Corriere della Sera - La Lettura
Saul Bellow Il romanziere che viene dal Settecento
Che altro dire di Saul Bellow e del suo proverbiale caratteraccio, se non che bisognerebbe beatificarli entrambi? Una sera di inverno, tardi anni Cinquanta, eccolo presentarsi a una cena da vecchi amici del Village, in stato di grazia, nel suo miglior trench fradicio di nevischio, raggiante, ciarliero e, ammesso che sia possibile, più affascinante del solito. Si dà il caso che il buonumore non abbia niente a che fare con il fausto esito della conferenza tenuta il pomeriggio presso la New School, bensì con ciò che ne è seguito. Avendo incontrato il noto critico che a suo tempo si permise di stroncargli Augie March, Bellow ha pensato bene di affrontarlo. Finché a un certo punto, a corto di argomenti, perdendo le staffe, non ha trovato di meglio che prenderlo a borsate. Da qui il perdurante stato di beatitudine conviviale.
Lo so, non sta bene dilettarsi con certe riprovevoli storielle sulla vita degli scrittori; meglio tenersele per sé, evitando se possibile di trarne una qualche morale draconiana o biblica. Ma proprio non resisto. E mi chiedo (e lo chiedo a voi, colleghi all’ascolto, prendetela pure come una chiamata alle armi): a chi non è capitato di sognare, almeno una volta nella vita, una bella scazzottata o persino un duello all’ultimo sangue con quel critico che ci ha insolentito a mezzo stampa? Chi non ha desiderato ricacciargli in gola gli argomenti pretestuosi con cui ha osato calpestarci? Be’, diciamo che quando c’era da boxare, il vecchio Saul — tra i massimi geni letterari del secolo scorso e tra i più formidabili attaccabrighe della sua generazione — non si tirava indietro.
I critici? Una manica di buffoni
L’odio omicida per i critici lo ha segnato, seguendolo fin dentro la tomba, irrorato di dosi patologiche di paranoia, manie di persecuzione, complessi di superiorità. Evidentemente a rassicurarlo non bastavano nemmeno la gloria letteraria (aveva più medaglie lui che il generale Patton), faraonici contratti editoriali, la venerazione dei colleghi (Berryman, Cheever, Styron, Roth, Amis), la canonizzazione universale e a furor di popolo. Non c’era limite al revanscismo, all’infantile fame di consensi di questo ragazzaccio di Montréal figlio di pugnaci tostissimi immigrati. Dai conoscenti esigeva ipocrisia e adulazione. Dagli amici d’infanzia sviolinate sentimentali. Dallo stuolo di mogli — almeno finché erano in carica — dedizione e indulgenza. Dagli editori blandizie, gratitudine ma soprattutto tanti ma tanti quattrini... Tutti gli altri erano nemici con cui menare le mani. E i critici, occorre dirlo, sembravano esistere al solo scopo di fornirgli un bersaglio polemico adeguato ai suoi accessi di ira delinquenziale. Che fossero asserragliati nelle redazioni giornalistiche, stravaccati sul bancone di una bettola di Hyde Park, appollaiati sugli scranni d’un ateneo della Costa Orientale — a suo dire, tutti irrimediabilmente Wasp e antisemiti — dovevano scordarsi la misericordia di Bellow e prepararsi al trattamento da lui riservato ai seccatori di ogni classe e tribù. Quando era di buon umore si contentava di definirli «buffoni», nei momenti down poteva arrivare a chiamarli «vermi». Una volta si lamentò: «Quando si pubblica un libro si impara che cosa è il giornalismo: un orrore». Del resto, aveva un’idea antagonistica della vita letteraria in genere: «Conosco i giornali e gli scrittori e so che a volte cercano di distruggersi a vicenda». E comunque, che razza di mestiere è il critico letterario? A tempo pieno, per di più? «Io piuttosto preferirei fare il gasista a Chicago» ci scherzava su. In una celebre lettera indirizzata a Philip Roth arrivò ad auspicare che i giornalisti scomparissero dalla faccia della terra «come tafani verso la fine di agosto».
