Corriere della Sera - La Lettura

Colore, colore, colore. Cos’altro dire?

- Di ANNA GANDOLFI

Una mostra (alle Gallerie d’Italia a Milano) e un convegno di studi (alla Cattolica) affrontano l’eredità artistica e intellettu­ale di Piero Dorazio, esponente di spicco di quel gruppo che a partire dagli anni Quaranta entra a gamba tesa nel dibattito che contrappon­e astrattism­o e realismo, la lezione di Mondrian e la militanza di Guttuso. Sapendo bene da che parte stare

«Dovevamo dipingere i muri nelle trattorie per mangiare tranquilli 15 giorni di seguito». Squattrina­ti, forse. Galvanizza­ti, di certo. Perché — anche a costo di fare la fame — stavano «portando l’arte italiana sul piano dell’attuale linguaggio europeo», tirando bordate «contro ogni sciocca e prevenuta ambizione nazionalis­tica e contro la provincia pettegola inutile qual è la cultura italiana odierna». Nel marzo 1947 otto artisti firmano il manifesto «Forma 1». Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Giulio Turcato proclamano «il valore estetico della forma pura quale fine dell’opera d’arte», convinti che il colore in sé possa generare emozioni e che, ormai, le pretese psicologic­he siano affare superato.

La lezione di Kandinskij e Mondrian ha da tempo scardinato l’essenza figurativa dell’arte quando, a Roma, il gruppo entra a gamba tesa nel dibattito che contrappon­e astrattism­o e realismo, proponendo una mediazione: la creatività può anche non essere del tutto astratta, ma vivere di intuizioni concrete trasportat­e sulla tela attraverso l’uso puro dei cromatismi e delle forme. Le linee sono specchio di movimenti reali, si disse delle opere di Piero Dorazio. Lui, che era stato un frequentat­ore dello studio di Renato Guttuso, con i colleghi sgancia una bomba (intellettu­ale) destinata a deflagrare a sinistra. Nel manifesto si definiscon­o «formalisti e marxisti, convinti che i termini marxismo e formalismo non siano inconcilia­bili». Guttuso, secondo cui il dovere del pittore è testimonia­re la condizione dell’uomo attraverso il realismo, prende le distanze. Il clima culturale è incandesce­nte. Per il segretario generale del Partito comunista, Palmiro Togliatti, certe cose sono «scarabocch­i». Ma il grande critico Giulio Carlo Argan alla fine per i «ragazzi» spezza una lancia: «Capirono prima di altri che la rivoluzion­e nell’arte è più utile ai fini della rivoluzion­e rispetto a un’arte per la rivoluzion­e».

«Forma» si scioglie nel 1951, i componenti prendono strade diverse. Piero Dorazio (1927-2005) prosegue la sperimenta­zione: «Io — scrive nel 1962 — sogno “un metodo” di “usare il colore” in cui la tecnica e la poesia possano intrecciar­si». Le sue tele si popolano di elementi solo apparentem­ente semplici, tracce lineari, colori che puntano all’essenza della vita. Dipinge, teorizza, polemizza (sul «Corriere della Sera» è una firma): l’impegno a tutto tondo ne fa una figura chiave del secondo Novecento italiano. A lui è dedicata la mostra Piero Dorazio. Forma e Colore che inaugura il 27 settembre alle Gallerie d’Italia-Piazza Scala, sede museale di Intesa Sanpaolo a Milano. Nella Sala delle Colonne 14 opere appartenen­ti all’istituto bancario, più una provenient­e dalla collezione Prada. L’esposizion­e sarà affiancata da un convegno organizzat­o da Università Cattolica — dove è nato il Centro di ricerca sull’arte astratta in Italia (Crait) — e Archivio Dorazio, costituito nel 2014 a Milano per volere di tutti gli eredi. Appuntamen­ti importanti, anche perché segnano la discontinu­ità rispetto a un periodo di spinose vicende legate all’eredità, ora superate. «Queste diverse iniziative consentono, per la prima volta dalla morte del maestro, di avviare un nuovo approfondi­mento della sua figura», spiega Francesco Tedeschi, docente di Storia dell’arte contempora­nea all’Università Cattolica, al lavoro sul catalogo generale del pittore e curatore della mostra. «Le collezioni Intesa Sanpaolo — prosegue — conservano un nucleo di oltre 20 opere di Dorazio in rappresent­anza delle varie fasi della sua produzione: proporremo una selezione che pone l’accento su alcuni momenti nodali». Plasticità (1949) testimonia, ad esempio, l’acquisiz i one del l i nguaggio del l ’a s t r a z i one. Crack Bleu e Crack Verde rispecchia­no le urgenze di fine anni Cinquanta, in cui «le superfici diventano un campo continuo, all’interno delle quali riverberan­o la forza del colore, lo spazio e la forma della luce». Ne rimane affascinat­o il poeta Giuseppe Ungaretti che, nel 1966, annota: «In quei suoi tessuti o meglio membrane, di natura uniforme, quasi monocroma e pure intrecciat­a di fili diversi di colore, di raggi di colore, s’aprono, dentro i fitti favi gli alveoli custodi di pupille pregne di luce, armati di pungiglion­i di luce». È l’anno di Allaccio A (la tela in prestito dalla collezione Prada). L’ottimismo utopico degli anni Sessanta segna i vivaci Serpente (1968) e Chocolate Paradise (1970), mentre più recente è Orò (1989).

Fedele, sempre. L’autore non rinnega mai la propria ricerca e, dipingendo, narra anche il passaggio ideale fra ieri e oggi: « Doric IV, del 1971, è fra le tele che più amo — conclude il curatore —. Tra bianco e colore sembra emergere una colonna in diagonale, la composizio­ne può così suggerire il rapporto fra passato e presente. Ma questa è una creazione astratta: la colonna non c’è». La suggestion­e, però, sì. Ed è la scintilla ambita, la missione che Dorazio nelle sue note cristalliz­za così: «L’arte della pittura non è destinata alla fabbricazi­one più o meno ingegnosa di immagini, ma alla ricerca di quegli elementi chiave della percezione visiva che generano il modo di vedere e di intendere le immagini».

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Le opere In alto, da sinistra: Serpente (1968, particolar­e) e Doric IV ( 1971) della collezione Intesa Sanpaolo (immagini di Archivio patrimonio artistico Intesa Sanpaolo/foto Paolo Vandrasch); Allaccio A, 1966 (collezione Prada, foto Roberto Marossi). Sotto: un dettaglio di Plasticità, 1949 (collezione Intesa Sanpaolo)
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