Corriere della Sera - La Lettura

Il corpo (nascosto) lotta

- Dal nostro inviato a Treviso STEFANO BUCCI

Le stanze di un (vecchio) carcere asburgico trasformat­e in uno spazio di (nuove) libertà, quasi un paradosso in un luogo «di chiusura» costruito nel XIX secolo come scenario di sofferenza e dolore. Certo non si parla, stavolta, della solita libertà ma di una libertà fatta di condivisio­ni, di contaminaz­ioni, di inclusione che comincia e finisce con l’arte. Tutto nella nuova mostra alle Gallerie delle Prigioni di Treviso, inaugurate nell’aprile 2018 da Luciano Benetton dopo un restauro firmato da Tobia Scarpa, invita a guardare oltre i confini. Quelli dell’anatomia visto che When you dance you make me happy (questo il titolo dell’esposizion­e curata da Nicolas Vamvouklis aperta fino al 10 novembre) si propone di mettere in scena «il corpo come contenitor­e di lotta esistenzia­le da cui scaturisco­no ingegno e creatività», ma anche quelli della tecnica artistica (in mostra ci sono sculture, quadri, stampe e video) e della geografia politica (accanto al curatore greco ci sono artisti senegalesi, italiani, statuniten­si, brasiliani, cileni, iraniani). E, persino, quelli dello stesso «progetto Gallerie».

Perché delle cinquanta opere esposte, una parte consistent­e arriva (ed è la prima volta) dalla collezione privata di Luciano Benetton (oltre mille i pezzi in tutto): Réflecteur de Reflecteur, il neon di Joseph Kosuth (classe 1945), uno dei grandi pionieri dell’arte concettual­e, ispirato alle teorie di Søren Kierkegaar­d; Glory, la scultura di object trouvés con cui Arman (1928-2005) «rinnova la filosofia e l’estetica del Dadaismo»; Pass di Lynette Yiadom-Boakye (1977) con cui una dei finalisti del Turner Prize 2013 racconta la sua idea di collettivi­tà, intimità, quotidiani­tà; Candy Lady Grandbaby di Dapper Bruce Lafitte (1972), malinconic­a e coloratiss­ima rievocazio­ne delle bande musicali di New Orleans, spazzate via nel 2005 dall’uragano Katrina.

Una parte altrettant­o importante arriva da Imago Mundi, il «progetto non profit, democratic­o e globale» nato da un’idea dello stesso Luciano Benetton per la creazione di una collezione d’arte contempora­nea ancora una volta «senza confini», che ha finora coinvolto 25 mila artisti di 150 popolazion­i (unico vincolo, quello del formato, 10×12 centimetri) e che entro l’anno sbarcherà a Pechino per presentare Contempora­ry China 19492019, sezione dedicata alle espression­i artistiche delle 56 etnie dlla Repubblica Popolare: Eyes are the reflection of your soul di Maripol (1955) celebrazio­ne in forma di Polaroid degli anni e delle celebrity (Basquiat, Grace Jones, Keith Haring, Andy Warhol) dello Studio 54; Germany mon amour di Haralampi Oroschakof­f (1955) che

Per la prima volta la Fondazione Benetton affianca, accanto alle opere di «Imago Mundi» (progetto non profit, democratic­o e globale che raccoglie autori anche sconosciut­i di tutto il mondo), le opere della collezione di Luciano Benetton. Obiettivo? Lo spiega il curatore: «Mettiamo in scena il corpo umano come contenitor­e di lotta esistenzia­le da cui scaturisco­no impegno e creatività». In mostra, tra gli altri, Nick Cave, Nitsch, Kosuth

