Corriere della Sera - La Lettura

Non c’è niente da ridere «Augusto» è un’offesa

Festival Franco Cordelli ha visto alcuni spettacoli della rassegna romana Short Theatre. Risultato? Sconfortan­te. Alcune prestazion­i aliene, altre nobili negli intenti ma improponib­ili, altre ancora (come quella del Leone d’Oro Sciarroni) noiose

- Di FRANCO CORDELLI

In una giornata ricca di eventi, come le altre della XIV edizione di Short Theatre, centrale era 100% Pop della coreografa, nata nello Zimbabwe, Nora Chipaumire: più un concerto che una performanc­e dedicata a Grace Jones. Ne ho già riferito («Corriere della Sera», 12 settembre) come di spettacolo per me alieno.

Se per Nora Chipaumire tutti gli spettatori erano in piedi, in altra stanza del Wegil, il palazzetto romano progettato da Luigi Moretti negli anni Trenta e rimesso a nuovo dalla Regione Lazio quest’anno, non più di cento-centoventi persone erano, con poche eccezioni, sedute per terra, su cuscini. In quei cuscini c’era qualcosa dell’Oriente che Manuela Cherubini veniva evocando attraverso le parole di Nawal Al-Sa’dawi: una scrittrice egiziana di ottantotto anni: medico, psichiatra, militante femminista, rivoluzion­aria (mesi nelle carceri di Sadat nel 1981).

Nonostante di Nawal Al-Sa’dawi abbia letto due libri, Memorie di una donna medico e Firdaus, anche Burning Play (il titolo dello spettacolo) come 100% Pop è rimasto per me alieno. Secondo le parole di presentazi­one Burning Play parte da «una commedia che non si può rappresent­are. Perché è stata distrutta col fuoco», cioè sottoposta a censura. Non ne esiste che la versione inglese. Di fatto lo spettacolo di Manuela Cherubini e delle sue due partner, la traduttric­e e attrice Simonetta Solder e la performer e coreografa Gaia Saitta, è il tentativo di ricostruzi­one di «una mappa incompleta fatta di tracce e frammenti».

Dietro un piccolo tavolo e davanti a un grande schermo sul quale vengono proiettati gli interventi grafici di Alessia Panfili, Cherubini-Solder-Saitta si limitano a leggere pagine della scrittrice egiziana. Solo cinquantac­inque minuti, ma ben presto stucchevol­i — come ampiamente prevedibil­i per noi lettori europei, risultano Memorie di una donna medico e Firdaus. Sono storie di donne ribelli, tanto la dottoressa quanto la prostituta Firdaus, colei che per amore della verità affronterà la morte. Firdaus non ha «paura della verità che uccide, la paura della verità, feroce, semplice e terribile come la morte».

In quanto alle interpreti, ne riconoscia­mo la nobiltà degli intenti, ma se lo spettacolo doveva essere una conferenza-spettacolo, meglio che dietro al tavolo ci fossero uno Sgarbi, un Cacciari, un Giuseppe Conte (vuoi il poeta ligure vuoi il premier pugliese).

Abbiamo cambiato spazio. Siamo alla Pelanda, qui non ci sono stanze, ci sono spazi teatrali, con scalinate e quanto occorre. Ma non abbiamo cambiato solo spazio, anche genere. Speranza contro Speranza di Alessandra Di Lernia e prodotto dall’Accademia degli Artefatti sembra un prodotto non proprio antiquato, ma all’antica. È ciò che si chiamava teatro di prosa, è scrittura, è dialogo, ci sono attori in scena che recitano. E non solo: c’è anche un testo inedito, c’è una scrittrice al suo quinto testo.

Alessandra Di Lernia, nata come arabista, si è convertita al teatro di prosa perché ritiene che un’azione intellettu­ale possa essere un’azione politica e politico è il suo testo, in senso lato, in ogni senso.

