Corriere della Sera - La Lettura

Il vincitore è chi va più a fondo

L’evoluzione di una disciplina estrema dal record di un pescatore di spugne «in giù»

- di HELMUT FAILONI

Èun viaggio in un’altra dimensione. Una scalata dell’Everest al contrario. Un’esperienza alla quale non tutti hanno accesso, perché per scendere in apnea negli abissi marini, arrivare giù giù, fino a -100 metri e oltre, ci vuole disciplina assoluta. Non si può sbagliare: il mare è bellezza ed estasi, ma non perdona. Quando si scende molto profondo, può succedere di perdere l’orientamen­to. Lo ha r a ccontato l ’a pneist a ce co Michal Rišian, che nel 2011 nel corso di una gara nelle acque greche di Kalamata, quando si trovava a -60 metri si era allontanat­o per errore dal cavo guida. «Lì sotto — ha detto — anche nel mare più limpido, è impossibil­e orientarsi. Tutte le direzioni sembrano uguali: la pressione dell’acqua è così forte che non sai se ti stai muovendo verso l’alto o verso il basso».

S e mpre i n Gre c i a , n e l l ’ i s o l a d i Amorgos si svolge un’altra competizio­ne internazio­nale di apnea, Au

thentic Big Blue, che nel giro di un paio di anni si è affermata con forza, grazie anche alla spettacola­re location della baia di Agia Anna dove ha luogo (quest’anno dal 22 al 28 settembre).

Il mare è un antico idioma che non si riesce a decifrare, scriveva Jorge Luis Borges. Il mare pretende un dono totale. Assoluto. Chiama a sé. Gli apneisti sono come Étienne, protagonis­ta del racconto Il figlio maledetto di Balzac che «finì per entrare in empatia con l’Oceano. Il mare divenne per lui un essere animato, pensante».

Roberto Mattana (istruttore di Apnea Academy a Cagliari), racconta a «la Lettura» che «quando sei a -40 metri ti misuri solo con te stesso, con il tuo stato emotivo, con le tue sensazioni fisiche. Come dice Umberto Pellizzari, che in passato ha stabilito record mondiali in tutte le discipline dell’apnea, là sotto non ci si guarda intorno; ci si guarda dentro».

Il primo record di apnea (non omologato ufficialme­nte) è di un pescatore di spugne, un greco dell’isola di Simi. Ecco i fatti: mare Egeo sud-orientale, isola di Karpathos, baia di Pigadia. Il 16 luglio 1913 la nave Regina Margherita, fiore all’occhiello della Regia Marina Italiana, una corazzata da 15 mila tonnellate, varata il 30 maggio 1901 da re Vittorio Emanuele III, si appresta a entrare nella baia.

Gli ufficiali stanno cercando il pos to migli ore per but t a re l ’a ncora. Qualcuno dice di avere trovato un punto perfetto con un fondale di -30 metri, senza rendersi però conto che la prua stava su uno scalone di roccia che si perdeva in una fossa molto più profonda. L’ancora si incaglia a -77

metri. I palombari di bordo non riescono a recuperarl­a. Si offre il pescatore di spugne: dice di chiamarsi Georghios Haggi Statis. In cambio chiede della dinamite e il permesso di poterci pescare. Lo visita il medico di bordo, il capitano Giuseppe Musenga, al quale si deve questa ricostruzi­one, in quanto annotò tutto ciò che accadde in quei giorni. Scriveva: «Di anni 35, alto metri 1,70, pesa 65 kg (...). Per quanto all’esame si constati un notevole enfisema polmonare (...). L’esperiment­o di Valsava è riuscito negativo, per probabile stenosi tubarica da catarro cronico (...). Invitato a trattenere il respiro nell’ambiente ordinario, si oppose dicendo che l’esperiment­o non poteva avere valore perché sott’acqua lui resisteva assai di più. Infine vi si sottopose, e risultò che la sua capacità in queste condizioni giungeva appena a 40 secondi». Haggi Statis insisteva con l’interprete, ma guardando il medico: «Posso arrivare fino a cento metri e stare sotto sette minuti».

Non avendo nulla da perdere, quelli della nave accettano la proposta di Haggi Statis. Arrivati con la scialuppa sul punto, il pescatore si spoglia, rifiuta maschera e pinne. Respira concentrat­o a intervalli regolari. Con le mani prende una pietra legata a una fune e si appresta ad affrontare il tuffo. Quel tipo di pietra in greco si chiama skan

dalopetra e veniva usata dai pescatori di spugne per arrivare prima sul fondo. Ora la skandalope­tra è diventata una disciplina sportiva e la si pratica ancora solo con il costume, senza pinne e senza maschera.

«Il terzo giorno — è sempre il medico che scrive — dopo sette immersioni, tutte attorno a -70/80 metri, Haggi Statis riuscì finalmente, dopo l’infinito tempo di 3 minuti e 35 secondi, ad agganciare un cavo d’acciaio a un capotesta dell’ancora (...). Ero sicuro che un uomo, a quelle profondità, sarebbe morto esploso». La medicina infatti in quegli anni era ancora all’oscuro di tutte le conquiste che il nostro corpo poteva fare sott’acqua. Non a caso il record di Haggi Statis è rimasto imbattuto per decenni.

Trentasett­e anni dopo, il 5 novembre 1950, si apre ufficialme­nte l’albo d’oro dei primati di apnea. Questa volta siamo a Napoli con Raimondo Bucher, che scende a -30 metri: è il primo record mondiale ufficiale di apnea. Nel 1956 Ennio Falco ed Enzo Novelli scendono a -41 metri. Nel 1960 Amerigo Santarelli al Circeo arriva a -44 metri. Un siciliano di 29 anni arriva invece a -45 metri. Si chiama Enzo Maiorca. Santarelli il 4 ottobre, a Santa Margherita Ligure, raggiunge i -46 metri, Maiorca nel 1966 raggiunge i -62 metri, superando anche Tetake Williams che in Polinesia aveva appena toccato i -59 metri. Sono gare a colpi di metri. L’apnea è stata anche una storia di duelli fra campioni, quello fra l’italiano Umberto «Pelo» Pellizzari e il cubano Francisco «Pipin» Ferreras, ma il più celebre fu tra Enzo Maiorca e Jacques Mayol, raccontato nel film Le

Grand Bleu di Luc Besson, girato ad Amorgos. La sfida tra Maiorca e Mayol — a lui Lefteris Charitos nel 2017 ha dedicato il documentar­io Dolphin

Man — ha mantenuto incollati alla television­e milioni di persone. Il francese nel novembre 1976 supera la soglia dei -100 metri. Maiorca a 57 anni, il 30 luglio 1988, arriva a -101 metri, ma l’amico-rivale aveva già raggiunto i -105 metri nel 1983 all’Isola d’Elba. Mayol era il filosofo dell’apnea, l’uomo delfino. Ma soffriva di depression­e e il 22 dicembre 2001, a 74 anni, portò la sua ultima apnea all’infinito, impiccando­si nella sua casa sull’Isola d’Elba.

C’è una macabra coincidenz­a, perché anche Besson nel finale del film fa suicidare Mayol. Ma lo fa nell’88, 13 anni prima del vero suicidio. Vengono i brividi a rivedere la scena finale, quando Mayol ( l ’a t to re Je a n- Marc Barr) si attacca a una zavorra e scende fino a dove il blu del mare si trasforma in nero, dove l’acqua diventa solitudine, immobilità, silenzio. Si ferma lì, in attesa. Arrivano i delfini da lui tanto amati: li segue e con loro scompare nell’abisso, per non riemergere più.

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