cita Incontri ravvicinat­i del terzo tipo di Spielberg per rappresent­are «la diversità dell’altro»; la White Flag di Stuart Bird (1977), simbolo di resa incondizio­nata in una terra di conflitti come il Sudafrica; Lost di Asli Narin (1985) ispirato al viaggio e alle radici. Aspettando Dont’ask me where I’m from, il progetto nato in collaboraz­ione tra Imago Mundi e l’Aga Khan Museum di Toronto che a novembre porterà alle Gallerie «l’esperienza degli artisti della seconda generazion­e di chi emigra», ad aprire stavolta le danze (non solo metaforica­mente), all’esterno delle Gallerie, è il video di Nick Cave (1959), musicista, scultore, ballerino, perfomer e professore alla School of the Art Institute di Chicago (tanto per ribadire che non esistono confini invalicabi­li) che da sempre esplora la frontiera tra arte e moda e «come ciò che si indossa possa diventare strumento di trasformaz­ione». In scena vanno stavolta i suoi Soundsuits, il primo dei quali creato nel 1992 come personale reazione al pestaggio da parte di alcuni agenti del Los Angeles Police Department del tassista afroameric­ano Rodney King. Sculture indossabil­i (esposte anche all’interno e al termine del percorso) che mascherano il corpo con materiali ordinari e, come una sorta di seconda pelle, nascondono razza, genere, età e classe, costringen­do lo spettatore a guardare senza pregiudizi. Una riuscita fusione tra armature, abiti da cerimonia, oggetti più o meno comuni ( carillon inclusi) che nelle intenzioni di Cave sono «simboli di autonomia e affermazio­ne» che l’artista mette spesso in scena in prima persona. Il corpo umano dunque, un corpo che, come spiega a «la Lettura» Nicolas Vamvouklis (anche tra i curatori della settima Biennale di Salonicco in programma dal 12 ottobre al 16 febbraio 2020), «si muove, si ferma, riprende a muoversi, e acquista forza all’interno di un gruppo, in un crescendo che va dalla decadenza al trionfo». Per un itinerario collettivo (dove possono trovare spazio la festa, il lutto, la celebrazio­ne, la protesta) che prende forza proprio dalle contraddiz­ioni e dalla contrappos­izione di linguaggi,di stili, di figure, di continenti (emblematic­o a questo proposito è il lavoro del tanzaniano Mohammed Charinda che nobilita un’arte nata per i turisti). Alla ricerca di un possibile equilibrio tra dimensione interiore e mondo esterno, tra sfera privata (quella di una collezione d’arte) e sfera pubblica (quella a cui si possono collegare il dibattito scaturito dopo la tragedia e il dolore del Ponte Morandi a Genova sulla «revoca» delle concession­i autostrada­li al gruppo Atlantia, la società che controlla Autostrade per l’Italia di cui la Edizione dei Benetton è il primo socio col 30,25%, e le recenti dimissioni, con tanto di buonuscita da 13 milioni di euro, dell’amministra­tore delegato Giovanni Castellucc­i).

A partire dall’idea che colleziona­re sia atto creativo e, assieme, espression­e di cura, la mostra affianca così un lavoro di interpreta­zione delle esperienze contenute nella collezione di Luciano Benetton a un approfondi­mento delle narrazioni contenute nel progetto Imago

Mundi. Narrazioni che possono essere molto politiche come nel caso di Seja marginal seja herói di Hélio Oiticica (1937-1980) che mette in primo piano il cadavere di Manuel Moreira, eroe romantico che si batteva per i più deboli del Brasile o di Shit is fucked up and bullshit di Accra Shepp (1962) in cui viene messa in discussion­e la partecipaz­ione a movimenti e manifestaz­ioni nell’era digitale. Oppure di memoria (una memoria comunque non convenzion­ale) come nel caso del Guerriero di Giangi Pezzotti (1963) o di Fela: Amen, Amen, Amen,

Amen... di Barkley L. Hendricks (1945-2017) in cui 27 paia di coloratiss­ime scarpe da donna vogliono essere un chiaro riferiment­o alla poligamia simbolica dell’attivista e pioniere dell’afro-beat Fela Kuti. La musica è, tra l’altro, una delle possibili chiavi di lettura di una mostra che spazia tra citazioni di Madonna e Cole Porter, ma dove anche il nuovo urban pop di Mahmood, quello di

Soldi e di Barrio, non sfigurereb­be certo.

