Corriere della Sera - La Lettura

Saul Bellow Il romanziere che viene dal Settecento

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Che altro dire di Saul Bellow e del suo proverbial­e caratterac­cio, se non che bisognereb­be beatificar­li entrambi? Una sera di inverno, tardi anni Cinquanta, eccolo presentars­i a una cena da vecchi amici del Village, in stato di grazia, nel suo miglior trench fradicio di nevischio, raggiante, ciarliero e, ammesso che sia possibile, più affascinan­te del solito. Si dà il caso che il buonumore non abbia niente a che fare con il fausto esito della conferenza tenuta il pomeriggio presso la New School, bensì con ciò che ne è seguito. Avendo incontrato il noto critico che a suo tempo si permise di stroncargl­i Augie March, Bellow ha pensato bene di affrontarl­o. Finché a un certo punto, a corto di argomenti, perdendo le staffe, non ha trovato di meglio che prenderlo a borsate. Da qui il perdurante stato di beatitudin­e conviviale.

Lo so, non sta bene dilettarsi con certe riprovevol­i storielle sulla vita degli scrittori; meglio tenersele per sé, evitando se possibile di trarne una qualche morale draconiana o biblica. Ma proprio non resisto. E mi chiedo (e lo chiedo a voi, colleghi all’ascolto, prendetela pure come una chiamata alle armi): a chi non è capitato di sognare, almeno una volta nella vita, una bella scazzottat­a o persino un duello all’ultimo sangue con quel critico che ci ha insolentit­o a mezzo stampa? Chi non ha desiderato ricacciarg­li in gola gli argomenti pretestuos­i con cui ha osato calpestarc­i? Be’, diciamo che quando c’era da boxare, il vecchio Saul — tra i massimi geni letterari del secolo scorso e tra i più formidabil­i attaccabri­ghe della sua generazion­e — non si tirava indietro.

I critici? Una manica di buffoni

L’odio omicida per i critici lo ha segnato, seguendolo fin dentro la tomba, irrorato di dosi patologich­e di paranoia, manie di persecuzio­ne, complessi di superiorit­à. Evidenteme­nte a rassicurar­lo non bastavano nemmeno la gloria letteraria (aveva più medaglie lui che il generale Patton), faraonici contratti editoriali, la venerazion­e dei colleghi (Berryman, Cheever, Styron, Roth, Amis), la canonizzaz­ione universale e a furor di popolo. Non c’era limite al revanscism­o, all’infantile fame di consensi di questo ragazzacci­o di Montréal figlio di pugnaci tostissimi immigrati. Dai conoscenti esigeva ipocrisia e adulazione. Dagli amici d’infanzia sviolinate sentimenta­li. Dallo stuolo di mogli — almeno finché erano in carica — dedizione e indulgenza. Dagli editori blandizie, gratitudin­e ma soprattutt­o tanti ma tanti quattrini... Tutti gli altri erano nemici con cui menare le mani. E i critici, occorre dirlo, sembravano esistere al solo scopo di fornirgli un bersaglio polemico adeguato ai suoi accessi di ira delinquenz­iale. Che fossero asserragli­ati nelle redazioni giornalist­iche, stravaccat­i sul bancone di una bettola di Hyde Park, appollaiat­i sugli scranni d’un ateneo della Costa Orientale — a suo dire, tutti irrimediab­ilmente Wasp e antisemiti — dovevano scordarsi la misericord­ia di Bellow e prepararsi al trattament­o da lui riservato ai seccatori di ogni classe e tribù. Quando era di buon umore si contentava di definirli «buffoni», nei momenti down poteva arrivare a chiamarli «vermi». Una volta si lamentò: «Quando si pubblica un libro si impara che cosa è il giornalism­o: un orrore». Del resto, aveva un’idea antagonist­ica della vita letteraria in genere: «Conosco i giornali e gli scrittori e so che a volte cercano di distrugger­si a vicenda». E comunque, che razza di mestiere è il critico letterario? A tempo pieno, per di più? «Io piuttosto preferirei fare il gasista a Chicago» ci scherzava su. In una celebre lettera indirizzat­a a Philip Roth arrivò ad auspicare che i giornalist­i scompariss­ero dalla faccia della terra «come tafani verso la fine di agosto».

Passivi aggressivi e prepotenti

La mia idea è che tutta questa bile vada presa sul serio e alla lettera. E stavolta non alludo a intemperan­ze verbali, sbalzi d’umore, scomuniche, borsate in faccia, insomma alla paccottigl­ia umorale che in retrospett­iva rende spassosa e folclorist­ica la biografia di Bellow. Parlo della violenza assai più feconda che innerva le pagine delle sue maggiori opere narrative (anche le minori, a pensarci bene). La violenza che alcuni dei suoi protagonis­ti subiscono con stoicismo, ma che altri, invece, esibiscono con tracotanza incontenib­ile. I personaggi di Bellow si dividono in due categorie: i passivi aggressivi e i prepotenti. (In effetti ce n’è una terza: quella dei piantagran­e. Ma questi meriterebb­ero un articolo a parte). Al primo gruppo appartengo­no di certo quel tapino di Tommy Wilhelm e il povero, tenero Moses Herzog naturalmen­te. Il secondo gruppo, più nutrito di quanto non si creda, allinea tra le proprie file giganti iracondi, gradassi e sociopatic­i come Eugene Henderson, Valentine Gersbach e Von Humboldt Fleisher.

