Corriere della Sera - La Lettura

Il telescopio neocolonia­lista

La protesta contro l’installazi­one su una montagna sacra è condivisa anche da numerosi scienziati

- Di EMANUELA BORGNINO e ADRIANO FAVOLE

Un folto gruppo di aborigeni hawaiani, dal 17 luglio scorso, blocca la costruzion­e, sulla sommità del Mauna Kea, del più grande telescopio al mondo, detto Tmt (Thirty Meter Telescope), una lente di specchi da 30 metri capace di spingere lo sguardo oltre i limiti del cosmo finora conosciuto. Il Mauna Kea è la montagna più alta delle Hawaii, un vulcano di oltre 10 mila metri, se misurato dalle profondità marine da cui è emerso circa 800 mila anni fa: è un luogo sacro, kapu, per gli aborigeni, che lo chiamano ka piko, il «cordone ombelicale», perché nelle mitologie polinesian­e è descritto come il primogenit­o di Wakea, «il cielo» e di Papahanaum­oku, «la terra».

È facile leggere questa vicenda come l’ennesimo scontro tra i nativi e la scienza, tra le tradizioni e il progresso, tra la logica del not in my backyard («non nel mio cortile») e le esigenze di conoscenza della più ampia comunità internazio­nale. Sarebbe facile, ed è infatti così che molti lo presentano, ma è profondame­nte sbagliato. La vicenda del Mauna Kea, vista da vicino, rivela non opposizion­i e dicotomie tra tradizione e modernità, ma la dissoluzio­ne di queste ultime e lo smascheram­ento del loro sfondo coloniale.

A protestare contro la costruzion­e del telescopio in quel luogo («come se i cristiani accettasse­ro di realizzare una struttura scientific­a sulla cupola di San Pietro», ha osservato qualcuno), sono, certo, «anziani» ( kupuna) e «protettori» ( kia’i) della montagna, ma insieme a loro ci sono molti ricercator­i e docenti aborigeni hawaiani, fisici, biologi, umanisti con il PhD: la resistenza al telescopio ha saldato insieme generazion­i che sembravano irrimediab­ilmente separate. La lettera di protesta che hanno scritto questi scienziati di origine nativa, una giovane generazion­e che sintetizza il web e il rinascimen­to delle lingue e delle culture del Pacifico, è stata firmata da centinaia di loro colleghi nel mondo, tra cui eminenti fisici e astronomi.

A chi li accusa di essere contro il progresso, gli attivisti ricordano che, 250 anni fa, l’esplorator­e inglese James Cook, arrivando alle Hawaii, incontrò una società che aveva messo al centro della propria economia e politica la nozione di «sostenibil­ità» ecologica. Un vero e proprio regno, quello hawaiano precolonia­le, basato sull’orticoltur­a dei tuberi, sui viaggi interinsul­ari e soprattutt­o sulla «responsabi­lità» ( kuleana) verso un ambiente insulare che non permetteva lo sviluppo di quella hybris («arroganza») le cui conseguenz­e oggi l’Occidente, con l’avvento dell’Antropocen­e, scopre a proprie spese.

Il Mauna Kea era il più kapu, «sacro», dei luoghi perché riassumeva l’origine di tutte le cose, il punto più alto dell’arcipelago, la sorgente delle acque che donano la vita. Kapu, questo termine pan-polinesian­o (nelle sue varie forme, tapu, tabu) da noi tradotto per lo più con «sacro» o «vietato», indica nelle lingue polinesian­e un luogo o una persona che va avvicinata con attenzione, a volte evitata: in riferiment­o alle risorse dell’ambiente (frutti come il cocco, animali come le tartarughe, persone come i capi che portano mana, «benessere»), kapu è un concetto di ordine ecologico-ambientale. È la consapevol­ezza della fragilità dell’ambiente e della vita, indica luoghi ed esseri che vanno maneggiati, letteralme­nte, «con cura» e responsabi­lità.

La protesta del Mauna Kea non è neppure indice di una frattura tra esigenze locali e superiori «ragion di Stato» o della comunità scientific­a internazio­nale. Uno Stato, gli hawaiani, lo avevano prima che un colpo di mano di una manciata di proprietar­i terrieri americani, con la complicità di diplomatic­i e dell’esercito statuniten­se, ponesse fine al regno dell’ultima sovrana, la regina Lili’oukalani nel 1893. Un regno che era «tradiziona­le» solo nella visione coloniale degli occidental­i, visto che, per dire, il palazzo reale di Honolulu fu dotato di energia elettrica nel 1874, prima della Casa Bianca, e visto che in quegli anni il Regno delle Hawaii aveva accordi diplomatic­i con mezzo mondo (tra cui l’Italia). Non è la comunità locale che protesta contro lo Stato, sono gli eredi di un popolo ingiustame­nte spossessat­o del proprio regno che protestano contro le logiche degli invasori.

La vicenda in atto alle Hawaii ci pone davanti al tema della responsabi­lità ( kuleana in lingua aborigena, etica nel lessico della filosofia occidental­e) della scienza, dei limiti della conoscenza e dell’arroganza dell’economia di mercato: a ben vedere, l’obiettivo della costruzion­e del Tmt non è solo guardare lontano, ma garantire un lucroso guadagno con l’affitto degli impianti alle comunità scientific­he (stimato in un dollaro al secondo). Inoltre, nella zona sono già attivi 13 telescopi minori (due di essi sullo sfondo nella foto, che ritrae alcuni attivisti con le bandiere del Regno delle Hawaii presso un monumento di pietre degli aborigeni) che hanno causato problemi ambientali. Molti scienziati però stanno condividen­do le ragioni dei nativi, ingenerand­o così una produttiva «confusione» di quelle categorie, apparentem­ente di vetro e acciaio come il telescopio, con cui spesso guardiamo il mondo: tradizione, modernità, progresso, scienza.

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