Passivi aggressivi e prepotenti
La mia idea è che tutta questa bile vada presa sul serio e alla lettera. E stavolta non alludo a intemperanze verbali, sbalzi d’umore, scomuniche, borsate in faccia, insomma alla paccottiglia umorale che in retrospettiva rende spassosa e folcloristica la biografia di Bellow. Parlo della violenza assai più feconda che innerva le pagine delle sue maggiori opere narrative (anche le minori, a pensarci bene). La violenza che alcuni dei suoi protagonisti subiscono con stoicismo, ma che altri, invece, esibiscono con tracotanza incontenibile. I personaggi di Bellow si dividono in due categorie: i passivi aggressivi e i prepotenti. (In effetti ce n’è una terza: quella dei piantagrane. Ma questi meriterebbero un articolo a parte). Al primo gruppo appartengono di certo quel tapino di Tommy Wilhelm e il povero, tenero Moses Herzog naturalmente. Il secondo gruppo, più nutrito di quanto non si creda, allinea tra le proprie file giganti iracondi, gradassi e sociopatici come Eugene Henderson, Valentine Gersbach e Von Humboldt Fleisher.
Poi c’è il caso Mr Sammler, il protagonista del sesto romanzo di Bellow: lui esige un discorso a sé.
Benché si presenti sotto le spoglie dimesse di un immigrato polacco ultrasettantenne in balia della New York più sporca e tribale della sua storia, Mr Sammler è un tipo piuttosto riottoso. Prima di affrontare il suo caso, davvero emblematico, lasciate che spenda qualche minuto del vostro prezioso tempo sul periodo in cui Bellow scrive questo romanzo.
Incubo ebraico e sogno americano
Il pianeta di Mr Sammler esce nel 1970, sei anni dopo la trionfale pubblicazione di Herzog che ha dato a Bellow appena cinquantenne la gloria e la prosperità inseguite per una vita. Non si capisce questo sommo scrittore americano se non si tiene conto dell’importanza che il successo, nelle sue mille implicazioni (finanziarie, erotiche, simboliche), ricopre per lui e per i suoi personaggi. Non c’è volta in cui Bellow non faccia un’allusione — non sempre risentita, talvolta persino nostalgica — agli anni dell’infanzia chicaghese antecedenti al New Deal roosveltiano. Adora rivendicare il suo status di figlio della Depressione. È lì, in quel contesto di squallore e indigenza diffusa, che ha appreso l’arte di arrangiarsi.
Ed è lì che ha maturato la sua brama di riscatto. C’è qualcosa di ingenuo e filisteo, quasi balzacchiano, nella sua ansia di arrivare. Una corsa all’oro che probabilmente due signorini perbene come Flaubert e Proust avrebbero giudicato con severità, ma che Bellow considera parte della sua missione di artista. Ne La resa dei conti, riflettendo sull’odioso cugino che nel frattempo si è affermato nella professione medica, Tommy è costretto ad ammettere: «Il successo lo aveva cambiato. Forse era migliorato, adesso che aveva un posto nel mondo».
Certe volte mi chiedo se il nostro amore per la letteratura americana, noi che americani non siamo, non dipenda anche da questa faccenda della competizione: dopotutto la voglia di vincere, di essere il migliore, di riscattarsi, anche e soprattutto a scapito degli altri, costituisce lo sfondo emotivo di qualsiasi grande romanzo borghese. Ecco perché gli americani ci sanno fare con i romanzi, e perché Bellow rappresenta un caso da scuola. La sua smania di farcela mescola, in modo doloroso e struggente, il revanscismo dell’ebreo discriminato al terrore del fallimento di stampo puritano.