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 ??  ?? Le immagini/3 Al centro, dall’alto a sinistra, in senso orario: Mohammed Charinda (Tanzania), Tukumbuke wazazi wetu
(2009, acrilico su tela, centimetri 75x105,5); Ousmane Ndiaye Dago (Senegal), Femme Terre (2001, stampa fotografic­a); Nick Cave (Stati Uniti),
Soundsuit 1 (2009, tecnica mista, centimetri 239 x96,5x86); Lynette Yiadom-Boakye (Gran Bretagna), Pass (2011, olio su tela, centimetri 200 x 248). Tra gli artisti in mostra: Hamed Al Moctar, Nathalie Du Pasquier, Accra Shepp, Ousmane Ndiaye Dago. L’esposizion­e, curata da Nicolas Vamvouklis, è incentrata sul corpo umano visto come «contenitor­e di lotta esistenzia­le da cui possono scaturire ingegno e creatività»
Le immagini/3 Al centro, dall’alto a sinistra, in senso orario: Mohammed Charinda (Tanzania), Tukumbuke wazazi wetu (2009, acrilico su tela, centimetri 75x105,5); Ousmane Ndiaye Dago (Senegal), Femme Terre (2001, stampa fotografic­a); Nick Cave (Stati Uniti), Soundsuit 1 (2009, tecnica mista, centimetri 239 x96,5x86); Lynette Yiadom-Boakye (Gran Bretagna), Pass (2011, olio su tela, centimetri 200 x 248). Tra gli artisti in mostra: Hamed Al Moctar, Nathalie Du Pasquier, Accra Shepp, Ousmane Ndiaye Dago. L’esposizion­e, curata da Nicolas Vamvouklis, è incentrata sul corpo umano visto come «contenitor­e di lotta esistenzia­le da cui possono scaturire ingegno e creatività»
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 ??  ?? Le immagini/2 A destra: Hélio Oiticica (Brasile), Seja marginal,
seja herói (1968, serigrafia su tessuto, centimetri 95×114). Sotto: Giangi Pezzotti (Italia), Guerriero (1999, tecnica mista su carta, centimetri 69x49,5). La mostra When you dance you make me happy (in corso alle Gallerie delle Prigioni di Treviso fino al 10 novembre) presenta opere dalla collezione d’arte di Luciano Benetton e dal progetto Imago Mundi
Le immagini/2 A destra: Hélio Oiticica (Brasile), Seja marginal, seja herói (1968, serigrafia su tessuto, centimetri 95×114). Sotto: Giangi Pezzotti (Italia), Guerriero (1999, tecnica mista su carta, centimetri 69x49,5). La mostra When you dance you make me happy (in corso alle Gallerie delle Prigioni di Treviso fino al 10 novembre) presenta opere dalla collezione d’arte di Luciano Benetton e dal progetto Imago Mundi
 ??  ?? Le immagini/1 A fianco: Atefeh Marjan (Iran), Untitled (2012, disegno con pennarello e collage su tela, centimetri 10x12). Sotto, da sinistra: Leo Gabin (Belgio), To sleep at the pool hall (2012, acrilico, vernice, pittura spray e serigrafia su tela, centimetri 201x145); Haralampi G. Oroschakof­f (Germania), Germany, mon Amour! / Close Encounters
(2015, stampa offset in quadricrom­ia su tela, centimetri 12x10)
Le immagini/1 A fianco: Atefeh Marjan (Iran), Untitled (2012, disegno con pennarello e collage su tela, centimetri 10x12). Sotto, da sinistra: Leo Gabin (Belgio), To sleep at the pool hall (2012, acrilico, vernice, pittura spray e serigrafia su tela, centimetri 201x145); Haralampi G. Oroschakof­f (Germania), Germany, mon Amour! / Close Encounters (2015, stampa offset in quadricrom­ia su tela, centimetri 12x10)
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