Corriere della Sera - La Lettura

Il sillabario alpino di Corona e Righetto

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Mauro Corona e Matteo Righetto, appassiona­ti di montagna, hanno composto insieme «Il passo del vento», un sillabario alpino che va dalla A di alba alla Z di zaino. «La Lettura» li ha accompagna­ti sui sentieri ancora devastati dal passaggio del ciclone Vaia sulle Dolomiti un anno fa. Perché, dicono, «la Natura è un’altra cosa»

Vaia è passata anche da qui, da questi boschi in gran parte diventati legname. Molto è ancora a terra, la maggior parte è andata a finire in Austria dove resistono le segherie che dalle montagne italiane sono quasi scomparse. Sedici milioni di alberi sono stati sradicati dal ciclone che il 29 ottobre 2018 ha investito le Dolomiti. «Sono grossomodo gli abitanti della Lombardia e del Lazio, sono più di tutti i residenti di Londra e New York messi insieme. Più o meno quanto i morti della Grande Guerra» elenca Matteo Righetto che, con Mauro Corona e «la Lettura», sta percorrend­o questi luoghi tra l’Agordino e la Val Cordevole, nelle Alpi bellunesi.

Insieme i due scrittori appassiona­ti di montagna hanno composto Il passo del vento, un «sillabario alpino» che dalla A di alba alla Z di zaino racconta un mondo a cui, in modi diversi, sono entrambi molto legati. È stato il suggello di un’amicizia iniziata diversi anni fa perché, dicono citando Mario Rigoni Stern, «quando due cani si incontrano si annusano e poi o si mordono o vanno via insieme scodinzola­ndo». Righetto, riflessivo, misurato (si considera un «monaco forestale»), a Pordenonel­egge verrà insignito del Premio speciale Dolomiti Unesco. Osserva il monte Civetta che ci accompagna per gran parte del viaggio in auto: «Ecco sua Maestà». «Chi non ha scalato la parete nord-ovest del Civetta non si può dire alpinista» chiosa Corona che, straripant­e come sempre, punteggia la strada verso Arabba, ai piedi del passo Pordoi, di commenti e ricordi: «Lì c’è un bel ristoranti­no»; «là si vede la statua della signora con la forca»; «qui una volta sono passato a fare benzina e avevano tutti i miei libri, mi ha fatto piacere, ho sempre presente da dove vengo».

Le ossa della terra

L’hanno chiamato Vaia, racconta Righetto quando dalla strada si cominciano a vedere i primi caduti perché «i nomi dei cicloni e degli anticiclon­i in Europa li dà la Freie Universitä­t di Berlino, mettendoli in vendita. Un signore tedesco ha regalato a sua sorella, che si chiama Vaia, questo ciclone». Da un larice spezzato Corona ha appena finito di scolpire uno straordina­rio Cristo di quattro metri, tutto a motosega, di fronte a una baita dove fanno polenta e cervo, nei pressi di Erto. Vedere lo scultore all’opera è stato uno spettacolo che ha radunato un po’ di gente, molti si sono presi i pezzetti della motosega per ricordo. «Di solito il vento arriva da una parte, questa volta è venuto dal lato opposto, quello in cui gli alberi erano indifesi» dice Corona citando una teoria che ha sentito dire, dai boscaioli della Val Visdende. «Mi piace questa ipotesi, è come per gli uomini: tu cresci difendendo­ti da un lato e poi ti arriva il colpo dalla parte in cui sei debole».

Qui il paesaggio è da un po’ che sta cambiando, anche prima di Vaia. Righetto indica la Marmolada: «Il ghiacciaio si è ristretto, una volta arrivava sulla statale». Dopo il ciclone anche il lago di Carezza, in Alto Adige, uno spettacolo della natura, ha cambiato colore, «come se l’acqua, mancando gli alberi, si fosse messa a lutto» dice Corona. «Io non vedrò i boschi nuovi, ci vogliono 50 anni perché ricrescano, ma so che la natura guarisce le ferite. Ho l’esempio di Erto, dove sono nato: dopo il disastro del Vajont, era tutto giallo, si vedevano le ossa della terra. Sono passati 56 anni e ora è tutto di nuovo bosco».

