la pensiamo nella mente degli attori. Quando la perfida Marina lascia il set e torna ad essere l’attrice Nina Soldano, come si vivrà, come si percepirà in mezzo agli altri? Per strada tutti i napoletani di sicuro la riconosceranno. Ma anche vivendo appartata il resto della giornata, le sarà comunque difficile dimenticare l’alter ego Marina, cioè di avere appena compiuto gesti e pronunciato battute che non appartenevano a lei, bensì al suo personaggio. Ovviamente questo può succedere anche a un attore in scena nel teatro della propria città ma il disagio durerà non più di qualche settimana di repliche, qui invece parliamo di un ruolo a vita, indossato tutti i giorni, un processo di alienazione dissociativa enfatizzato, per non dire monumentalizzato, dalla routine. È proprio l’aspetto impiegatizio della prestazione a rendere grandiosa l’opera collettiva di questi attori, lo dico senza nulla togliere alle loro qualità interpretative. Recitare una parte non sarà mai lo stesso che lavorare in ufficio, soprattutto se sei visto ogni sera da milioni di persone. In ogni caso, qui si tratta di un ufficio da cui non stacchi mai fino in fondo, il lavoro te lo porti appresso, studi la parte per domani, vivi nella stessa città in cui è ambientata la storia, la città in cui quotidianamente ti fermano per farsi una foto con te, dove gli appassionati conoscono anche le tue vicende private, quelle che hai raccontato nelle interviste o che ti sono state rubate dagli sciacalli del gossip.
In effetti, parlando con mia madre mi accorgo che, agli occhi dello spettatore fedele, le storie personali degli attori arricchiscono di ulteriori sfumature i personaggi di finzione, di fatto sovrapponendosi alla trama della soap. Un’attrice colpita da un grave lutto, ad esempio, è rientrata in scena dopo un periodo di riposo: ebbene, ogni parola del suo personaggio ora, a dispetto delle sue intenzioni, viene letta alla luce del trauma e, per certi versi, inverata, umanizzata dall’esperienza reale. Una simile fusione di piani potrebbe risultare oltraggiosa solo se ignorassimo che anche noi, nella vita, non facciamo altro che recitare ( persona in latino significa maschera).
In fondo è Il gran teatro del mondo di Calderón de la Barca, sette miliardi e passa di persone gettate sul palcoscenico dell’esistenza. Ecco quindi le solite questioni pirandelliane: quando siamo davvero noi stessi e quando recitiamo la parte di noi stessi? È possibile individuare il passaggio tra i due stati? Siamo sicuri che esista una differenza? Non sarà che la nostra verità emerge proprio quando recitiamo, come accade in Sei personaggi in cerca d’autore? Le doppie esistenze di Un posto al sole sembrano molto simili a quelle escogitate da Charlie Kaufman nel film Synecdoche, New York, dove il protagonista, un regista teatrale impersonato dal compianto Seymour Hoffman, affitta un enorme hangar, lo allestisce in varie forme abitative e assolda un congruo numero di attori e attrici per farli recitare nei panni di loro stessi ventiquattro ore al giorno in una sorta di eterno dietro le quinte. Il titolo allude alla città in cui è ambientata la storia (Schenectady) e, nello stesso tempo, alla figura retorica della sineddoche, ma nella finzione cinematografica di Kaufman risulta sempre più difficile distinguere il contenente dal contenuto, la parte dal tutto, lo spettacolo dalla vita, la rappresentazione dall’intera esistenza, e sono sicuro che anche per gli attori della nostra soap non sia facile districarsi in questo gioco di cornici. Come parlano, ad esempio, nelle ore fuori dal set? Cedono allo slang locale o continuano a esprimersi nella lingua standard della sceneggiatura?
