Corriere della Sera - La Lettura

Stati Uniti cinici, Europa divisa: vince il sovranismo

- conversazi­one tra LUIGI ROBERTO EINAUDI e MATTHEW EVANGELIST­A a cura di VIVIANA MAZZA

Il diplomatic­o Luigi R. Einaudi, nipote del capo dello Stato, e il politologo Matthew Evangelist­a denunciano le conseguenz­e negative causate dalla crisi dell’approccio multilater­ale alle relazioni internazio­nali. «Il malessere trova sfogo nell’esasperazi­one nazionalis­ta, che diventa una scusa per non cooperare su migrazioni e difesa»

«L’idea dello Stato sovrano che, entro i suoi limiti territoria­li, può fare leggi senza badare a quel che accade fuori è anacronist­ica e falsa», diceva Luigi Einaudi nel 1945, tre anni prima di diventare presidente della Repubblica. Oggi «ripensare il concetto di sovranità» è, secondo suo nipote, una priorità. Luigi Roberto Einaudi, nato in America, dove il padre Mario emigrò rifiutando il giuramento di fedeltà imposto ai docenti universita­ri dal fascismo, è stato dal 1989 al 1993 ambasciato­re Usa (poi segretario generale) all’Organizzaz­ione degli Stati Americani. Al nonno scriveva lettere da bambino, «una relazione molto intima e dolce», racconta. «Aveva fama d’essere distante e freddo anche con i figli, ma è assolutame­nte falso. Ciascuno di loro ha seguito una delle traiettori­e di quest’uomo poliedrico: mio padre il professore, zio Roberto l’imprendito­re lungimiran­te, zio Giulio l’editore. Mi consigliav­a libri sulla Rivoluzion­e francese, mi ha insegnato che le rivoluzion­i non sorgono, come gli americani credono, dalla povertà, ma dal momento in cui si immagina che si può fare meglio. Nel 1950 passai l’estate in Colorado, mungendo mucche e costruendo dighe; tornai con i calli alle dita e il nonno era felice: “Questo è il vantaggio dell’educazione americana! Qui tutti vogliono essere profession­isti, ma hanno paura di sporcarsi le mani. Saranno grandi avvocati e banchieri, ma non avranno mai la saggezza del contadino”».

Il 25 settembre Luigi R. Einaudi sarà a Torino con Matthew Evangelist­a, docente di Storia e Scienze politiche della Cornell University (università dove Mario Ei

naudi andò a insegnare), per il workshop Regional Multilater­alism in a Disintegra­ting World Order presso la Fondazione Luigi Einaudi. Discuteran­no sulle «possibilit­à del multilater­alismo regionale di capovolger­e l’attuale disintegra­zione del multilater­alismo globale». La crisi del multilater­alismo è soprattutt­o un problema americano?

LUIGI R. EINAUDI—Gli americani credono che il loro modo di agire sia il migliore. Il multilater­alismo richiede cooperazio­ne. Perr aggiungere accordi duraturi, tutte le parti, inclusi i più deboli, devono beneficiar­ne. Mai più deboli devono dare un contributo anche se quello dei Paesi più potenti è maggiore. Il ricordo della Seconda guerra mondiale è sempre più sbiadito e, con esso, l’urgenza di cooperare. Il malessere trova sfogo nel sovranismo, che diventa una scusa

per non cooperare su problemi comuni come migrazioni e difesa. Gli Stati Uniti si sono ripiegati su sé stessi e sono diventati cinici. Così gli altri. MATTHEW EVANGELIST­A

— Pure quello che è considerat­o un modello di multilater­alismo di successo — l’Unione Europea — è messo a dura prova, anche perché i Paesi non condividon­o in modo equo gli oneri, come in fatto di migrazioni e austerità.

Le difficoltà del multilater­alismo in Europa e America Latina sono simili?

LUIGI R. EINAUDI — I principali ostacoli sono le differenze sub-regionali e gli squilibri di potere, insieme all’influenza di potenze esterne come Stati Uniti e Cina. Ovunque le preoccupaz­ioni locali impediscon­o di capire che un approccio multilater­ale rafforzere­bbe la sovranità, aiutando a risolvere i problemi.

MATTHEW EVANGELIST­A — Alla risposta «diplomatic­a» di Luigi vorrei aggiungere che va considerat­o il ruolo dei demagoghi populisti, che marciano sotto il vessillo della sovranità, ma le cui soluzioni sono un’alternativ­a inadeguata al duro lavoro della ricerca del multilater­alismo. Ne è un esempio Donald Trump, che elogia la Brexit e propone un accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Gran Bretagna come alternativ­a al multilater­alismo dell’Ue, ma poi sostiene che Londra dovrebbe abbandonar­e il sistema sanitario nazionale perché è una sovvenz i one s l eal e al l ’ i ndustria bri t annica. Trump rifiuta sia il regime multilater­ale del libero scambio sia le tutele sociali che fino a poco tempo fa lo rendevano tollerabil­e alla popolazion­e.

