Corriere della Sera - La Lettura
I geni virano di lato E spiazzano Darwin
Parla lo scrittore David Quammen, prossimo ospite del festival BergamoScienza: immaginavamo la vita simile a un albero a sviluppo solo verticale, mentre sono possibili anche collegamenti orizzontali, come dimostrò Carl Woese. Il trasferimento che avviene tra specie diverse può diffondere infezioni pericolosissime, ad esempio così nacque l’Aids
Ha studiato a Yale e Oxford la struttura dei romanzi di William Faulkner e poi ha avuto l’idea di applicarla alle storie di scienza e di natura, diventando una delle firme di punta di «National Geographic» e girando il mondo. Al rientro, ritrova le solitudini della natura in Montana, dove vive. Lo scrittore David Quammen sarà presto in Italia, ospite di BergamoScienza.
Di che parlerà nella sua conferenza?
«Presenterò una visione radicalmente nuova della storia della vita sulla Terra, sviluppata negli ultimi decenni da scienziati che usano dati molecolari. L’idea venne per la prima volta a Francis Crick, ma la figura cruciale fu Carl Woese, un microbiologo poco conosciuto che lavorava negli anni Settanta del secolo scorso all’Università dell’Illinois. Io definisco Woese, morto nel 2012, il più importante biologo del XX secolo di cui non avete mai sentito parlare».
Nelle sue storie di scienza i protagonisti sono spesso figure neglette. Cosa c’è di così radicale in questa versione rivista della storia della vita?
«L’essenza delle scoperte di Woese sta tutta qui: l’albero della vita non è un albero. Fu Darwin a darci l’immagine ad albero come modello della storia della vita: un singolo tronco indica l’origine comune, pochi rami principali rappresentano i grandi eventi di divergenza delle forme di vita, e poi tanti rami e rametti divergono ulteriormente. Il punto chiave era la
divergenza. Il metodo di Woese ha svelato che anche la convergenza delle linee di discendenza e dei genomi ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione».
Lei ne parla nel suo «The Tangled Tree», che uscirà in italiano il prossimo anno. Darwin però non aveva torto: la nascita di una nuova specie è quasi sempre un processo di ramificazione.
«Carl Woese applicò un nuovo metodo: sequenziare i genomi di creature diverse e poi compararli per determinare il loro grado di parentela. Così fece una prima grande scoperta: gli Archaea, un terzo dominio della vita. A quel tempo si conoscevano solo due regni: i batteri e gli eucarioti (che includono funghi, piante, animali, tutte creature composte da cellule complesse, noi compresi). Gli Archa
ea sono microbi, un tempo fraintesi come batteri perché al microscopio sono indistinguibili. Woese notò che gli Ar
chaea in realtà sono più strettamente imparentati con noi eucarioti che con i batteri. Fu una grossa sorpresa. Ma ce n’era un’altra: Woese scoprì che spesso nella storia della vita i geni si erano mossi lateralmente attraversando i confini tra le specie. Si chiama «trasferimento genico orizzontale ». Secondo il modello darwiniano ortodosso i geni si spostano solo verticalmente: da progenitori a discendenti. Ma i geni possono trasferirsi anche lateralmente, da un batterio a un rettile, da un virus a un primate. Quindi alcuni rami dell’albero della vita possono sia divergere gli uni dagli altri sia convergere. Il modello darwiniano dell’albero della vita è ancora utile, sì, ma non è sufficiente per spiegare la biodiversità. Certamente nel corso dell’evoluzione le specie possono anche ibridarsi, fondersi. Non c’è soltanto la ramificazione».
Ma se non è un albero, che cos’è? Una rete?
«Non credo che la rete sia la metafora giusta, perché la forma ad albero è ancora valida e spiega gran parte delle storie evolutive. Ci sono grandi rami separati, che poi divergono in rametti minori, in modo irreversibile con il passare del tempo. Quindi non è una rete. Tuttavia, può succedere che un ramo si innesti dentro un altro, o che tra due rami ci siano collegamenti orizzontali. Se dovessi scegliere una semplice immagine, direi che la storia della vita è un albero ingarbugliato».