Il linguaggio è, a mio avviso, un altro aspetto notevole di Un posto al sole. In anni di verismo manierato, quando tutte le giovani leve del cinema impegnato si sentono obbligate a prime prove in napoletano sottotitolato (o romano de borgata), Un posto al sole procede imperterrito con l’idioma nazionale. Si tratta di un italiano giustamente con cadenza napoletana, visto che l’azione si svolge a Napoli e gli attori sono napoletani, ma senza particolari ammiccamenti al dialetto. E qui è bene sgombrare subito il campo da equivoci leghistoidi: io conosco e parlo discretamente il napoletano per averlo frequentato a lungo nell’infanzia, grazie alla mia nonnina di Muro Lucano, e per praticarlo ancora di tanto in tanto con la mia compagna per metà napoletana. La questione è, semplicemente, non farne una scorciatoia estetizzante. Nel cinema, ma ancora di più nelle serie, il napoletano viene spesso impiegato per far sentire più radicata la storia che si racconta. Una specie di additivo all’ambientazione, necessariamente criminale, necessariamente degradata, con lo scopo di garantire al pubblico una presunta missione sociale e quindi, per uno strano automatismo, assicurarsi un marchio di qualità. Ma, che si parli di Scampia o di Poggioreale, non c’è nessuna vocazione sociale in quei film (non più di quanto ci fosse nei film sulla mafia di Coppola e Scorsese): sono quasi sempre operazioni a freddo che sfruttano le condizioni di degrado perché risultano fotogeniche, ovvero pregne di stuzzicante esotismo agli occhi dello spettatore contemporaneo; operazioni che piacciono alla gente a casa, e quindi al mercato, e insomma vanno di moda essendo parte di una medesima ondata ipocrita e parassitaria che non ha alcun interesse a denunciare le condizioni di vita che rappresenta, ma semplicemente ne asseconda la presa sul pubblico che ormai ha eletto la criminalità organizzata a forma di intrattenimento.
Per i giovani registi è una scelta obbligata, per i meno giovani spesso è un esercizio di stile, con il risultato di un’immensa, sconfinata Gomorra con le luci ogni volta un po’ più livide e stilose. Ovviamente ci sono mirabili eccezioni (Agostino Ferrente, Pietro Marcello, Leonardo Di Costanzo, Matteo Garrone stesso) ma è un gusto così dominante da creare equivoci a dir poco ridicoli: mi è capitato di assistere a un laboratorio teatrale a Rebibbia in cui il regista, dopo avere riscritto l’Amleto in napoletano, ha fatto recitare i detenuti del 41bis con pistole e giubbotti, cioè nei panni di loro stessi. Dove stava la funzione didattica di quello spettacolo? Dove stava la trasformazione, necessaria a ogni vera formazione? L’automimetismo non è certo il modo migliore per produrre consapevolezza.
È solo sforzandoti di diventare un altro che puoi sperare di capire un po’ meglio chi sei. Pensiamo, ad esempio, al film La schivata di Abdellatif Kechiche, dove ragazzi magrebini della banlieue di Saint-Denis partecipano a un laboratorio in cui sono costretti ad abbandonare lo slang per affrontare una pièce di Marivaux in francese del Diciottesimo secolo, come parte essenziale di un percorso di rinnovamento e crescita personale. Tutto ciò può sembrare poco attinente a Un posto al sole, che non ha certo ambizioni espressive né è mosso da altre ragioni di ricerca formale, eppure io trovo doppiamente apprezzabile, proprio perché in controtendenza, la vocazione plenaria della soap, che ha scelto di restare fedele all’italiano standard, secondo gli antichi canoni della televisione. Il che comporta, se non altro, che la sua popolarità sia uniforme nel Paese e che anche una signora triestina come mia madre possa appassionarsi alle vicende di un condominio di Posillipo.
Infine l’istanza pedagogica. Con un intento credo non troppo diverso da quello con cui Edmondo De Amicis scrisse Cuore, gli sceneggiatori della soap colgono ogni occasione buona per infarcire la trama di temi sociali, soprattutto i più spinosi, sapendo di parlare alle masse disunite e regredite del Ventunesimo secolo. Così, ad esempio, nei giorni scorsi — per la precisione, nella puntata 5.319 — la giovane Alessandra, dopo varie comprensibili esitazioni, ha accettato di incontrare suo padre, che ha cambiato sesso e ora si chiama Carla. La ragazza si è seduta al tavolino del bar e ha ascoltato le ragioni che hanno spinto il padre a una scelta così radicale. Alessandra e Carla si sono parlate a lungo. Tra le persone che seguono la soap ci sono molte signore illuminate come mia madre e mia suocera che senz’altro si saranno commosse, ma ci sono anche molti babbei trogloditi che saranno rimasti disturbati, o peggio, disgustati dalla vicenda. A questi, maggioranza o minoranza che siano, fa sicuramente bene l’oretta quotidiana di educazione civile imposta con caparbietà e fermezza da un programma che crea dipendenza, pur senza essere oppiaceo.