Corriere della Sera - La Lettura
La carovana scende nella vertigine
L’ispirazione cinese e tibetana del francese Victor Segalen
Di che cosa parla Victor Segalen? La domanda non è oziosa. Questo poeta francese vissuto tra il 1878 e il 1919, medico di marina e archeologo, viaggiatore instancabile, conoscitore profondo dell’Oriente, sembra scrivere senza un oggetto. La sua parola, nelle Odi e poi anche nel poema-monumento Thibet (sono i testi che costituiscono il volume Preghiera orientale), si cala in cerca di sé. La prima delle Odi si intreccia non per caso al passato, al suo soffio: si tratta, osserva Giorgio Agamben nel saggio su Segalen, di un’immagine della parola letteraria alla ricerca dell’origine. È per questo che l’esotismo di Segalen, cioè il suo riferirsi alla tradizione cinese e alla spiritualità tibetana, è sostanziale, è la metafora di un’irriducibile alterità. Segalen si sprofonda (l’immagine del palombaro è ritornante) nella profondità inversa del cielo, si eleva, si innalza disperatamente sul puntello di una parola vuota. Egli cerca qualcosa che sia «all’opposto dell’umano/ che ancora sono» (come dice nelle Odi, poesie accompagnate da prose). Thibet, in distici, dedicato a Nietzsche, è anch’esso il rito di un’elevazione; un avvicinarsi all’Altro, all’Altra, al mistero che preme, alla ripidezza del non-essere: «Non soltanto attorno a me, ma in me solo, nel mio dominio…/ Passa la Grande Carovana/ Che non sale, non scende, ma d’evo in evo sovrano/ Scivola e rovina per la morena/ Senza fondo di questo pauroso ghiacciaio verticale e cascante/ Del Tempo». L’oggetto di questa scrittura è in fine l’abisso: è la vertigine, il distante da sé.