Corriere della Sera - La Lettura
Il nuovo ponte dell’ingegnere
Narrativa italiana/1 Un pensionato, vedovo da pochi mesi, decide di dare senso a una domenica di novembre invitando a pranzo a casa una delle figlie con il genero e le nipotine. Ma qualcosa va storto... Da qui riparte Fabio Geda
Un ingegnere in pensione, che per quarant’anni ha costruito ponti in tutto il mondo, è rimasto solo dopo la morte della moglie. Vedovo da otto mesi, ha capito «di aver prestato nel corso della vita più attenzione alle cose urgenti che a quelle importanti». E in una domenica di novembre, in una Torino che quasi non è lei, così ventosa e secca, decide di rimediare: preparerà un pranzo festivo per la figlia Sonia, il marito e le nipotine. Dei suoi tre figli, Sonia è quella che vive più vicina, a Biella, mentre Alessandro è ricercatore a Helsinki e Giulia, che pian piano si rivela essere la vera narratrice della storia, abita a Roma quando non è in tournée con il teatro.
Comincia così il nuovo romanzo di Fabio Geda, Una domenica (Einaudi Stile libero), ma la narrazione non è solo la storia di una singola giornata di festa. Il romanzo si getta come un ponte tra rive lontane: il tempo del presente, in cui l’ingegnere affronta la preparazione del pranzo domenicale inciampando a ogni passo nei ricordi della moglie, e l’Italia delle famiglie di ieri, un Novecento vicino, dagli anni Settanta in poi, eppure già leggendario, analogico e non digitale, fatto di fotografie in cornice, gite epiche, pomeriggi alla pista di pattinaggio. Oltre che tra le rive lontane del tempo, Geda tesse legami e ponti anche tra presenze e assenze del romanzo, vivi e morti, vicini e lontani. Il protagonista, cioè il padre, e il narratore pressoché onnisciente, cioè la figlia Giulia, non si incontrano in realtà da anni, eppure lo scrittore li fa convivere nelle pagine con una virtuosistica abilità narrativa. E altri ponti sono i nuovi legami e gli incontri che finiranno per intrecciarsi in una giornata in cui niente andrà, almeno all’apparenza, per il verso giusto.
Il pranzo, infatti, rimane cristallizzato così com’è, appena uscito dal forno, ancora nelle teglie e nelle casseruole, «le cipolle ripiene, il budino di Seirass e le tagliatelle di borragine», con zuppa inglese finale: arriva una telefonata, gli ospiti attesi stanno correndo al Pronto soccorso, la nipotina è caduta da un albero di cachi e si è rotta un braccio. Niente di irreparabile, ma il pasto è rimandato. Allora l’ingegnere esce di casa, giusto per togliersi dal «torpore amniotico» in cui il luogo lo avvolge — alle sue spalle lascia la sala da pranzo e la cucina così come sono, apparecchiate, in una casa in cui il tempo si è fermato. Siede in un parco, vede un ragazzino che prova evoluzioni sullo skateboard — e la storia sembra destinata a ripiegarsi sul ricordo della moglie, sulla solitudine della vecchiaia, su qualche memoria: invece no.
L’uomo che ha girato il mondo per costruire ponti, e che i figli e forse anche la moglie hanno percepito fin troppo assente e lontano per decenni, ora che ha perso quasi tutto si ritrova interamente immerso nel presente: nel parco il ragazzino sullo skateboard fa balzi impressionanti, poi cade, si rialza, litiga con la madre che vuole portarlo a pranzo; e la madre impaziente, inquieta, si esprime prima a occhiate, poi alza la voce, poi scherza, ride, si arrende. I due piano piano prendono forma, in una delle sequenze più efficaci del romanzo, e diventano Gaston, il ragazzino dai tratti australi appassionato di skate, ed Elena, la madre affettuosa ma ansiosa in cui l’ingegnere legge un’inquietudine per il futuro ancora non detta forse nemmeno a sé stessa. Qui la svolta: lì per lì, l’uomo li invita a casa, a consumare il pranzo che non merita di andare sprecato. E il gesto, questo nuovo ponte, farà la differenza per molti personaggi del romanzo.
Come i ponti, il romanzo di Geda è una costruzione di cui si percepisce la complessità ma che deve sembrare affusolata e aerea. E tale sembra. Il libro si legge come un page turner: capitoli brevi, intensi, cesellati, che stuzzicano nel lettore ora la curiosità sul tempo presente del romanzo e sul destino dell’invito a pranzo tra estranei, ora una nostalgia lancinante di un passato che gronda felicità perduta ma anche errori irrimediabili.
Però Geda non si limita a mettere in campo la classica struttura con l’intreccio principale e i flashback: piano piano si capisce che la narrazione affidata alla figlia Giulia appartiene a un terzo tempo, successivo a quello del pranzo raccontato e a quello dei ricordi evocati, un tempo nuovo che può esistere (e tocca al lettore scoprire come) esclusivamente perché l’invito a pranzo c’è stato, il ponte è stato gettato e qualcosa è cambiato, in grande o in piccolo, nella vita di tutti i personaggi.
La storia di Geda cresce come un albero — altra immagine frequente nel libro, l’albero: l’albero caduto per il vento davanti al fiume come un ponte mancato, nell’incipit; l’albero da cui cade la nipotina dell’ingegnere; il protagonista che non sa distinguere un albero dall’altro — e su ciascun ramo fa spuntare nuovi rametti, che formano il ricco intrico finale. Perfino sul «ramo» narrante e giudicante di Giulia cresceranno nuovi rami, e ciò accadrà grazie ad altri incontri casuali disseminati a germogliare nel libro. L’altra complessità del romanzo, o meglio l’altra densità, sta nella vividezza dei flashback, che non sono mai evocazioni o narrazioni, ma sono un romanzo nel romanzo, vividi e reali. Si torna, a capitoli quasi alterni, in un altro mondo. Nelle camerette dei ragazzi di un tempo, dove si spia la vita dei genitori e i loro tradimenti, o dove si litiga e ci si azzuffa tra fratelli. Si torna sui balconi con le piante, dove la mamma va a fumare di nascosto, e dove ci si ferma timidi, dietro le tende, a guardare. O ancora si torna sui camper delle gite eroiche dell’infanzia, occhi spalancati davanti al ponte costruito dal papà, il viadotto di Millau in Francia.
Alla fine, tutti i personaggi del romanzo sono piloni, campate o stralli di un ponte che è, se non la relazione, la famiglia, incarnata nella casa che in fondo al libro non è vuota: la casa albero, la casa «mamma» annunciata dalla dedica in esergo. «Un luogo in cui tornare di tanto in tanto, per dialogare con il tempo che passa — chiude Geda — e cercare di farci pace».