Corriere della Sera - La Lettura
Morte a Venezia Ma si è vivi finché si scrive
Narrativa italiana/2 Ginevra Lamberti riflette su «il giorno in cui», cioè il lutto, e la precarietà
«Ma secondo te noi sbagliamo a non avere un posto?». Il posto, ovvero un loculo. La domanda della madre seduta sul divano con la figlia mentre guardano un servizio sui cimiteri alla televisione è «la fine» da cui parte questo romanzo-reportage-divagazione di Ginevra Lamberti, autrice, nel 2015, di La questione più che
altro (Nottetempo), scanzonato ritratto di una generazione annoiata e precaria nella provincia veneta. Un tono — brillante, mai superficiale — che si ritrova anche in questo audace libro che affronta la questione ultima, la morte, partendo dal suo lato più materiale: dove andremo a finire? Perché non si tratta soltanto di elaborare il lutto, di sollevare il velo della rimozione, ma «ci sono determinate questioni che, perseguitandoci in vita, lo fanno anche in morte. Come le distanze, le tempistiche, i soldi, la densità di popolazione. In ogni caso e qualsiasi cosa accada, appare evidente che qualcuno deve pur occuparsene».
Lamberti mescola la sua indagine tanatologica con le vicende personali della sua protagonista-alter ego Ginevra («il lutto ha sempre morso la mia famiglia alle caviglie e le variabili di reazione sono state la preghiera, lo scherno, la pazzia, la negazione, il panico, il silenzio»), con le avventure quotidiane sue e dei suoi amici. Coinquilini forzati in una Venezia bella e umida, fatta di doppie uso singola, di muri infiltrati, averi stipati in soffitte e magazzini di amici di amici. Una catena di posti letto dove il mutuo è un orizzonte mobile: «Silvia è andata a stare in una singola ricavata da uno sgabuzzino da cui i suoi nuovi coinquilini passavano per avere accesso al terrazzo dei panni. Giulia è andata a stare su un divano a Mestre, Norman sull’altra piazza del letto a due piazze della singola di un’amica».
Ne esce una narrazione esuberante e precisa, dall’andamento ondivago, dove ironia, sogni e realismo intersecano suggestioni sepolcrali. Le conversazioni con i professionisti del settore, le testimonianze di chi «ha qualcuno ricoverato, stacca dall’ospedale e si precipita a correre sul tapis roulant per mettere distanza tra sé e il giorno in cui », i ricordi di scrittori dei vari Paesi sul loro primo incontro con il lutto sono tutti governati dalla convinzione che sia sempre importante, in vita e in morte, scegliere ciò che si ritiene giusto per il proprio sentire. Mentre indaga sulla fine, Ginevra vive. Lo fa da precaria, con la condivisione come unica scelta possibile: viaggia in car sharing, trasloca in una casa al terzo piano, al riparo dall’acqua alta, con una coinquilina e una terza stanza da affittare a pellegrini globali mentre «si fanno altri due o tre lavori nel campo del qualsiasi cosa», prima di passare alla convivenza con il fidanzato, chiamato Sacca, e all’affittanza turistica professionale su due stanze con bagno.
In questa attività di bed and breakfast, intervallata dalla visita di cimiteri e luoghi di sepolture alternative, possono capitare sorprese che sovvertono il naturale ordine delle cose e gli anziani che ci si immagina ospiti disciplinati e rispettosi senza tempo da perdere, che dovrebbero stare in giro tutto il giorno e andare a dormire presto, si rivelano ambigue presenze nottambule capaci di intrufolarsi di notte nella camera dei padroni di casa e di andarsene dopo aver rubato tutte le monetine dal salvadanaio delle mance. O come l’ospite inglese che non può in alcun modo lavare i piatti perché non c’è il tappo nel lavello della cucina e questo comporta uno spreco eccessivo di risorse idriche. «Una cosa che ho capito con la convivenza — riflette Ginevra — è che dentro ho tantissima cattiveria. Un tipo di cattiveria che marcisce e poi esplode in fiumi letali».
Perché comincio dalla fine è anche il resoconto della difficoltà di finire questo libro, della fatica di scrivere, degli autosabotaggi e del continuo rimandare la fine del racconto, che, come ha insegnato Shahrazad, è anche una tecnica per dilazionare la morte. Soprattutto in una città come Venezia in cui la senescenza e il lento svanire sembrano essere diventati soltanto un’esperienza turistica.