Negli anni della giovinezza, mentre i suoi fratelli si arricchiscono speculando, Saul scrive una manciata di romanzi che cambiano il volto della letteratura americana, ma non lo stato delle sue finanze. Il guaio è che anche lui aspira a diventare un pezzo grosso. Perché non dovrebbe? Se sei il figlio di un ebreo russo fuggito per il rotto della cuffia dall’altra parte del mondo, non hai altri desideri che scrollarti di dosso tutta quella sfiga ancestrale e raggiungere un benessere imperituro nel Grande Paese delle Opportunità. Si sa, da un punto di vista artistico, pochi incontri, nella storia dell’umanità, sono stati altrettanto fecondi come quello tra incubo ebraico e sogno americano. Eppoi eccolo qui il successo, proprio quando avevi smesso di inseguirlo e di crederci, ottenuto con il meno accessibile dei libri, il più intimista e frammentario. Molti anni dopo, in Ravelstein, il suo ultimo romanzo, riflettendo sul successo del protagonista, Bellow scriverà: «Non è cosa da poco diventare ricchi e famosi dicendo esattamente quello che si pensa: e dicendolo con le proprie parole, senza compromessi». Vien da chiedersi se non avesse in mente anche il suo, di successo. Fare tanti quattrini scrivendo Herzog è come rimorchiare la ragazza più bella della festa suonando una mazurca con il trombone.
Ancora oggi appare increscioso che un romanzo così rapsodico, caustico, erudito, vagamente misogino e così sfacciatamente privo di trama possa avere scalato le classifiche librarie di tutto il mondo. Di mezzo ci sono gli anni Sessanta, certo, un decennio in cui la gente aveva la pazienza di farsi piacere le cose difficili. Ma temo che stavolta neppure il vecchio caro Zeitgeist possa spie
In effetti, a guardarli bene, i suoi libri vantano più debiti con la narrativa settecentesca che con quella realista a cui vorrebbero ispirarsi. Lui, proprio come quei geniali pazzoidi precursori, concepisce il romanzo come una performance clownesca. Gli piace fare il saccente, lo spiritoso, il saltimbanco. Apre parentesi e divaga come Henry Fielding e Laurence Sterne; dà conto di improbabili viaggi picareschi come Daniel Defoe; moraleggia e satireggia alla maniera di Jonathan Swift; ha un gusto del malaffare e del libertinaggio che non ha nulla da invidiare ad Antoine François Prévost e a PierreAmbroise-François Choderlos de Laclos. La verità è che Bellow quando scrive non ha paura di niente
gare un simile prodigio editoriale. Forse la crisi di mezza età, la solitudine, il risentimento, il sentimentalismo in cui annaspa e si dibatte Moses Herzog, per non dire della smodata volontà di esprimersi, spiegarsi, fare il punto, scatenò l’identificazione di falangi di maschi traditi e sull’orlo di un collasso emotivo. Bellow stesso, parlando del successo della sua strampalata creatura, ebbe a dire: «È un libro che piace ai lettori ebrei, ai divorziati, a quelli che parlano da soli, agli studenti universitari, agli assidui dei tascabili, agli autodidatti, a coloro che nonostante tutto sperano di vivere ancora un po’...».
Insomma, per una ragione o per l’altra, Saul ce l’ha fatta. È in cima al mondo. Può finalmente rilassarsi, tirare un sospiro di sollievo e persino spassarsela. Macché. Niente da fare. È allora che la sua insoddisfazione si sposta dal piano individuale a quello storico. In pochi anni il mondo è cambiato in modo radicale: ora è dominato da giovani scalmanati con tutto quel che ne consegue: irriverenza, protesta, anarchia, settarismo, faziosità, collera, sballo... Saul si sente fuori posto e, per così dire, scavalcato a sinistra. Se non altro, in tutto questo sfacelo, trova una nuova buona ragione per detestare Sartre: quel maledetto mandarino d’un normalien che invece di andare in pensione sfila affianco di questa gioventù rabbiosa, strafottente e illetterata. Bellow no, lui non ci sta. Non sopporta nemmeno la piega presa dalla cultura accademica: il femminismo e il multiculturalismo spopolano nei dipartimenti di letteratura a scapito del Cano
ne. È questo ilm omento della vita in cui Bellow costruisce la sua fama dine o-conservatore. D’ ora in pois i buscherà sempre più spesso accuse di misoginia, razzismo, sessuofobia, omofobia (non sempre a torto). Per quel che lo riguarda, lui è rimasto lo stesso, è il pianeta ad aver cambiato verso.
