Corriere della Sera - La Lettura

La musica è cinema Il teatro la sua medicina

L’intervista Andrea Liberovici esordì a 16 anni con un disco tutto suonato e cantato da lui. Oggi sostiene che le discipline artistiche debbano interagire fra loro. Come dimostra con i progetti attesi a Reggio Emilia e New York

- Di HELMUT FAILONI

Si anima e sorride molto quando parla del suo lavoro. È forse la curiosità che lo ha portato a diventare la somma di cose che ora è. Andrea Liberovici è un compositor­e, cantautore, regista che ha attraversa­to i generi. «Se c’è una definizion­e che non sopporto, ma che è molto in voga è quella del classico contempora­neo », confessa Liberovici a «la Lettura». «Ma che vuol dire? Il classico è qualcuno che è morto... Ti danno del morto vivente pensando di farti un compliment­o?».

Il compositor­e torinese (1962) —figlio del musicista ed etnologo Sergio Liberovici (1930-1991) e di Margherita Galante Garrone (1941-2017), cantautric­e nota come Margot — è in movimento continuo. Ha realizzato 8 puntate per Radiotre su Venezia, una delle sue città, dal titolo Il diario di un cacciatore di suoni: «È una trasmissio­ne radiofonic­a immaginata come un brano di musica in 8 movimenti/ puntate». A Venezia è dedicato anche il concerto in programma a New York il 3 dicembre, Resonant City: Venice. Sempre a New York (6 dicembre) ci sarà il suo Faust’s Box. A breve debutta a Reggio Emilia lo spettacolo Trilogy in Two, 19 e 20 ottobre, repliche a Genova e Roma. «È una riflession­e su ciò che consideria­mo ancora bellezza — spiega — partendo da tre archetipi europei: Faust, quindi l’egotismo; Florence Nightingal­e, simbolo dell’infermiera, quindi dell’altruismo; e infine Venezia come luogo d’ascolto, inteso nella sua accezione più larga, prima ancora che luogo della visione».

Lei mescola molto le discipline artistiche all’interno del suo lavoro.

«Sì. Faccio l’esempio di Pina Bausch che attraverso il teatro ha liberato i vari generi della danza del suo tempo, mischiando­li insieme. Basta con il compositor­e che si guarda l’ombelico e compone solo per sé stesso. Il teatro può diventare la grande medicina per la musica».

Si vive troppo sul passato?

«Il post moderno lo considero un post mortem. La Campbell’s Soup di Warhol è ancora meraviglio­sa, per carità, ma troppe zuppe portano alla dissenteri­a. Cito Bertolt Brecht: “Non costruire sul buon tempo passato ma sul cattivo tempo presente”. È facile confrontar­si con il passato. Il presente è più veloce, vola via...».

Il fine della musica?

«Senza dubbio quello di riattivare la comunicazi­one fra le persone. Viviamo nel periodo social per eccellenza ma è anche il periodo in cui c’è meno comunicazi­one in assoluto. È questo il grande paradosso. Chi compone non si deve chiudere nel suo solipsismo ma cercare un rapporto necessario con il mondo».

Come si definisce Andrea Liberovici?

«Un compositor­e audiovisiv­o, che lavora su due fronti».

Esempi simili?

«In pochi sanno che Bill Viola è stato anche un compositor­e e invece lo si nota nel suo lavoro. Poi David Lynch, che scrive prima i suoni e poi la narrazione. Vorrei sapere chi ha capito mai qualcosa di un film come il suo Mulholland Drive... Lì tutto è più legato al significan­te che non al significat­o».

Lei ha lavorato con Peter Greenaway.

«Sì, a un’installazi­one nel 2005. Il secondo giorno abbiamo litigato. In modo simpatico ma fermo. Io dicevo che, secondo me, è la musica che costruisce la struttura del cinema e lui l’esatto contrario. E che dire di Stanley Kubrick... In Barry Lyndon la musica è fondamenta­le. La musica è il primo film, è la drammaturg­ia musicale che costruisce il cinema».

Con Greenaway un solo lavoro, con Edoardo Sanguineti molti.

«Abbiamo lavorato 15 anni insieme. Per altrettant­i progetti, fra teatro, danza, audiovisiv­i e due libri. Ci siamo conosciuti a una recita di Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene. Conosceva mio padre e quindi non fu così difficile avvicinarl­o. Gli chiesi di scrivere un rap».

E lui?

«Disse: “Non ti scrivo un rap ma ti metto a disposizio­ne un grande materiale verbale per costruire poi uno spettacolo. Nacque così Rap. La mia musica la definiva anarchia ben temperata».

La sua formazione?

«Anomala. Dalla pre-nascita ascoltavo musica classica».

Come dalla pre-nascita?

«C’era una corrente di pensiero secondo la quale la musica fatta ascoltare al feto lo predispone­va poi alle arti».

Con lei pare abbia funzionato.

(Ride) «Con la musica ci giocavo da bambino, per questo non mi sono mai sentito frustrato. Con Giovanni (parla del grande storico della musica Giovanni Morelli, che è stato compagno della madre, ndr) ci divertivam­o a fare il solfeggio di Ramificati­ons di György Ligeti, che è una partitura complicati­ssima e che adesso non sarei in grado di rifare».

In che ambiente è cresciuto?

«Stavamo a Venezia, alla Giudecca. A casa tra mia madre e Giovanni si ascoltava di tutto, da Uncle Meat di Frank Zappa ai madrigali dei Gabrieli».

Poi è arrivato il Conservato­rio.

«Sì ed è stato uno choc. Quando ero lì mi mancava la musica di casa, quando noi tre suonavamo insieme con un approccio totalmente diverso rispetto ai canoni del Conservato­rio che, lo dice la parola, conserva. Infatti me ne sono andato e ho seguito il testostero­ne».

E dove l’ha portata?

«Al rock. Poi ho capito che era ciò che non volevo perché all’epoca era un macchina da soldi e non mi interessav­a. Ho fatto anche canzoni orrende ma il disco Oro, dove suono e canto tutto io, mi piace. A 19 anni mio padre mi consigliò di frequentar­e una scuola di recitazion­e. Mi iscrissi al Teatro Stabile di Genova».

Com’era come attore?

«Pessimo. Glauco Mauri aveva capito che era la musica il mio vero interesse, quindi mi chiese di comporre per il suo Don Giovanni. Era il 1986 e così mi si riaccese la fiamma musicale».

Vuole regalarci un breve ricordo di due grandi donne che ha conosciuto, Judith Malina e Cathy Berberian?

«A Spoleto nel 1998 chiesi a Judith per il mio Macbeth Remix di fare la strega. Quella voce ce l’ho ancora dentro... Con Berberian studiai a Montalcino nell’81 “Canto in stile musical”. Non era un periodo bello per me. L’ho vissuta come un angelo che è venuto a darmi consigli e ricordarmi che la musica è divertimen­to».

Chi sono i suoi eroi?

«Luigi Nono, Paul McCartney, György Ligeti e Leonard Bernstein».

In che momento viviamo?

«Un momento di transizion­e. Stiamo aspettando dei risultati. È auspicabil­e che l’arte ponga delle domande, mentre l’intratteni­mento dà delle risposte: solo cercando di attivare domande si può crescere. Di risposte ce ne sono troppe. Tutti ne hanno. Le trovi ovunque».

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