Corriere della Sera - La Lettura
Il corpo (nascosto) lotta
Le stanze di un (vecchio) carcere asburgico trasformate in uno spazio di (nuove) libertà, quasi un paradosso in un luogo «di chiusura» costruito nel XIX secolo come scenario di sofferenza e dolore. Certo non si parla, stavolta, della solita libertà ma di una libertà fatta di condivisioni, di contaminazioni, di inclusione che comincia e finisce con l’arte. Tutto nella nuova mostra alle Gallerie delle Prigioni di Treviso, inaugurate nell’aprile 2018 da Luciano Benetton dopo un restauro firmato da Tobia Scarpa, invita a guardare oltre i confini. Quelli dell’anatomia visto che When you dance you make me happy (questo il titolo dell’esposizione curata da Nicolas Vamvouklis aperta fino al 10 novembre) si propone di mettere in scena «il corpo come contenitore di lotta esistenziale da cui scaturiscono ingegno e creatività», ma anche quelli della tecnica artistica (in mostra ci sono sculture, quadri, stampe e video) e della geografia politica (accanto al curatore greco ci sono artisti senegalesi, italiani, statunitensi, brasiliani, cileni, iraniani). E, persino, quelli dello stesso «progetto Gallerie».
Perché delle cinquanta opere esposte, una parte consistente arriva (ed è la prima volta) dalla collezione privata di Luciano Benetton (oltre mille i pezzi in tutto): Réflecteur de Reflecteur, il neon di Joseph Kosuth (classe 1945), uno dei grandi pionieri dell’arte concettuale, ispirato alle teorie di Søren Kierkegaard; Glory, la scultura di object trouvés con cui Arman (1928-2005) «rinnova la filosofia e l’estetica del Dadaismo»; Pass di Lynette Yiadom-Boakye (1977) con cui una dei finalisti del Turner Prize 2013 racconta la sua idea di collettività, intimità, quotidianità; Candy Lady Grandbaby di Dapper Bruce Lafitte (1972), malinconica e coloratissima rievocazione delle bande musicali di New Orleans, spazzate via nel 2005 dall’uragano Katrina.
Una parte altrettanto importante arriva da Imago Mundi, il «progetto non profit, democratico e globale» nato da un’idea dello stesso Luciano Benetton per la creazione di una collezione d’arte contemporanea ancora una volta «senza confini», che ha finora coinvolto 25 mila artisti di 150 popolazioni (unico vincolo, quello del formato, 10×12 centimetri) e che entro l’anno sbarcherà a Pechino per presentare Contemporary China 19492019, sezione dedicata alle espressioni artistiche delle 56 etnie dlla Repubblica Popolare: Eyes are the reflection of your soul di Maripol (1955) celebrazione in forma di Polaroid degli anni e delle celebrity (Basquiat, Grace Jones, Keith Haring, Andy Warhol) dello Studio 54; Germany mon amour di Haralampi Oroschakoff (1955) che
Per la prima volta la Fondazione Benetton affianca, accanto alle opere di «Imago Mundi» (progetto non profit, democratico e globale che raccoglie autori anche sconosciuti di tutto il mondo), le opere della collezione di Luciano Benetton. Obiettivo? Lo spiega il curatore: «Mettiamo in scena il corpo umano come contenitore di lotta esistenziale da cui scaturiscono impegno e creatività». In mostra, tra gli altri, Nick Cave, Nitsch, Kosuth
cita Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg per rappresentare «la diversità dell’altro»; la White Flag di Stuart Bird (1977), simbolo di resa incondizionata in una terra di conflitti come il Sudafrica; Lost di Asli Narin (1985) ispirato al viaggio e alle radici. Aspettando Dont’ask me where I’m from, il progetto nato in collaborazione tra Imago Mundi e l’Aga Khan Museum di Toronto che a novembre porterà alle Gallerie «l’esperienza degli artisti della seconda generazione di chi emigra», ad aprire stavolta le danze (non solo metaforicamente), all’esterno delle Gallerie, è il video di Nick Cave (1959), musicista, scultore, ballerino, perfomer e professore alla School of the Art Institute di Chicago (tanto per ribadire che non esistono confini invalicabili) che da sempre esplora la frontiera tra arte e moda e «come ciò che si indossa possa diventare strumento di trasformazione». In scena vanno stavolta i suoi Soundsuits, il primo dei quali creato nel 1992 come personale reazione al pestaggio da parte di alcuni agenti del Los Angeles Police Department del tassista afroamericano Rodney King. Sculture indossabili (esposte anche all’interno e al termine del percorso) che mascherano il corpo con materiali ordinari e, come una sorta di seconda pelle, nascondono razza, genere, età e classe, costringendo lo spettatore a guardare senza pregiudizi. Una riuscita fusione tra armature, abiti da cerimonia, oggetti più o meno comuni ( carillon inclusi) che nelle intenzioni di Cave sono «simboli di autonomia e affermazione» che l’artista mette spesso in scena in prima persona. Il corpo umano dunque, un corpo che, come spiega a «la Lettura» Nicolas Vamvouklis (anche tra i curatori della settima Biennale di Salonicco in programma dal 12 ottobre al 16 febbraio 2020), «si muove, si ferma, riprende a muoversi, e acquista forza all’interno di un gruppo, in un crescendo che va dalla decadenza al trionfo». Per un itinerario collettivo (dove possono trovare spazio la festa, il lutto, la celebrazione, la protesta) che prende forza proprio dalle contraddizioni e dalla contrapposizione di linguaggi,di stili, di figure, di continenti (emblematico a questo proposito è il lavoro del tanzaniano Mohammed Charinda che nobilita un’arte nata per i turisti). Alla ricerca di un possibile equilibrio tra dimensione interiore e mondo esterno, tra sfera privata (quella di una collezione d’arte) e sfera pubblica (quella a cui si possono collegare il dibattito scaturito dopo la tragedia e il dolore del Ponte Morandi a Genova sulla «revoca» delle concessioni autostradali al gruppo Atlantia, la società che controlla Autostrade per l’Italia di cui la Edizione dei Benetton è il primo socio col 30,25%, e le recenti dimissioni, con tanto di buonuscita da 13 milioni di euro, dell’amministratore delegato Giovanni Castellucci).
A partire dall’idea che collezionare sia atto creativo e, assieme, espressione di cura, la mostra affianca così un lavoro di interpretazione delle esperienze contenute nella collezione di Luciano Benetton a un approfondimento delle narrazioni contenute nel progetto Imago
Mundi. Narrazioni che possono essere molto politiche come nel caso di Seja marginal seja herói di Hélio Oiticica (1937-1980) che mette in primo piano il cadavere di Manuel Moreira, eroe romantico che si batteva per i più deboli del Brasile o di Shit is fucked up and bullshit di Accra Shepp (1962) in cui viene messa in discussione la partecipazione a movimenti e manifestazioni nell’era digitale. Oppure di memoria (una memoria comunque non convenzionale) come nel caso del Guerriero di Giangi Pezzotti (1963) o di Fela: Amen, Amen, Amen,
Amen... di Barkley L. Hendricks (1945-2017) in cui 27 paia di coloratissime scarpe da donna vogliono essere un chiaro riferimento alla poligamia simbolica dell’attivista e pioniere dell’afro-beat Fela Kuti. La musica è, tra l’altro, una delle possibili chiavi di lettura di una mostra che spazia tra citazioni di Madonna e Cole Porter, ma dove anche il nuovo urban pop di Mahmood, quello di
Soldi e di Barrio, non sfigurerebbe certo.