Il pianeta di Mr Sammler
E parliamo dello stesso pianeta che ossessiona il povero Sammler (non a caso specialista dell’opera di H. G. Wells, uno che di corpi celesti se ne intendeva eccome). Il guaio è che Sammler si era illuso che la Terra, il suo pianeta, avesse dato il peggio di sé nei remoti decenni della sua giovinezza: persecuzione nazista, omicidio dei suoi cari, emigrazione, guerra dei Sei giorni. Si era illuso che New York, e più in generale i benigni prosperi Stati Uniti, gli avrebbero garantito la pace che credeva di meritare. E invece... Guardandosi intorno, non fa che vedere sporcizia, insensatezza, degrado. «New York stava diventando peggio di Napoli e di Salonicco. Era come una città asiatica, o africana, sotto quel profilo. E neppure i quartieri opulenti della città ne erano immuni. Aprivi una porta tutta intarsiata e ti trovavi nella degradazione, da un ipercivilizzato lusso bizantino dritti dritti allo stato brado, con il mondo barbaro del colore che eruttava dal basso». Sammler è sotto assedio, angustiato com’è dal sospetto che il «mondo occidentale» sia stato «travolto da una follia sessuale» e che tale follia stia per sommergerlo.
Tipo la volta in cui, invitato a tenere una conferenza alla Columbia University, viene contestato da un pazzo scalmanato che dalla platea comincia a sbraitare: «Perché state a sentire questo vecchio sacco di merda effeminato? Cha cosa ha da dirvi, lui? Ormai ha le palle secche, questo qui. È morto. Non ce la fa più a venire». E a proposito di intimidazioni, Sammler ne ha subita una particolarmente scabrosa da parte di un borsaiolo nero: il quale, prima lo ha sbattuto al muro, poi, ansioso di infierire, con fare trivialmente minatorio, gli ha mostrato il pene.
Ancora una volta l’eroina segreta della narrativa bellowiana è la brutalità, in tutte le sue forme: ambientali, intellettuali, sessuali.
Qualche riga fa ho detto che, almeno in questo, Sammler rappresenta un’eccezione rispetto ad altri passivi eroi bellowiani. Lo ribadisco. Una volta, almeno una — forse la volta più importante della sua vita — Sammler
La verità è che il vecchio Saul — genio letterario e formidabile attaccabrighe — quando c’era da boxare con qualcuno non si tirava di certo indietro
non solo è riuscito a ribellarsi ma nel farlo ha dato prova di una ferocia terrificante.
Un luminoso giorno di morte
C’è un ricordo che continua a ossessionarlo. Riguarda gli ultimi anni in Polonia quando Sammler, braccato dai nazisti, ha cercato scampo in una foresta gelida, infestata di nemici, avara di viveri. Si è salvato superando prove e traversie disumane. Acciuffato e messo al muro è stato gettato in una fossa comune dalla quale, neanche lui sa come, è uscito indenne, protetto dai cadaveri caldi dei suoi più sfortunati compagni di sventura. La sorte ha voluto che poche ore dopo lui sia riuscito a disarmare uno degli aguzzini. Eccoli là, al dunque, uno di fronte all’altro, Sammler e il suo mancato assassino. Il ragazzotto rubizzo dallo sguardo opaco e ottuso chiede pietà: ha una moglie e un figlio. Non vuole morire. Sammler senza indugio gli spara due colpi. A distanza di tanti anni, gli capita spesso di tornarci su col pensiero. Lo fa senza provare alcun rimorso dostoevskiano; anzi, più ci pensa più avverte la formidabile ineluttabilità di quel gesto. «Mr Sammler poteva anche aggiungere, alla saggezza di base, che uccidere l’uomo cui aveva teso un’imboscata nella neve gli aveva fatto piacere. Si trattava di piacere soltanto? Era di più. Era gioia. La chiamereste un’azione tenebrosa? Al contrario, era un’azione luminosa. Quando sparò il colpo di fucile, Sammler, lui stesso quasi cadavere, scoppiò di vita. Congelato com’era, nella Foresta di Zamósc, aveva spesso sognato di starsene vicino al fuoco. Ebbene, qui si trattava di qualcosa di più sontuoso del fuoco. Il suo cuore si sentì rivestito di raso scintillante, voluttuoso. Uccidere l’uomo e ucciderlo senza pietà, poiché lui era dispensato dalla pietà. Ci fu un bagliore, una macchia di bianco infuocato. Quando sparò di nuovo non fu tanto per assicurarsi che l’uomo fosse morto, quanto per provare ancora una volta quella beatitudine. Per bere altre fiamme. Avrebbe ringraziato Iddio per quell’opportunità. Se avesse avuto un Dio. A quel tempo non lo aveva. Per molti anni, nella sua mente, non c’era altro giudice che sé stesso».