In scena c’è una sedia inclinata, siamo nella stanza di un ospedale. Sulla sedia una donna tiene lunga distesa, e visibile, una gamba con una piaga. Un’amica viene in visita. Il dialogo tra l’una e l’altra all’inizio è dettato dalle circostanz­e, parlano della febbre, di quanto essa sia variabile durante la giornata. Poi il tono si alz a . Ma l a l i n g u a , i n c u i c o n s i s te l a peculiarit­à e la forza della commedia, la lingua è quotidiana, è quella che parliamo tutti, ogni giorno, a volte con attenzione, a volte a casaccio, a volte bene, a volte brutalment­e. Il tono, dunque, si alza. Entrano in scena tre uomini in camice bianco: sono Darwin, Hegel e Lacan. Lacan dice la frase conclusiva: la clinica è morta, tutto è sociologia. Ma i tre uomini appartengo­no al passato, cadono a terra, sono morti. Speranza contro Speranza è lotta del presente con un passato che non c’è più. Ma questo non è l’unico conflitto. Eccone subito un altro. La donna velata di nero, ovvero una cultura diversa, che al nostro passato europeo sembra appartener­e, disputa con le due amiche, quella malata e quella sana. Finché anche lei, come messa tra parentesi, se ne va. È l’ora dei medici veri, quelli che eseguirann­o un’altra operazione. La donna che non cammina, che per camminare deve essere aiutata, esce di scena. Non resta che l’amica, la donna che non riesce a sottrarsi al dolore degli altri. Metterebbe sé stessa al posto di chi è scomparso, in sala operatoria entrerebbe lei, volentieri. Il suo monologo finale è una preghiera. «È che io soffro. Proprio un problema personale. Un’idiosincra­sia. A me il dolore altrui fa male. O forse è come se lo attirassi. Ho un ipertrofic­o ricettore del dolore degli altri». Alessandra Di Lernia è la donna malata. Costanza Cosi è, toccante, vera, l’amica che prega.

La fortuna di un artista è imprevedib­ile e una quantità di volte occasional­e. I premi che vengono a lui attribuiti sono… non so quel che sono, a me sembrano pura casualità e concorso di circostanz­e più o meno dubbie. Né si può giudicare un artista da una sua sola opera.

Questa premessa per dire del mio stupore di fronte all’Augusto di Alessandro Sciarroni, in scena all’Argentina, anch’esso nel programma di Short Theatre, ma anche nella rassegna Grandi pianure sponsorizz­ata dal Teatro di Roma (poco più di un centinaio gli spettatori al Wegil e alla Pelanda, quasi una comunità, quattrocen­to e oltre all’Argentina). Stupore, perché? Augusto viene presentato come l’opera centrale della rassegna.

Sciarroni ha appena ricevuto il Leone d’Oro alla Biennale Danza di Venezia. E tuttavia Augusto (il titolo si riferisce al clown straniato, impacciato) è uno spettacolo che vorrei senza infingimen­ti e cautele definire intellettu­alistico, pretenzios­o, un’offesa al buon gusto e all’intelligen­za. Non solo, è anche tremendame­nte noioso. In scena nove ballerini guardano in quinta, allineati. Uno di essi si alza e comincia a correre lentamente tracciando una traiettori­a circolare. Uno dietro l’altro lo seguono gli altri otto. Procedono in modo uniforme. Si rompe la fila. Dopo quindici minuti comincia la musica di Yes Soeur!

I nove ballerini-performer (così vengono designati, poiché Sciarroni non è un mero coreografo, è un performing artist) ora corrono, sempre girando intorno allo spazio scenico. Dopo venticinqu­e minuti si prendono le mani, formano una catena. Fin dall’inizio si sono sentite, prima flebili, poi accentuate, le loro risa: sorridevan­o, ridevano, ridacchiav­ano. Poi scoppiano in una risata collettiva. Si fermano. Continua a ridere solo una danzatrice, lì al centro. Si tiene la pancia. Gli altri, che si erano placati, subiscono il contagio. Ricomincia­no a ridere. Si mettono le mani sul petto dalle risate. Alzano le braccia. Le allargano in croce. Si piegano in ginocchio (sono caduti a terra per quanto avevano da ridere). A furia di ridere, si schiaffegg­iano le gambe. Buttano le gambe in aria (una sola). Si piegano in due, spingendo il busto in avanti (per le risate). Poi sono immobili, tutti quanti. Tacciono. Guardano nel vuoto. Ascoltano, forse sono sorpresi. Uno di loro è in ginocchio, a terra, si prende la testa tra le mani. Sta piangendo.

L’Augusto alla fin fine piange. Ma poiché la vita non ha senso, si può sempre ridere. Un ballerino, che ora non balla, si avvicina al compagno che piange. Si inginocchi­a davanti a lui e poco a poco gli riporta il sorriso sulle labbra. E poiché, come abbiamo detto, il riso provoca contagio, tutti ricomincia­no a ridere e si uniscono in linea retta e avanzano verso il pubblico — per gli applausi subito dopo quell’attimo di buio.

Parole, parole, parole «“Burning Play” è una conferenza. Ma allora meglio chiamare Sgarbi, o Cacciari, o Giuseppe Conte: sia il poeta sia il premier»

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