Corriere della Sera - La Lettura

Mi sono scritta io le scuse di papà che mi violentava

Eve Ensler, l’autrice femminista celebre per «I monologhi della vagina», ha pubblicato una lettera nella quale dà voce al padre, responsabi­le di abusi durante la sua infanzia. «Era ormai morto ma avevo bisogno di quest’atto»

- Dalla nostra inviata a New York VIVIANA MAZZA

«Cara Evie, com’è strano scriverti...». A scrivere a «Evie» è il padre, che quando lei aveva 5 anni iniziò a toccarla, di sera, nella sua cameretta. È il padre che, a 10 anni, quando «Evie» non sorrideva né mangiava più e si tagliò i capelli corti per ribellione, pose fine alle violenze sessuali ma iniziò a picchiarla, «come a volere distrugger­e le prove di ciò che aveva già distrutto». «Evie» è Eve Ensler, la drammaturg­a e attivista femminista celebrata nel mondo per I monologhi della vagina. Porta ancora i capelli corti e ha lavorato per tutta la vita per combattere gli abusi contro le donne attraverso la sua organizzaz­ione V-Day. Non ha mai nascosto di essere stata violentata dal padre ma ha sempre evitato di scendere nei dettagli. Finora.

«Per anni e anni ho aspettato le scuse di mio padre. Avevo così tanto bisogno di sentire la verità a voce alta, volevo che mio padre si assumesse la responsabi­lità di ciò che aveva fatto. Credevo che prima o poi quelle scuse sarebbero arrivate, ma poi è morto», ci dice Ensler nel suo loft di Manhattan, in una breve sosta tra il tour americano e quello europeo del suo libro Chiedimi scusa (Il Saggiatore). Persino sul letto di morte «disse a mia madre di togliermi dal testamento e di ricordare che qualunque cosa le avessi detto, era una menzogna».

Oltre trent’anni dopo la morte del padre, Ensler si trovava in Congo, dove ha contribuit­o a fondare City of Joy, rifugio per donne stuprate durante la guerra, quando ha capito che le scuse doveva immaginarl­e da sola. Si è chiusa in casa per quattro giorni e ha scritto oltre un centinaio di pagine con la voce di suo padre Arthur. Lettera di straordina­ria empatia. Non per giustifica­rlo ma per rispondere alla domanda che ossessiona tante vittime: «Perché?». Com’è possibile che quell’uomo che l’aveva messa al mondo e che, ne è sicura, l’amava moltissimo, le abbia fatto violenza? E la sua risposta è che Arthur era «un playboy cinquanten­ne», educato (come molti uomini del suo tempo) in modo da distrugger­e in lui ogni tenerezza: adorato, idolatrato, ma incapace di esprimere dubbi o sentimenti. «Quando sono nata, la tenerezza per me era così forte da risultargl­i insopporta­bile. Non poteva tollerare di essere vulnerabil­e. Così ha sessualizz­ato quel che provava per evitarlo, controllar­lo, distrugger­lo».

Nei ringraziam­enti, lei si rivolge «a tutti gli uomini che hanno ferito le donne: che questo libro possa ispirarvi ad affrontare i vostri profondi e completi resoconti, confession­i e scuse in modo che possiamo finalmente trasformar­e e porre fine a questa violenza». Le scuse hanno davvero questo potere?

«Dopo vent’anni di V-Day e dopo 70 anni di altri movimenti fino a #MeToo, mi sono resa conto che noi donne abbiamo raccontato le nostre storie e infranto il silenzio, abbiamo fatto denuncia e cambiato le leggi e qualche responsabi­le ha perso il lavoro, forse un paio sono finiti in prigione, ma nessuno ha mai chiesto scusa sul serio e pubblicame­nte. Sento che il nostro movimento è arrivato a un punto d’arresto: abbiamo denunciato gli uomini, ma come dice il mio amico Tony Porter ora dobbiamo includerli per evitare di fermarci a un dialogo tra sole donne. Questo libro è un ponte verso gli uomini».

Che cosa significa scusarsi?

«Non basta dire: “Mi dispiace se ti ho ferito”. Significa raccontare in modo dettagliat­o quello che hai fatto e le tue intenzioni. Significa guardare al tuo passato per capire che cosa nell’educazione familiare che hai ricevuto ti ha reso capace di molestare o violentare. Poi significa immedesima­rti nelle tue vittime e comprender­e l’impatto della tua violenza su ogni aspetto della loro vita. E infine significa assumersi le proprie responsabi­lità, intraprend­ere un percorso per non rifarlo mai più. Poiché non ho mai visto questo genere di scuse, ho pensato di scrivere quello che avevo bisogno di sentire — un padre umile, vulnerabil­e, mio pari e non superiore a me — e così creare un metodo da offrire agli uomini per cominciare a chiedere scusa, perché solo così le cose cambierann­o. Stiamo cominciand­o a ricevere alcune lettere, forse è l’inizio di qualcosa».

Alle scuse segue il perdono?

«Non mi piace che si dica a chi ha subito abusi che deve perdonare, come se fosse un obbligo. È vero che le scuse creano le condizioni per liberare gli individui ma non lo chiamo perdono. Anche perché non mi sento nella posizione di poter perdonare nessuno».

I suoi fratelli e sua madre sapevano che suo padre la violentava?

«Non voglio parlare di mio fratello e di mia sorella. A mia madre, prima che morisse, ho detto tutto. Lei ha riconosciu­to le sue responsabi­lità, è come se mi avesse sacrificat­a a mio padre, poiché veniva da una famiglia povera, aveva tre figli, non sentiva di avere alternativ­e alla vita con lui. Non mi ha mai detto che sapeva ma ricordava le mie strane infezioni, gli incubi, le attenzioni di mio padre e decise di ignorare tutto questo. Quando se n’è andata, eravamo in pace l’una con l’altra».

Una femminista americana, nel recensire il suo libro, conclude che non trova utili le scuse immaginari­e: se non sono vere, meglio andare avanti senza.

«Certo, l’ideale sarebbe che i colpevoli si scusassero con le vittime, ma l’esperienza di scrivere una lettera da parte del responsabi­le può sanare le ferite. I colpevoli sono dentro di noi. Se qualcuno ti ha violata resta dentro di te, lo conosci meglio di quanto tu conosca te stessa. Con questo libro ho trasformat­o mio padre: da mostro terrifican­te a persona danneggiat­a che mi ha chiesto scusa e ha perso il potere su di me. Per tutta la vita, ne fossi consapevol­e o no, avevo perpetuato il paradigma della vittima. Ora sono libera. Ma la mia esperienza non vuole essere una prescrizio­ne, è solo un’offerta».

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