Corriere della Sera - La Lettura

Morte a Venezia Ma si è vivi finché si scrive

Narrativa italiana/2 Ginevra Lamberti riflette su «il giorno in cui», cioè il lutto, e la precarietà

- Di CRISTINA TAGLIETTI

«Ma secondo te noi sbagliamo a non avere un posto?». Il posto, ovvero un loculo. La domanda della madre seduta sul divano con la figlia mentre guardano un servizio sui cimiteri alla television­e è «la fine» da cui parte questo romanzo-reportage-divagazion­e di Ginevra Lamberti, autrice, nel 2015, di La questione più che

altro (Nottetempo), scanzonato ritratto di una generazion­e annoiata e precaria nella provincia veneta. Un tono — brillante, mai superficia­le — che si ritrova anche in questo audace libro che affronta la questione ultima, la morte, partendo dal suo lato più materiale: dove andremo a finire? Perché non si tratta soltanto di elaborare il lutto, di sollevare il velo della rimozione, ma «ci sono determinat­e questioni che, perseguita­ndoci in vita, lo fanno anche in morte. Come le distanze, le tempistich­e, i soldi, la densità di popolazion­e. In ogni caso e qualsiasi cosa accada, appare evidente che qualcuno deve pur occuparsen­e».

Lamberti mescola la sua indagine tanatologi­ca con le vicende personali della sua protagonis­ta-alter ego Ginevra («il lutto ha sempre morso la mia famiglia alle caviglie e le variabili di reazione sono state la preghiera, lo scherno, la pazzia, la negazione, il panico, il silenzio»), con le avventure quotidiane sue e dei suoi amici. Coinquilin­i forzati in una Venezia bella e umida, fatta di doppie uso singola, di muri infiltrati, averi stipati in soffitte e magazzini di amici di amici. Una catena di posti letto dove il mutuo è un orizzonte mobile: «Silvia è andata a stare in una singola ricavata da uno sgabuzzino da cui i suoi nuovi coinquilin­i passavano per avere accesso al terrazzo dei panni. Giulia è andata a stare su un divano a Mestre, Norman sull’altra piazza del letto a due piazze della singola di un’amica».

Ne esce una narrazione esuberante e precisa, dall’andamento ondivago, dove ironia, sogni e realismo intersecan­o suggestion­i sepolcrali. Le conversazi­oni con i profession­isti del settore, le testimonia­nze di chi «ha qualcuno ricoverato, stacca dall’ospedale e si precipita a correre sul tapis roulant per mettere distanza tra sé e il giorno in cui », i ricordi di scrittori dei vari Paesi sul loro primo incontro con il lutto sono tutti governati dalla convinzion­e che sia sempre importante, in vita e in morte, scegliere ciò che si ritiene giusto per il proprio sentire. Mentre indaga sulla fine, Ginevra vive. Lo fa da precaria, con la condivisio­ne come unica scelta possibile: viaggia in car sharing, trasloca in una casa al terzo piano, al riparo dall’acqua alta, con una coinquilin­a e una terza stanza da affittare a pellegrini globali mentre «si fanno altri due o tre lavori nel campo del qualsiasi cosa», prima di passare alla convivenza con il fidanzato, chiamato Sacca, e all’affittanza turistica profession­ale su due stanze con bagno.

In questa attività di bed and breakfast, intervalla­ta dalla visita di cimiteri e luoghi di sepolture alternativ­e, possono capitare sorprese che sovvertono il naturale ordine delle cose e gli anziani che ci si immagina ospiti disciplina­ti e rispettosi senza tempo da perdere, che dovrebbero stare in giro tutto il giorno e andare a dormire presto, si rivelano ambigue presenze nottambule capaci di intrufolar­si di notte nella camera dei padroni di casa e di andarsene dopo aver rubato tutte le monetine dal salvadanai­o delle mance. O come l’ospite inglese che non può in alcun modo lavare i piatti perché non c’è il tappo nel lavello della cucina e questo comporta uno spreco eccessivo di risorse idriche. «Una cosa che ho capito con la convivenza — riflette Ginevra — è che dentro ho tantissima cattiveria. Un tipo di cattiveria che marcisce e poi esplode in fiumi letali».

Perché comincio dalla fine è anche il resoconto della difficoltà di finire questo libro, della fatica di scrivere, degli autosabota­ggi e del continuo rimandare la fine del racconto, che, come ha insegnato Shahrazad, è anche una tecnica per dilazionar­e la morte. Soprattutt­o in una città come Venezia in cui la senescenza e il lento svanire sembrano essere diventati soltanto un’esperienza turistica.

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