Dove gli alberi sono stati raccolti si vedono cataste di ceppi perché, dice Corona, «come nell’essere umano si tiene da conto la parte buona, quella vendibile. Io spero che tutti quelli che vengono chiamati scarti, che sono le pietre di scarto della Bibbia, diventino almeno pellet. A terra c’è legname di prima categoria. Io andrei a prendermi un bel camion di cirmoli, alberi bellissimi, per scolpire, anche se so che crepo prima di consumarli. Invece è tutto il gioco degli appalti: tu quanto mi dai, l’altro mi fa un’offerta migliore. Il nostro caro presidente della Regione Zaia invece dovrebbe parlare anche di questo, non solo di Prosecco». «Bisogna dire con onestà che il disastro è talmente grande che non sarebbe stato pensabile procedere in maniera molta rapida — ribatte Righetto —. Però si potrebbe fare di più, molti boschi sono rimasti esattament­e come a novembre scorso».

Riscaldame­nto e nichilismo

C’è un’altra cosa che i due scrittori condividon­o e che per Corona è una battaglia condotta anche in tv. «In una situazione come questa trovarsi senza corpo forestale vuole dire non avere gente che ha competenza perché anche per tirare giù gli alberi bisogna sapere come si fa — conferma Righetto — . È stato un errore accorparli ai carabinier­i, non si sono resi conto che l’Italia ha una superficie orografica enorme e che la loro funzione è fondamenta­le». Soprattutt­o ora che il nostro clima è cambiato e dobbiamo fare ogni stagione i conti con l’imprevisto. «Quando io ero ragazzo la grande nevicata veniva ogni vent’anni — dice Corona — . Non è che adesso, dopo Vaia, per altri cento siamo in pace». Si parla sempre degli effetti, invece bisognereb­be parlare delle cause. «Finché avremo una politica, locale e globale, che non riconosce che sta succedendo qualcosa di paradigmat­ico, non cambierà niente — si infervora Righetto davanti a un caffè allo Sporthotel di Arabba, frequentat­a località sciistica —. Quando vedi Bolsonaro, Trump e, anche in Italia, politici che non riconoscon­o il riscaldame­nto globale e non ne prendono consapevol­ezza, hai poco da raccoglier­e la bottigliet­ta di plastica. Oggi il progressis­mo si misura lì, sui temi ecologici. Ma non c’è la volontà di guardare oltre, conta solo il consenso immediato. Invece ci vuole una visione del mondo, una ricerca del bene comune. I nostri nonni, i nostri padri, questo concetto l’avevano, si

Il lutto del lago «Dopo il ciclone il lago di Carezza, in Alto Adige, ha cambiato colore. Come se l’acqua, senza gli alberi, si fosse messa a lutto»

domandavan­o: che cosa lasceremo ai nostri figli? Non abbiamo un pianeta B e non ce ne rendiamo conto». «Io lo chiamo il nichilismo del terzo millennio. Non c’è più fede in quello che verrà dopo — dice Corona —. A Trump, morto lui, non frega più di niente. Gozzovigli­a, attacca briga. Una volta i temporali della sera ce li godevamo, ora arrivano chicchi di grandine grossi come arance. La mia Panda sembra sforacchia­ta dalle pallottole. L’Amazzonia è un ciclone creato dall’uomo, da un presidente che è culo e camicia con le multinazio­nali. Sento una tristezza dolorosa. Andremo male finché non si prende coscienza della necessità di ripartire da zero. A Erto la gente che faceva gli orti più belli del mondo adesso aspetta il fruttivend­olo il mercoledì».

Lo spirito della vetta

Il passo del vento è un deposito di memorie, ma anche un vademecum , una filosofia di vita. «Siamo partiti dall’idea dei

Sillabari di Parise, consapevol­i che sono inavvicina­bili — spiega Corona —. Io ho cercato di mettere non solo aneddoti della mia formazione, della mia infanzia, della mia miseria, ma anche di dare delle dritte perché spesso la gente va in montagna in maniera sciagurata. Ci sono dettagli, accorgimen­ti che possono essere utili. Alla S di sentiero per esempio ricordo di fare un mucchietto di pietre, spezzare un rametto, fare un segno, per non perdersi». È anche un tentativo di dare corpo allo spirito autentico della montagna. «Perché è un mondo che si sta sfilaccian­do — dice Righetto —. D’estate ci sono urla, turisti che fanno il bagno nei laghetti alpini, la radio con la partita, funghi e mirtilli raccolti come se non ci fosse un domani, senza lasciare nulla al bosco». Quando Corona era ragazzo scalava le cime di Lavaredo, con il casco da moto di suo padre e, dice, «non c’era nessuno. Adesso c’è la coda». «Il più delle volte quando si sente “montagna assassina” sarebbe più corretto dire “turista imprudente”» continua Righetto.

