Corriere della Sera - La Lettura

Macedonia del Nord Europa più grande e in pace

- Dal nostro inviato a Ocrida, Skopje, Struga e Shuto Orizari (Macedonia del Nord) CARLO VULPIO

Skopje ha da poco sanato un contenzios­o storico con Atene per l’uso del nome del Paese. Questo ha aperto le porte dell’Unione Europea e contribuit­o a raffreddar­e uno dei focolai di tensione dei Balcani. «La Lettura» è venuta fin qui per vedere cosa succede in questa terra ricca di cultura e fascino, che ospita la capitale dei Rom

«No n to r ne re mo i ndietro. Noi apparten i a mo a l l ’ Uni o n e Europea e vi prometto che, dopo l’accordo con la Grecia sul nuovo nome del nostro Paese, la Ue ci aprirà le porte». Questo disse, esattament­e un anno fa, il capo del governo, il socialdemo­cratico Zoran Zaev, nella gremitissi­ma piazza centrale di Skopje, la capitale del neonato St a to de l l a Macedonia de l Nord, che dal 12 febbraio 2019 porta questo nome. Da quel giorno, grazie a un compromess­o intelligen­te tra lo slavo macedone Zaev e il capo del governo greco Alexis Tsipras siglato il 12 giugno 2018 sul lago di Prespa, che ha risolto un problema all’apparenza impossibil­e, la Grecia non è stata espropriat­a del nome della «sua» Macedonia — quella in cui nacquero Filippo II e suo figlio Alessandro Magno — e nei Balcani, o meglio, in Europa, c’è una nazione in più.

La Macedonia del Nord, come il Montenegro e l’Albania, da tempo utilizza l’euro accanto alla propria moneta nazionale e adesso, dopo aver aderito alla Nato, chiede che Bruxelles mantenga la promessa di farla entrare nella Ue. Come del resto dovrebbe avvenire per tutti i Paesi balcanici, che sono e si sentono Europa, non solo per la geografia e la geopolitic­a, ma per la cultura e, dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989, per il modo di vivere e di pensare. Non sono più né Europa dell’Est né Europa del Sud, e nemmeno si può scorporarl­i in Balcani orientali e occidental­i, secondo una delle ultime suddivisio­ni tracciate sulla carta con il solito «sistema del righello» che crea disastri e nuovi problemi invece di risolverne.

Se a questo si aggiunge che la Macedonia del Nord era una delle sei repubblich­e federate della ex Jugoslavia di Tito (con Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Serbia), che oggi sarebbero sette se si annovera anche il Kosovo (riconosciu­to come Stato indipenden­te da cento Paesi, tra i quali l’Italia, sui 193 dell’Onu) e potrebbero diventare otto se anche la Vojvodina, provincia autonoma della Repubblica di Serbia, facesse domani ciò che il Montenegro ha già fatto ieri, apparirà più chiaro come la nascita di questo nuovo Paese è un avveniment­o molto importante per l’Europa.

Grande quanto la Sicilia e con una popolazion­e (2,1 milioni di abitanti) appena più numerosa di quella della Calabria, la Macedonia del Nord è un apparente paradosso: attraverso questo Paese sconosciut­o agli europei si può conoscere e capire meglio l’Europa. In altre parole, da qui l’Europa si vede meglio. Mentre dall’Europa si riescono a vedere soltanto la povertà nord-macedone (ma quest’anno il Pil è in crescita del 4 per cento) e la sua distanza dagli standard europei in materia di diritti (l’arresto del giornalist­a Tomislav Kezarovski è emblematic­o).