Non so mica se le poche righe appena trascritte nascondano una qualche morale profonda e apocalittica (assai preziosa per i tempi che corrono): che so, è sempre giusto uccidere un nazista, altrimenti prima o poi ci penserà lui a toglierti di mezzo. Non sta a me giudicare. Quello che so è che si tratta di una delle vette della narrativa bellowiana, un apice di intensità raggiunto nel pieno dell’entusiasmante decennio che va da Herzog alla pubblicazione del Dono di Humboldt, zenit di una delle carriere artistiche più esemplari del XX secolo.
Alle origini del romanzo
Solo violenza e revanscismo, quindi? Solo rabbia e rivendicazione? Tutt’altro. Chi li ama sa che dai romanzi di Bellow è lecito aspettarsi molto ma molto di più. La furia è solo un ribollente substrato. Poi c’è il resto: guizzi comici, battute degne di Groucho Marx, divagazioni erudite e sapienziali, personaggi bizzarri e cialtroneschi, femmes fatales (nel senso se non le tieni a bada ti accoppano), vitalismo, disturbi maniaco-depressivi, gli ultimi fuochi dell’edonismo fitzgeraldiano, il soffocante pensiero della fine che affligge i suoi narratori. Per tenere assieme tutta questa mercanzia Bellow ha inventato una lingua capace di sporcare il suo forbitissimo inglese con inflessioni slang, contaminazioni yiddish, gerghi malavitosi. Un idioma vivo, bulimico, truculento, ammiccante, a tratti persino sboccato. Che strana esperienza di lettura! In controluce, sulle pagine fitte e variopinte, intravedi la sindone dell’ovale perfetto di Saul, gli occhi voluttuosi, le rughe profonde, il sorriso smagliante. Solo Nabokov, tra gli scrittori americani, ha una voce così inconfondibile. Bisogna dire che non sempre questa voce si adatta alle esigenze del romanziere. Anzi, talvolta appare talmente vibrante e stentorea da minacciare il resto: trama, struttura, plausibilità, personaggi. In Geru
salemme: andata e ritorno, in un accesso di auto-consapevolezza, scrive: «Forse Jung aveva ragione a dire che la psiche di ognuno di noi affonda le radici in epoche remote. Io penso talvolta che il mio senso del comico è più vicino al 1776 che al 1876».
È una constatazione dal valore inestimabile. In effetti, a guardarli bene, i romanzi di Bellow vantano più debiti con la narrativa settecentesca che con quella realista a cui vorrebbero ispirarsi. Lui, proprio come quei geniali pazzoidi precursori, concepisce il romanzo come una performance clownesca. Gli piace fare il saccente, lo spiritoso, il saltimbanco, il crooner. Prospera nel disordine, dà il meglio di sé nell’improvvisazione. Apre parentesi e divaga come Fielding e Sterne. Dà conto di improbabili viaggi picareschi come neanche Defoe. Moraleggia e satireggia alla maniera di Swift. Ha un gusto del malaffare e del libertinaggio che non ha niente da invidiare a Prévost e de Laclos. Inoltre, fedele al celebre adagio di Diderot, è uno dei pochi scrittori della sua generazione capace di trattare i suoi pensieri come puttane. La verità è che Bellow quando scrive non ha paura di niente. Sono pochi i narratori (ancora una volta penso a Nabokov) che prestino una fede altrettanto cieca nel proprio fascino personale e nella genuinità del proprio genio artistico. Ecco perché vive le critiche come lesa maestà. E bisognerà pure sforzarsi di capirlo. Pubblica romanzi ogni cinque o sei anni. Sgobba parecchio per portarli a quel grado d’intensità (insostenibile per noi, figurarsi per lui). È davvero troppo chiedere che gli altri se ne accorgano e si limitino a sommergerlo di elogi?