Pure il nostro genoma è pieno di sequenze virali, retaggi d’antiche infezioni. Nel thriller scientifico «Spillover» del 2012 lei descrisse salti di specie fatti dai virus. C’è da preoccuparsi?
«Senza dubbio il rischio aumenta a causa della distruzione degli ecosistemi originari, come in Amazzonia e nelle foreste del Congo. Così favoriamo la liberazione di nuovi virus dai loro serbatoi naturali stabili, portandoli a diventare infettivi per gli umani. Come successe circa cento anni fa, nel Camerun sud-orientale: un singolo scimpanzé, che trasportava un virus tipico della sua specie, fu ucciso da un cacciatore che ebbe un contatto di liquidi sanguigni con l’animale, presumibilmente attraverso un taglio. Il virus dello scimpanzé si impadronì dell’essere umano, fu trasmesso ad altre persone, si adattò e divenne l’Hiv, una pandemia».
Quelle che dobbiamo temere sono le zoonosi, cioè i passaggi delle infezioni dagli animali agli umani.
«Esatto. Sette anni dopo la pubblicazione di Spillover e cinque anni dopo l’orribile epidemia di Ebola in Africa occidentale, lo stesso Ebola e altre malattie passate dagli animali ancora minacciano di diventare pandemie localizzate o globali. L’attuale epidemia di Ebola nella Repubblica democratica del Congo riceve molta meno attenzione da parte dei media internazionali di quanto meriti: ha superato i 3.000 casi e 2.000 decessi. Si tratta del secondo più grande focolaio di Ebola nella storia. Poi ci sono Zika, West Nile e altri virus pericolosi che continuano a spillare fuori (da qui il titolo del libro) dai loro ospiti animali».
Nel suo nuovo libro Jonathan Safran Foer sostiene che i fatti non bastino per convincerci che stiamo vivendo una grave crisi ambientale. Gli scrittori di scienza come lei stanno fallendo nel loro tentativo di smuovere le coscienze?
«Hanno ragione Safran Foer, David Wallace-Wells, Bill McKibben, Greta Thunberg e altri quando dicono con forza che non è sufficiente conoscere e riconoscere la crisi. Dobbiamo trovare modi radicali per motivare noi stessi e gli altri a introdurre cambiamenti drastici nelle abitudini di consumo. Dobbiamo rivedere la produzione e l’uso dell’energia».
Forse la resistenza al cambiamento è più strutturale.
«Perché continuiamo a muoverci verso il disastro? Perché non abbiamo i fatti? No. A causa dell’incertezza scientifica sul problema? Nemmeno. Perché gli scrittori di scienza come Elizabeth Kolbert e altri, me incluso, sono deboli nel presentare argomentazioni e implicazioni? Forse, ma sul tema abbiamo un sacco di buoni libri e articoli. Il punto è che le persone, per quanto bene informate, non vogliono modificare i loro modelli di vita e non sanno come cambiare governi ed economie. Nemmeno io lo so. Spero di no, ma forse dovremo sperimentare un disastro reale e innegabile su scala globale prima che avvenga un vero cambiamento».
Anche le fake news in Rete si diffondono come virus. Che cosa pensa di quelle che negano il cambiamento climatico antropico o l’evoluzione?
«La Rete e i social hanno reso assai più facile per le persone fare ciò che hanno sempre preferito: formare la loro comprensione della realtà in base a ciò in cui vogliono credere, piuttosto che su quello che i dati empirici suggeriscono. Le persone tendono a essere pigre, credulone e, soprattutto, attratte da storie sentimentali, rassicuranti o melodrammatiche».
Lei è il cantore del lato umano della scienza. Dove ambienterebbe una delle sue storie in Italia?
«Se sapessi parlare e leggere in italiano (così purtroppo non è), sarei tentato di scrivere la vita di Luigi Luca CavalliSforza e il suo progetto di ricostruire la storia e la geografia dei geni umani. Studiò e lavorò a Pavia, fin dagli anni Quaranta, e quello potrebbe essere il posto giusto per cominciare la storia».