Eppure, siamo così vicini. Innanzi tutto, in chilometri. Brindisi, punto finale della Via Appia, è più vicina a Skopje (500 chilometri) che non a Roma (570). Ed è ancora più vicina a Ocrida (330), che è il luogo simbolo della Macedonia del Nord, dei Balcani e dell’intero mondo slavo, a cominciare dalla lingua e dalla religione. Ocrida è sul lago omonimo, appena superato il confine con l’Albania, e si trova su quella grande arteria di comunicazi­one che era la Via Egnatia, magnifica intuizione dei Romani per collegare l’Italia, l’Occidente, a Bisanzio e quindi all’Oriente. Approdati a Durazzo, in Albania, i Romani si spinsero all’interno e tra le tante colonie fondarono anche Scupi (l’odierna Skopje), ma Ocrida già esisteva. Tremila anni fa era un villaggio di palafitte — che oggi è stato ben ricostruit­o come Museo sull’Acqua sulla sponda del lago chiamata Baia delle Ossa — e ancora prima, circa seimila anni fa, era stato il luogo di uno dei più antichi insediamen­ti umani in Europa. Ocrida però è legata soprattutt­o a un avveniment­o culturale che ha cambiato la storia: la nascita dell’alfabeto cirillico, che per le popolazion­i slave significò potersi capire reciprocam­ente e poter accedere alla Bibbia e ai Vangeli, anche senza conoscere il greco. Su quei testi tradotti in cirillico poté formarsi un clero, cioè un ceto dirigente, non più soltanto greco e grecofono, ma slavo. L’anno 865, grazie ai due fratelli tessalonic­esi (dunque, greci), i monaci Cirillo e Met o d i o , n a c q u e a O c r i d a u n n u o vo alfabeto di trentotto lettere che sarebbe stato il pilastro della religione cristiana ortodossa. Religione che nell’867 diventò per la prima volta il credo ufficiale di un Paese slavo, la Bulgaria.

Il binomio Grecia-Bulgaria è sempre stato presente nelle vicende nord-macedoni. Ma se la controvers­ia con i greci sul nome del Paese è stata chiusa, ne è rimasta in piedi un’altra, con i bulgari. I quali gradirebbe­ro che i macedoni del nord non chiamino macedone la propria lingua, in quanto, dicono i bulgari, essa è una variante del bulgaro… La risposta, indiretta, a quest’altra seccatura l’ha data il Parlamento della Macedonia del Nord — non meno «multietnic­a» della Bulgaria membro della Ue —, che

riconoscen­do l’albanese come seconda lingua ufficiale dello Stato nord-macedone, dove il 30 per cento della popolazion­e è di lingua albanese, ha dimostrato quell’apertura mentale «europea» che a Ocrida si respirava già nell’893, quando nella meraviglio­sa chiesa-monastero di San Clemente e San Pantaleone, il vescovo Clemente, discepolo di Cirillo e Metodio, fondò una delle più antiche università del mondo slavo e d’Europa.

Ocrida è piena di chiese ortodosse. E anche se non è vero che esse siano 365, una per ogni giorno dell’anno come vorrebbe la leggenda, si può far finta che sia così, tanto sono belle e ricche dei migliori affreschi bizantini dell’XI e XII secolo, come quelli che decorano le chiese di Santa Sofia, Santa Madre di Dio Periblepto­s, San Giovanni Teologo e le altre decine di chiese e monasteri sparsi nel resto del Paese.

L’Unesco ha inserito Ocrida e il suo lago, una meraviglia paesaggist­ica, e la fortezza del X-XI secolo, una delle più imponenti dei Balcani, che fece di Ocrida una roccaforte dell’impero bulgaro, nel Patrimonio dell’umanità fin dal 1979. Ma già l’anno prossimo la città rischia di finire nella lista nera del «patrimonio in pericolo» della stessa Unesco a causa di una generica accusa di speculazio­ne edilizia diffusa. In realtà, grossi in

terventi di speculazio­ne edilizia, a Ocrida, non se ne vedono, salvo un enorme, orribile cubo di cemento in pieno centro adibito a grande magazzino e un albergo, un palazzacci­o di sei piani in riva al lago. Insomma, la lista nera Unesco per Ocrida sarebbe una misura eccessiva, che allontaner­ebbe la Macedonia del Nord dall’Europa e la farebbe scivolare — come gli altri Paesi balcanici in attesa sull’uscio della Ue — verso la Russia e soprattutt­o la Cina, che con i prestiti e i capitali investiti in strade e infrastrut­ture è già qui con un piede e forse anche con tutti e due.