Trump sembra incapace o poco interessat­o a ridurre le tensioni globali. L’influenza americana nel mondo potrà essere restaurata dopo di lui?

LUIGI R. EINAUDI — Trump è una caricatura di atteggiame­nti americani diffusi. Il nazionalis­mo cresce da almeno una

generazion­e in America, e non solo. Il tempo ha eroso l’ordine dominato dagli Stati Uniti e il potere e l’indipenden­za relativa di altri Paesi sono cresciuti. Governare è diventato più difficile. Non ci sarà alcuna «restaurazi­one» dopo Trump.

MATTHEW EVANGELIST­A — Inoltre gli Stati Uniti pagano ancora il prezzo della risposta eccessiva all’11 settembre 2001, con la guerra in Iraq basata su falsi pretesti e la tortura e detenzione indefinita di sospetti terroristi: un danno incalcolab­ile alla reputazion­e e alla leadership Usa ben prima dell’amministra­zione Trump. Gli americani possono accettare di non essere la «potenza numero uno»?

LUIGI R. EINAUDI — Perlopiù non sono pronti ad accettarlo, ma non sanno né vogliono sapere quel che succede altrove — un’ignoranza che li accomuna alla maggior parte dei cittadini di altri Paesi, anche se molti americani sentono di avere contribuit­o al benessere altrui, mentre i loro problemi non sono stati affrontati.

MATTHEW EVANGELIST­A — Nonostante la guerra commercial­e e l’allarme del Pentagono per le capacità militari di Pechino, secondo i sondaggi la maggior parte degli americani collocano Cina e Russia molto in basso tra le loro preoccupaz­ioni rispetto ai cambiament­i climatici o alla sanità — ambiti in cui gli Stati Uniti sono lontani dal primato, come dimostrano indicatori, dall’aspettativ­a di vita alla felicità, che li collocano dopo i «top 10», tra cui Svizzera e Norvegia.

Esiste consenso bipartisan sulla necessità di un approccio più multidimen­sionale alla politica estera, al di là di quello «transazion­ale» di Trump? Una terza via, né isolazioni­sta né interventi­sta, è possibile?

MATTHEW EVANGELIST­A — Benché la posizione di Trump sia estrema, gli approcci transazion­ali alla politica estera americana non sono senza precedenti (pressioni per i voti all’Onu; minacce di ridurre gli aiuti o offerte di aumentarli). C’è stato consenso bipartisan su un approccio multidimen­sionale, con un ruolo centrale per la diplomazia, ma anche con un enorme budget militare. Abbiamo il 4 per cento della popolazion­e mondiale e il 36 della spesa militare. L’opposizion­e di Trump (solo a parole, irrealizza­ta nella pratica) alla «guerra infinita» spiega in parte il suo successo elettorale. Oggi molti vedono la rara opportunit­à politica di una coalizione trans-partisan per ridurre il peso del potere militare a favore della diplomazia. Ma è più probabile un ritorno al precedente e screditato consenso, specie se Joe Biden diventa presidente.

LUIGI R. EINAUDI — Purtroppo l’enfasi sulla spesa militare ha reso più facile agli altri lasciare il campo agli Stati Uniti. La sconfitta della Comunità Europea di Difesa nel 1954 fu uno dei primi segnali che all’Europa mancava la volontà di ridefinire la sovranità per assicurare l’unità.

Macron presenta sé stesso e la Francia come difensori del multilater­alismo. Ha mostrato l’efficacia di un approccio europeo ai problemi globali? MATTHEW EVANGELIST­A — Alcuni sostenitor­i americani dell’unità europea come contrappes­o a Trump sono soddisfatt­i. Altri trovano i risultati deludenti. Per gli incendi in Brasile Macron ha dato solo 20 milioni di dollari in aiuti, mentre Germania e Norvegia hanno minacciato di tenersi i quasi 70 milioni precedente­mente offerti, dubitando che Bolsonaro li avrebbe usati per l’ambiente: non proprio un segnale di unità. Nel frattempo, l’ex vice premier italiano, che attaccò Macron appoggiand­o i gilets jaunes, è diventato ministro degli Esteri. Le prospettiv­e di un approccio europeo ai problemi globali sono migliori di quelle degli Stati Uniti sotto Trump, ma non vuol dire un granché.

LUIGI R. EINAUDI — L’Assemblea nazionale francese fece la sua Brexit nel 1954, quando rifiutò la Comunità Europea di Difesa. Ora Macron ha individuat­o grandi obiettivi da condivider­e. Come scrisse Luigi Einaudi nel 1954: «La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare».

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