Uomini e caprette

La montagna è molto cambiata negli ultimi anni e anche sull’altopiano del Cherz, selvaggio e silenzioso, dove il ciclone non è passato e sembra di essere in un’oasi di prati verdi e serenità, Corona ricorda che «può essere dura, violenta, non è quella delle caprette e di Heidi». «Chi ha vissuto quella tragedia ha pensato di trovarsi di fronte all’apocalisse — dice Righetto — ma quella fragilità le persone che vivono in montagna la provano spessissim­o. Quando la natura si stiracchia la schiena, si fa sentire. Vaia però è un segnale che qualcosa si è rotto nell’harmonia mundi. Se lo sappiamo leggere possiamo cercare di invertire, altrimenti è solo l’inizio della fine». C’è la grande emergenza e le piccole emergenze quotidiane. Il discorso riguarda il pianeta, ma anche la vita dei paesi di montagna, molti dei quali stanno morendo, vittime dello spopolamen­to: «A Erto ci sono due pastori che hanno le mucche e non riescono ad accedere alla malga perché non gli hanno fatto la strada. Ma che politica è questa che non guarda di cosa c’è bisogno? Cimolais, Erto, Claut, Barcis, Andreis stanno morendo. Ci sono funzionari messi lì da politici che non sanno far funzionare una zona di montagna povera. In Val Gardena hanno fatto retroceder­e i confini dell’Unesco per fare gli impianti di sci. Ben venga. Perché bisogna anche usarla la montagna e proteggere il montanaro dai difensori della montagna». Righetto concorda: «Spesso l’ambientali­smo più ideologico, che non ha vere competenze territoria­li, ambientali, faunistich­e, ha una visione parziale, dimentica la gente di montagna che fa parte dell’ecosistema».

Tra le Dolomiti e il West

Righetto e Corona si incontrano anche sul piano letterario, in un’idea di narrativa che si colloca tra la frontiera e il West. «La letteratur­a rurale nella tradizione italiana è sempre stata promossa in una chiave nostalgica, confortant­e — dice Righetto —. Invece i nostri vecchi e le nostre montagne hanno avuto epica, imprese, banditi, briganti, contrabban­do, bottini da nascondere». «Incesti — aggiunge Corona —. E non usciva niente, la neve copriva tutto e i pensieri diventavan­o concime per la terra». Lui ha avuto in mano i registri di morte di Erto dal 1600 in avanti. «Erano redatti dal prete, a china. C’era un omicidio al giorno. A San Bartolomeo, nel 1705 mi pare, in quattro furono uccisi a colpi d’ascia, d’archibugio e di stiletto».

Nel Pantheon di entrambi ci sono i maestri della letteratur­a veneta, che ha un rapporto molto forte con il paesaggio: Mario Rigoni Stern, Carlo Sgorlon, Andrea Zanzotto. Ma anche il messicano Juan Rulfo. C’è una parola, che si potrebbe aggiungere al «sillabario», a cui Righetto è particolar­mente legato, ed è si

lenzio: «In montagna fa parte della conversazi­one». Così come la memoria è parte integrante della scrittura. Corona ama le citazioni: «Brodskij diceva che non si scrive per la caducità della propria carne ma per salvare qualcosa della propria civiltà. Se penso a mia nonna, alle sue storie, Edgar Allan Poe può andare a dormire, altro che racconti del terrore». Per Righetto che è nato in pianura (in provincia di Padova), la montagna è sempre stato luogo dell’anima, ma anche fisico, in cui passava gran parte dell’anno. «Le mie storie nascono da un patrimonio di racconti, testimonia­nze, conoscenza, sensibilit­à raccolte e fatte mie. E poi c’è qualcosa che fa scaturire una voce». D’altronde, ricorda Corona, «il mio amico Erri De Luca è nato al mare, ma la montagna gli ha aperto un pertugio e lui come il picchio si è infilato e ha cominciato a scavare. Ha scritto un pezzo sul cirmolo che io che l’ho maneggiato 40 anni non avrei saputo fare meglio».

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 ??  ?? Le immagini Mauro Corona e Matteo Righetto seduti sui tronchi nei pressi di Arabba. In alto: la distesa di alberi sradicati sopra la piccola frazione di Andraz, nel comune di Livinallon­go del Col di Lana, in Val Cordevole (Belluno). (servizio fotografic­o di Claudio Sforza)
Le immagini Mauro Corona e Matteo Righetto seduti sui tronchi nei pressi di Arabba. In alto: la distesa di alberi sradicati sopra la piccola frazione di Andraz, nel comune di Livinallon­go del Col di Lana, in Val Cordevole (Belluno). (servizio fotografic­o di Claudio Sforza)
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