Corriere della Sera - La Lettura
Hong Kong, Hong Kong... Io dico: meglio Pechino
È più di un attore: è un’icona delle arti marziali ma — dice — non si è mai considerato l’erede di Bruce Lee. Nel 1989 cantò in un concerto per gli studenti della Tienanmen, ora denuncia le proteste nell’ex colonia dov’è nato
«Sono il figlio del cuoco del consolato francese a Hong Kong. Non che f o s s i mo p a r t i c o l a r - mente privilegiati: avevamo un’abitazione decente e tutti gli stranieri con cui venivamo in contatto erano gentili, quello sì. Non i bambini. Non perdevano occasione di ricordarmi la mia estrazione. Ero già “tellurico” a quattro o cinque anni e mio padre, che aveva studiato arti marziali, mi impartì i primi rudimenti in modo che potessi canalizzare quell’energia. Mi buttarono comunque fuori da scuola dopo la prima elementare. I miei accettarono un lavoro in Australia e mi lasciarono a Hong Kong, iscrivendomi a un collegio: insegnavano kung fu. Ci sono rimasto 10 anni. Sono nato come Chan Kong-Sang, in Asia sono famoso come Cheng Lóng (“Diventa il Drago”). Voi mi conoscete come Jackie Chan».
Così parla Jackie Chan, duecento film all’attivo, il quinto attore più pagato al mondo, l’unico in grado di sfondare al box office sia asiatico sia americano. È particolarmente legato all’Italia, grazie al Far East Film Festival di Udine che lo ha voluto con un suo film nel 2015. Ha pubblicato la sua autobiografia in mandarino che è stata tradotta in inglese: Never Grow Up. È ora sul set del suo nuovo film, Wode riji, «Il mio diario». Nel 1989 Chan aveva partecipato a un concerto pro-Tienanmen. Oggi, passati trent’anni, è un membro della Conferenza politica consultiva a Pechino e usa toni più cauti, invitando i manifestanti di Hong Kong alla calma: «Sono nato a Hong Kong, la Cina è la mia patria. Hong Kong e Cina assieme stanno progredendo benissimo, ne sono orgoglioso. Stabilità e pace sono come l’aria fresca: non immagini quanto siano preziose fino a quando non le perdi».
Che cosa pensa delle proteste di questi mesi a Hong Kong?
«Ormai sono diversi anni che manco da Hong Kong. Mi sono trasferito a Pechino perché per la produzione cinematografica i giochi si fanno senza dubbio qui. Qui ho i miei colleghi e devo dire che mi piace molto».
Andiamo allora alla Hong Kong della sua infanzia. È il 1964: lei ha dieci anni e vive in collegio. Programma?
«Semplice: sveglia alle 5, kung fu fino alle 23, due pasti. I miei mi inviavano audiocassette con le loro voci registrate. Piangevo da star male. A un certo punto ho smesso di ascoltare i nastri. C’era ovviamente nonnismo, ma il maestro aveva una tecnica infallibile: quando ci beccava ad azzuffarci, ci faceva continuare. Dovevamo prenderci a sberle l’un l’altro fino a che non svenivamo. Molto kung fu...».
Niente amore?
«Appena uscito da scuola. Lei aveva 15 anni, lo tenemmo segreto. Dopo due anni, suo padre ci beccò un giorno per strada e le vietò di frequentarmi, dicendomi che ero solo un saltimbanco. Lei è stata male, ma il rispetto dei genitori è fondamentale nella mentalità cinese. Io sono stato peggio, mi sono sentito insultato e ho rotto. Anni dopo lei aprì una boutique che stentava a decollare, mandai alcuni assistenti nel negozio a comprare tutto. Lei fiutò il trucco e non volle più vendermi nulla. Non l’ho mai più rivista».
E il cinema come arrivò?
«Mio compagno di scuola era Sammo Hung, che si ruppe una gamba e durante la degenza guadagnò peso perché il nonno gli portava certe tagliatelle bisunte... Non riuscì più a tornare magro. Venne espulso dalla scuola ma entrò nel giro dei film di arti marziali e ci trascinò con lui».
Lei come iniziò?
«Facendo il morto. I registi erano incantati di quanto a lungo potessi trattenere il respiro dopo che mi uccidevano sul set. Poi sono passato a fare lo stuntman, il cascatore».
La svolta?
«Un giorno il direttore degli stunt su un film si rifiutò di fare una coreografia perché era a rischio di morte per il suo team. Allora mi feci avanti».
E come andò?
«Ho fatto lo stunt al primo ciak. Sono