Corriere della Sera - La Lettura
Sul Nautilus per scrivere la propria vita
Destini individuali e familiari: la protagonista di Irene Salvatori è una donna che cerca un colloquio con la mamma anni dopo la sua scomparsa, elaborando la sofferenza psichica superata grazie all’intervento di un «Capitan Nemo»
Si avvia ai quarant’anni la protagonista di Non è vero che non siamo stati felici di Irene Salvatori. Quarant’anni non facili. Un passato che ha conosciuto una temporanea paralisi a 14 anni, ma che è stato soprattutto segnato dalla morte della madre a causa di un tumore polmonare. Che è quanto l’ha distrutta e dispersa, consegnandola a «un inverno di cinque anni» e a dieci di rigenerazione in una casa di cura dopo essere stata letteralmente raccattata «un giorno che boccheggiavo per terra e non respiravo più» da quello che l’Io narrante vede come un Capitan Nemo. Lui l’ha imbarcata e curata nel suo sottomarino Nautilus, per dirla con una delle tante immagini che ha imparato a creare soprattutto durante gli anni trascorsi in quel sottomarino, di cui è popolato questo volume d’esordio. La protagonista non lo vuole chiamare romanzo perché «scrivere è raccontare, è far passare delle cose, è non far morire anche loro, le cose, saperle riagguantare dal cestino della spazzatura».
Dieci anni di cure psichiche dalle quali Nemo l’ha infine liberata, creando una situazione di approdo che porta la protagonista a stilare un bilancio della propria vita in una forma inconsueta, tirando «fuori dal cestino della carta quei fogli bianchi stropicciati perché a stirarli con le mani si possano usare ancora una volta»: quelle pagine bianche presenti nelle agende della madre rinvenute col ritorno a casa, e che «a sfogliarle ho pensato di scriverci sopra, di raccontarti di me, ecco cosa sto facendo. Non so, ho pensato che caso mai tu tornassi le tue agende sarebbero la prima cosa che cerchi».
Ne viene un singolare racconto epistolare, peraltro denso di riferimenti autobiografici quanto a situazioni personali, familiari e lavorative dell’autrice, cadenzando le «parole ritrovate» in 15 momenti, in ciascuno dei quali viene anche a mettere a fuoco un singolo particolare, come il suo lavoro di traduttrice dal polacco, le letture, il rapporto con le parole nelle diverse lingue, la sua maternità e il rapporto educativo coi figli, il suo sfortunato curriculum amoris, e dai quali affiorano quei passati «anni faticosi», vissuti «intrampolati nella solitudine», «tra il forse e il quasi», con storie di spostamenti dall’Italia «a est», a «un’altra lingua», da Massa Carrara a Cracovia, a Berlino, e con un obiettivo di normalità, reimparando «a fare qualcosa di ovvio». La madre morta è continuamente richiamata come se fosse in vita in questa lunga lettera con la quale «spero di averti messo in pari sulla mia vita, spero di averti fatto compagnia», con esplicito invito a «tornare», per conoscere la sua famiglia.
La famiglia di cui si racconta è soprattutto al femminile. I soli maschi sono il fratello Andrea, che con gli anni si è allontanato; ma soprattutto «lo scarafaggio», «quella specie di parassita che conoscesti, l’omino di provincia stordito dall’ego che somigliava a Mussolini» che «mi ero scelta»; quel marito da cui ha faticato a liberarsi, e dal quale ha avuto tre figli: le bimbe Gauguin e Scoiattola, e qualche anno dopo Caravaggio; ai quali si accompagnano i due cani Gábor e Anna, ma pure, dentro la testa della protagonista, Mimì e Midori: la parte razionale, equilibrata, quella noiosa che segue le ricette, mette a posto, mangia sano e cerca di andare avanti senza inciampare, la prima; la parte emotiva, Midori; e che «anche se sono sola spesso sento il loro casino, di solito litigano». Non che manchino altri maschi; e qualcuno anche una bella figura, come ad esempio Stefano o Andrea o Bernardo o Micha, «una persona delicata, buona, aperta. Sapeva ridere, sorridere», o il Principe Piccolo; ma si tratta anche in questo caso di personaggi dei suoi sfortunati innamoramenti.
Una lettera che parte solo dopo che la protagonista e la sua famiglia (figli e cani), hanno finalmente trovato da 5 mesi — dopo «quarant’anni di sbagli e dieci anni di traversata con uno psichiatra» — un punto fermo come una propria Hei
mat, quella «tana che protegge, si può chiudere la porta dall’interno». E da un «quasi» punto fermo: «Trovare quella chiave» che le renderà tutto «più chiaro» e che «è il rapporto con la mamma, quella è la forza, anche se non è proprio facilissimo da riconoscere», e che costituisce un autentico refrain del libro, a ricordare il punto d’approdo più autentico, dopo aver «più volte sbagliato strada».
Sono questi continui sbandamenti che vuol ridonare una scrittura che «ha il movimento di una rincorsa», sempre assai calibrata, salvo qualche concessione al vezzo del gergale o a certo compiacimento quando si entra nel letterario, ma che va sempre più trascinandoti nel suo mondo divagante, fatto anche di scarti improvvisi, ben dosando i toni di umorismo e dramma, disperazione e sorriso, nostalgia e futuro.