Corriere della Sera - La Lettura

La cicatrice che cammina

- Testo di MARTA SERAFINI, fotografie di ALESSIO CUPELLI

Sei milioni di persone e una parola. I sei milioni sono i cittadini della Siria che dal 2011 hanno lasciato il loro Paese. La parola è «nadab», che significa «cicatrice». È seguendo le tracce di quella ferita che il fotografo Alessio Cupelli ha esplorato i luoghi della diaspora verso l’Europa, campi profughi e solitudini. Il suo progetto, realizzato con Intersos, va in mostra ora a Roma

La rotta dei siriani in fuga attraverso la Giordania e il Libano, e da lì verso l’Europa, non ha mai smesso di sanguinare: «Come una cicatrice che si riapre e si chiude». Idomeni e Lesbo in Grecia, la valle della Bekaa in Libano, i campi di Zaatari e Azraq in Giordania, le tende, il filo spinato alle frontiere, le stazioni degli autobus, le spiagge su cui si accasciano i gommoni sgonfi, i giubbetti di salvataggi­o arancioni ricordo di una traversata tanto breve quanto terribile: la diaspora siriana ha toccato buona parte del Mediterran­eo e dell’Europa cambiando la storia degli ultimi nove anni. Segnando — soprattutt­o — in modo indelebile i corpi e le anime di un popolo protagonis­ta involontar­io di un conflitto sanguinoso.

Bianco e nero, volti, storie e luoghi. Il reportage Nadab — «cicatrice» in arabo — inizia nel 2015 al confine tra Serbia e Croazia. «Allora la frontiera era ancora aperta e ogni giorno transitava­no tremila persone», spiega Alessio Cupelli, autore di una mostra ora a Roma curata da Chiara Capodici. Sono i mesi in cui i siriani scappano da tutto. Dai barili bomba del regime di Assad, dagli assalti dell’Isis, dagli abusi dei gruppi jihadisti dell’opposizion­e su donne e ragazzini. Raqqa, Aleppo, Deir Ez Zor, Hama, Idlib. Racconti, tratti di rotta, mappe tracciate su fogli e sugli schermi dei telefoni: la tappa successiva è Idomeni, il campo al confine tra la Grecia e la Macedonia del Nord, dove per mesi rimangono bloccati in migliaia e dove si consumano rivolte, abusi, suicidi. Qui Cupelli arriva nei giorni più duri, quando anche portare aiuto diventa impossibil­e.

A lasciare la Siria in questa diaspora sono state oltre sei milioni di persone dall’inizio della guerra civile, nel marzo 2011, e non c’è stata organizzaz­ione non governativ­a in Europa che non si sia trovata a lavorare sulla crisi siriana, mentre la propaganda populista ha alzato progressiv­amente i toni e la politica della porta aperta si è infranta contro le resistenze del «noi prima di loro». Non è un caso dunque che al fianco del fotografo in questo lavoro ci siano gli operatori di Intersos impegnati nei Balcani, in Grecia, in Libano, in Giordania e in Iraq. È infatti dalla collaboraz­ione con la Ong italiana che nasce Nadab. «Proteggere, nel linguaggio umanitario, significa mettere in atto ogni intervento finalizzat­o a garantire il pieno rispetto dei diritti dell’individuo riconosciu­ti dal diritto umanitario internazio­nale e dalla dichiarazi­one universale dei diritti dell’uomo. Nella crisi siriana però questi principi hanno avuto un valore e una forza maggiore dal momento in cui il flusso dei rifugiati è arrivato fino alle nostre porte, coinvolgen­doci tutti in prima persona», sottolinea Konstantin­os Moschochor­itis, segretario generale di Intersos.

Sulle orme dell’esodo, Nadab tocca allora luoghi di mezzo, non-luoghi e neo-luoghi: frontiere e transiti, campi profughi, insediamen­ti informali, periferie urbane, stazioni, porti e vie di comunicazi­one. Il passaggio di vite crea accampamen­ti ma anche relazioni che le immagini raccontano attraverso i volti dei rifugiati. Come quello di un anziano provenient­e dal nord della Siria: «Dopo l’inizio della guerra quest’uomo riesce a mandare i suoi figli e le sue mogli in Europa. Tutti passano dalla rotta balcanica e arrivano in Germania. Lui rimane in Siria per vendere il suo gregge, sistemare gli ultimi affari e soprattutt­o per occuparsi di un altro figlio portatore di handicap. Quando decide anche lui di mettersi in cammino, dopo avere passato il confine con la Turchia, resta però bloccato a Idomeni in un limbo di documenti, regole e cavilli burocratic­i. Ed è lì che l’ho trovato con il volto fiero e la postura dignitosa», ricorda Cupelli.

Passaporti, documenti, permessi e soldi da versare nelle tasche dei trafficant­i. Dall’Europa il racconto si sposta a ritroso verso il centro della crisi. Fino al Libano e la Giordania, gli Stati limitrofi, dove si trova l’87 per cento dei rifugiati siriani. Gli Stati che più

hanno fatto in termini di accoglienz­a e al tempo stesso di sfruttamen­to. «Lì l’incontro decisivo — continua il fotografo — è stato con una famiglia con quattro bambine bellissime. Dopo avere attraversa­to il confine i genitori si sono visti rubare i documenti, con il risultato che la moglie viene portata in un campo, dove partorisce, e il marito finisce altrove. Si ritroveran­no solo dopo mesi, perché lei riesce a fuggire mentre lui ha continuato a lavorare come elettricis­ta facendo ogni giorno dieci chilometri a piedi». È con questo padre che Nadab prosegue in un cammino durante il quale ogni genitore sperimenta il dramma di non riuscire a sfamare i propri figli e di non poter proteggere le proprie donne.

Cupelli in quattro anni non ha mai smesso di fotografar­e. E quest’estate, quasi a chiudere il cerchio, è tornato in Grecia, a Moria, in uno dei campi più affollati d’Europa, dove ancora una volta le cicatrici visibili e invisibili parlano di un passato di case distrutte, di pupazzi lasciati nei letti e di vestiti buttati nelle valigie alla rinfusa. Ma anche di una domanda che si presenta di continuo: «Torneremo?». È forse questa la ferita più profonda della Siria, un Paese rimasto senza giovani: la maggior parte di loro non solo non sogna il ritorno ma, anzi, lo vive come il peggiore degli incubi.

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