Corriere della Sera - La Lettura

Isabelle Adjani in scena «Non faccio finta: sono»

- Di STEFANO MONTEFIORI

Icone L’attrice francese è in scena a New York con la versione teatrale di un film che John Cassavetes creò per Gena Rowlands, «La sera della prima». Lo spettacolo, con il titolo originale «Opening Night», debutterà in Italia al Romaeuropa Festival. «Ogni sera divoro questo ruolo che mi divora e smuove strati profondi di me» I veri classici «Non devono essere ricostitui­ti come scheletri di dinosauri, al contrario: non bisogna lasciarli fossilizza­re, vanno restituiti alla vita»

Una stella del palcosceni­co e la paura di perdersi dopo la morte dell’ammiratric­e venuta a salutarla. Nel 1977 era Gena Rowlands, nel film scritto per lei da John Cassavetes, La sera della prima (con Ben Gazzara, fra gli altri). Oggi è Isabelle Adjani, nella versione teatrale messa a punto con il regista Cyril Teste. Adjani è l’attrice francese più premiata e una delle più amate nel mondo, pronta a cambiare registri e a tuffarsi senza rete nei personaggi, meno a concedersi ai media e alle curiosità del pubblico.

In uno scambio di email tra Parigi e New York, alla vigilia del viaggio in Italia per Romaeuropa Festival, la magnifica interprete di Adele H ., Possessi on, L’estate assassina, La Regina Margot e tanti altri capolavori si racconta con rara generosità. Da Cassavetes alla sua idea di teatro, dal movimento #MeToo a Serge Gainsbourg, dall’amore per l’Italia alla capacità di scherzare nella serie tv Chiami il mio agente, Isabelle Adjani parla di sé, dei suoi incontri e dell’ambizione di «scrivere la propria vita».

Isabelle Adjani, lei si trova a New York per recitare nella pièce «Opening Night» che interprete­rà presto a Roma. Qual è stata la reazione del pubblico in occasione del debutto, il 12 settembre? E lei come si sentiva?

«L’accoglienz­a: sconvolgen­te. In momenti come quelli il teatro ti inchioda al suolo e ti solleva allo stesso tempo. Quando sei in scena c’è sempre una parte di te che sente quel che succede al di là della “quarta parete”, e l’ovazione finale è stata la più grande prova di un cammino che abbiamo fatto assolutame­nte insieme, con questo pubblico in gran parte americano, e anche francofilo. Quest’accoglienz­a entusiasti­ca riservata a un adattament­o e a una messa in scena in chiave contempora­nea e in francese di un capolavoro della cultura cinefila ame

ricana off Hollywood degli anni Settanta è stata il segno per me di una grande apertura mentale da parte del pubblico, che è venuto a vederci sulla scena senza alcun filtro di auto-protezione».

La pièce è la storia di un’attrice affermata e tormentata, interpreta­ta nel film di John Cassavetes da Gena Rowlands, dove il confine tra realtà e finzione è spesso sfumato. Qual è il suo rapporto personale con questo ruolo?

«È un rapporto complesso. Intanto c’è l’ammirazion­e per l’arte e la personalit­à di Gena Rowlands, quest’interprete originale che occupa un posto speciale, non convenzion­ale, nel cinema americano. E ammirazion­e per il ruolo di Myrtle, che Cassavetes ha scritto apposta per lei. Questo ruolo è una infusione e una perfusione (mi piace l’immagine di questi due modi di incubazion­e) di quel che hanno vissuto personalme­nte o osservato nei loro simili. Ho tentato di avvicinarm­ici come hanno fatto loro, con le mie armi e i miei strumenti, cioè le mie esperienze, la mia iper-sensibilit­à, il mio vissuto e anche le mie idee. Ciò che rende fuori dal comune tutta l’avventura, lontano dalla routine di un’interpreta­zione perfetta (cioè senza sorprese) è anche che ogni sera divoro questo ruolo dai molti volti, tanto quanto mi lascio divorare da esso. È un gioco pericoloso a causa di questa proposta rischiosa: Gena Rowlands lo sapeva e lo so io. Gena, Myrtle, io stessa, siamo il genere di attrice che si cala molto profondame­nte nei personaggi: questo ruolo offre un’occasione rara di mostrare al pubblico quel che può essere il lavoro di costruzion­e di una parte, che può smuovere strati molto profondi della persona, all’opposto del “fare finta”, e molto al di là della coscienza. Ma questa somiglianz­a tra il ruolo e il suo interprete non è tuttavia una pura e semplice identità scolpita nel bronzo della società dell’epoca. Né tra Myrtle e me e neanche, d’altro canto, tra la Myrtle di Gena Rowlands e la mia Myrtle. Se non altro perché tra l’una e l’altra i tempi sono cambiati, per fortuna.

«Solo una piccola critica rivolta a una giornalist­a americana del “New York Times”: nella nostra proposta artistica, la messa in scena dell’inaccettab­ile che una donna/attrice può trovarsi a sperimenta­re r i f l e t te l a necessi t à di uno sguardo femminista al quale aderisco pienamente. L’ossessione punitiva del puritanesi­mo culturale in voga negli Stati Uniti può talvolta plasmare un punto di vista manicheo e questa giornalist­a ha giudicato il contenuto della pièce fermandosi alle apparenze, come se la nostra visione fosse separata dal movimento #MeToo, quando invece è esattamen

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