Corriere della Sera - La Lettura
Il telescopio neocolonialista
La protesta contro l’installazione su una montagna sacra è condivisa anche da numerosi scienziati
Un folto gruppo di aborigeni hawaiani, dal 17 luglio scorso, blocca la costruzione, sulla sommità del Mauna Kea, del più grande telescopio al mondo, detto Tmt (Thirty Meter Telescope), una lente di specchi da 30 metri capace di spingere lo sguardo oltre i limiti del cosmo finora conosciuto. Il Mauna Kea è la montagna più alta delle Hawaii, un vulcano di oltre 10 mila metri, se misurato dalle profondità marine da cui è emerso circa 800 mila anni fa: è un luogo sacro, kapu, per gli aborigeni, che lo chiamano ka piko, il «cordone ombelicale», perché nelle mitologie polinesiane è descritto come il primogenito di Wakea, «il cielo» e di Papahanaumoku, «la terra».
È facile leggere questa vicenda come l’ennesimo scontro tra i nativi e la scienza, tra le tradizioni e il progresso, tra la logica del not in my backyard («non nel mio cortile») e le esigenze di conoscenza della più ampia comunità internazionale. Sarebbe facile, ed è infatti così che molti lo presentano, ma è profondamente sbagliato. La vicenda del Mauna Kea, vista da vicino, rivela non opposizioni e dicotomie tra tradizione e modernità, ma la dissoluzione di queste ultime e lo smascheramento del loro sfondo coloniale.
A protestare contro la costruzione del telescopio in quel luogo («come se i cristiani accettassero di realizzare una struttura scientifica sulla cupola di San Pietro», ha osservato qualcuno), sono, certo, «anziani» ( kupuna) e «protettori» ( kia’i) della montagna, ma insieme a loro ci sono molti ricercatori e docenti aborigeni hawaiani, fisici, biologi, umanisti con il PhD: la resistenza al telescopio ha saldato insieme generazioni che sembravano irrimediabilmente separate. La lettera di protesta che hanno scritto questi scienziati di origine nativa, una giovane generazione che sintetizza il web e il rinascimento delle lingue e delle culture del Pacifico, è stata firmata da centinaia di loro colleghi nel mondo, tra cui eminenti fisici e astronomi.
A chi li accusa di essere contro il progresso, gli attivisti ricordano che, 250 anni fa, l’esploratore inglese James Cook, arrivando alle Hawaii, incontrò una società che aveva messo al centro della propria economia e politica la nozione di «sostenibilità» ecologica. Un vero e proprio regno, quello hawaiano precoloniale, basato sull’orticoltura dei tuberi, sui viaggi interinsulari e soprattutto sulla «responsabilità» ( kuleana) verso un ambiente insulare che non permetteva lo sviluppo di quella hybris («arroganza») le cui conseguenze oggi l’Occidente, con l’avvento dell’Antropocene, scopre a proprie spese.
Il Mauna Kea era il più kapu, «sacro», dei luoghi perché riassumeva l’origine di tutte le cose, il punto più alto dell’arcipelago, la sorgente delle acque che donano la vita. Kapu, questo termine pan-polinesiano (nelle sue varie forme, tapu, tabu) da noi tradotto per lo più con «sacro» o «vietato», indica nelle lingue polinesiane un luogo o una persona che va avvicinata con attenzione, a volte evitata: in riferimento alle risorse dell’ambiente (frutti come il cocco, animali come le tartarughe, persone come i capi che portano mana, «benessere»), kapu è un concetto di ordine ecologico-ambientale. È la consapevolezza della fragilità dell’ambiente e della vita, indica luoghi ed esseri che vanno maneggiati, letteralmente, «con cura» e responsabilità.
La protesta del Mauna Kea non è neppure indice di una frattura tra esigenze locali e superiori «ragion di Stato» o della comunità scientifica internazionale. Uno Stato, gli hawaiani, lo avevano prima che un colpo di mano di una manciata di proprietari terrieri americani, con la complicità di diplomatici e dell’esercito statunitense, ponesse fine al regno dell’ultima sovrana, la regina Lili’oukalani nel 1893. Un regno che era «tradizionale» solo nella visione coloniale degli occidentali, visto che, per dire, il palazzo reale di Honolulu fu dotato di energia elettrica nel 1874, prima della Casa Bianca, e visto che in quegli anni il Regno delle Hawaii aveva accordi diplomatici con mezzo mondo (tra cui l’Italia). Non è la comunità locale che protesta contro lo Stato, sono gli eredi di un popolo ingiustamente spossessato del proprio regno che protestano contro le logiche degli invasori.
La vicenda in atto alle Hawaii ci pone davanti al tema della responsabilità ( kuleana in lingua aborigena, etica nel lessico della filosofia occidentale) della scienza, dei limiti della conoscenza e dell’arroganza dell’economia di mercato: a ben vedere, l’obiettivo della costruzione del Tmt non è solo guardare lontano, ma garantire un lucroso guadagno con l’affitto degli impianti alle comunità scientifiche (stimato in un dollaro al secondo). Inoltre, nella zona sono già attivi 13 telescopi minori (due di essi sullo sfondo nella foto, che ritrae alcuni attivisti con le bandiere del Regno delle Hawaii presso un monumento di pietre degli aborigeni) che hanno causato problemi ambientali. Molti scienziati però stanno condividendo le ragioni dei nativi, ingenerando così una produttiva «confusione» di quelle categorie, apparentemente di vetro e acciaio come il telescopio, con cui spesso guardiamo il mondo: tradizione, modernità, progresso, scienza.