Con il metro di giudizio con cui si vorrebbe punire Ocrida, Skopje, la capitale, dovrebbe essere rasa al suolo, tanto indecente è l’accrocco urbanistic­o e architetto­nico che porta la firma di note archistar, che invece di mitigare l’eredità del brutalismo di stampo sovietico hanno sfogato la loro demenza e gonfiato i loro conti in banca. Persino la casa-museo di Madre Teresa di Calcutta, nata a Skopje, premio Nobel per la Pace nel 1979, è un mostro inguardabi­le di cemento, vetro e acciaio, un guazzabugl­io di forme e di colori da incubo.

Meglio Shuto Orizari, detta Shutka, la «capitale» europea dei Rom, 40 mila abitanti (forse) alle porte di Skopje, l’unico comune in Europa con un sindaco Rom. Qui — dove Emir Kusturica girò il film Il tempo dei gitani e dove ci sono cinque moschee, dato che l’80 per cento dei Rom di Shutka sono diventati più o meno musulmani — non c’è nemmeno un medico generico, i bambini li fa nascere un’infermiera che non è neanche ostetrica e nelle tre scuole pubbliche i ragazzini ci vanno poco, perché aiutano le loro famiglie povere rovistando tra i rifiuti e raccoglien­do plastica (200 bottiglie, 3 euro). Ma almeno le case dei più benestanti hanno l’allegria del kitsch puro e dichiarato e quelle dei più poveri vengono tirate su mattone per mattone con il criterio della necessità. E in ogni caso c’è più vitalità, e i più giovani, come Leon Zekir e sua sorella Silvia, parlano quattro lingue, emigrano, vanno all’estero e studiano, lavorano, si sposano, fanno figli e mandano soldi qui. «Senza essere inseguiti dal pregiudizi­o nei confronti dei Rom — dicono —. Almeno non in Francia. Non a Lione, dove ci siamo stabiliti». E se, come canta Franco Battiato, li chiami «furbi contrabban­dieri macedoni», a loro va bene, perché a Shutka il contrabban­do non esiste, è solo commercio, e i più bravi commercian­o meglio, soprattutt­o quando a Shutka è giorno di mercato e chiunque può trovare e comprare qualunque cosa, «da un ago a una locomotiva».

Certo, succede anche che si vada a rubare del rame quando capita o che ci si arrangi in qualche altro modo. «Ma come si fa quando non si ha niente e anche i lavori più umili non bastano per mangiare o comprarti un paio di scarpe? Non è vero però che siamo un popolo di ladri». Non è una excusatio non petita, è ciò che è successo a Struga, poco distante da Ocrida, dove si è appena conclusa la 54ª edizione del festival internazio­nale di poesia, vinto in passato da Pablo Neruda, Allen Ginsberg, Joseph Brodsky, Eugenio Montale, Edoardo Sanguineti. Ogni anno, una targa con il nome del vincitore viene fissata su un cippo di pietra nel «parco dei poeti», acca nto a l f i ume Dr i m c he a t t r a ve r s a Struga. Quest’anno ha vinto la poetessa romena Ana Blandiana, ma il giorno prima della sua proclamazi­one tutte le targhe, di alcun valore economico, sono state staccate dai cippi. Le hanno rubate, dicono qui. Ma chi? Per farne cosa? Sono stati gli albanesi, dicono i macedoni. Colpa dei macedoni, sostengono i bulgari. Un dispetto dei bulgari, dicono i turchi. L’hanno fatto i turchi, affermano gli albanesi. Nell’incertezza, tutti d’accordo che a rimuovere le targhe del parco dei poeti siano stati — indovinate — i Rom. Niente paura però, la Macedonia del Nord ha solo sette mesi e a quell’età un bambino ancora non cammina e non parla. Se i grandi lo aiutano, non si farà ingannare né da queste né da più gravi fandonie, e non inciamperà.

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