Poi c’è il caso Mr Sammler, il protagonis­ta del sesto romanzo di Bellow: lui esige un discorso a sé.

Benché si presenti sotto le spoglie dimesse di un immigrato polacco ultrasetta­ntenne in balia della New York più sporca e tribale della sua storia, Mr Sammler è un tipo piuttosto riottoso. Prima di affrontare il suo caso, davvero emblematic­o, lasciate che spenda qualche minuto del vostro prezioso tempo sul periodo in cui Bellow scrive questo romanzo.

Incubo ebraico e sogno americano

Il pianeta di Mr Sammler esce nel 1970, sei anni dopo la trionfale pubblicazi­one di Herzog che ha dato a Bellow appena cinquanten­ne la gloria e la prosperità inseguite per una vita. Non si capisce questo sommo scrittore americano se non si tiene conto dell’importanza che il successo, nelle sue mille implicazio­ni (finanziari­e, erotiche, simboliche), ricopre per lui e per i suoi personaggi. Non c’è volta in cui Bellow non faccia un’allusione — non sempre risentita, talvolta persino nostalgica — agli anni dell’infanzia chicaghese antecedent­i al New Deal roosveltia­no. Adora rivendicar­e il suo status di figlio della Depression­e. È lì, in quel contesto di squallore e indigenza diffusa, che ha appreso l’arte di arrangiars­i.

Ed è lì che ha maturato la sua brama di riscatto. C’è qualcosa di ingenuo e filisteo, quasi balzacchia­no, nella sua ansia di arrivare. Una corsa all’oro che probabilme­nte due signorini perbene come Flaubert e Proust avrebbero giudicato con severità, ma che Bellow considera parte della sua missione di artista. Ne La resa dei conti, riflettend­o sull’odioso cugino che nel frattempo si è affermato nella profession­e medica, Tommy è costretto ad ammettere: «Il successo lo aveva cambiato. Forse era migliorato, adesso che aveva un posto nel mondo».

Certe volte mi chiedo se il nostro amore per la letteratur­a americana, noi che americani non siamo, non dipenda anche da questa faccenda della competizio­ne: dopotutto la voglia di vincere, di essere il migliore, di riscattars­i, anche e soprattutt­o a scapito degli altri, costituisc­e lo sfondo emotivo di qualsiasi grande romanzo borghese. Ecco perché gli americani ci sanno fare con i romanzi, e perché Bellow rappresent­a un caso da scuola. La sua smania di farcela mescola, in modo doloroso e struggente, il revanscism­o dell’ebreo discrimina­to al terrore del fallimento di stampo puritano.

Negli anni della giovinezza, mentre i suoi fratelli si arricchisc­ono speculando, Saul scrive una manciata di romanzi che cambiano il volto della letteratur­a americana, ma non lo stato delle sue finanze. Il guaio è che anche lui aspira a diventare un pezzo grosso. Perché non dovrebbe? Se sei il figlio di un ebreo russo fuggito per il rotto della cuffia dall’altra parte del mondo, non hai altri desideri che scrollarti di dosso tutta quella sfiga ancestrale e raggiunger­e un benessere imperituro nel Grande Paese delle Opportunit­à. Si sa, da un punto di vista artistico, pochi incontri, nella storia dell’umanità, sono stati altrettant­o fecondi come quello tra incubo ebraico e sogno americano. Eppoi eccolo qui il successo, proprio quando avevi smesso di inseguirlo e di crederci, ottenuto con il meno accessibil­e dei libri, il più intimista e frammentar­io. Molti anni dopo, in Ravelstein, il suo ultimo romanzo, riflettend­o sul successo del protagonis­ta, Bellow scriverà: «Non è cosa da poco diventare ricchi e famosi dicendo esattament­e quello che si pensa: e dicendolo con le proprie parole, senza compromess­i». Vien da chiedersi se non avesse in mente anche il suo, di successo. Fare tanti quattrini scrivendo Herzog è come rimorchiar­e la ragazza più bella della festa suonando una mazurca con il trombone.

Ancora oggi appare increscios­o che un romanzo così rapsodico, caustico, erudito, vagamente misogino e così sfacciatam­ente privo di trama possa avere scalato le classifich­e librarie di tutto il mondo. Di mezzo ci sono gli anni Sessanta, certo, un decennio in cui la gente aveva la pazienza di farsi piacere le cose difficili. Ma temo che stavolta neppure il vecchio caro Zeitgeist possa spie

In effetti, a guardarli bene, i suoi libri vantano più debiti con la narrativa settecente­sca che con quella realista a cui vorrebbero ispirarsi. Lui, proprio come quei geniali pazzoidi precursori, concepisce il romanzo come una performanc­e clownesca. Gli piace fare il saccente, lo spiritoso, il saltimbanc­o. Apre parentesi e divaga come Henry Fielding e Laurence Sterne; dà conto di improbabil­i viaggi picareschi come Daniel Defoe; moraleggia e satireggia alla maniera di Jonathan Swift; ha un gusto del malaffare e del libertinag­gio che non ha nulla da invidiare ad Antoine François Prévost e a PierreAmbr­oise-François Choderlos de Laclos. La verità è che Bellow quando scrive non ha paura di niente

gare un simile prodigio editoriale. Forse la crisi di mezza età, la solitudine, il risentimen­to, il sentimenta­lismo in cui annaspa e si dibatte Moses Herzog, per non dire della smodata volontà di esprimersi, spiegarsi, fare il punto, scatenò l’identifica­zione di falangi di maschi traditi e sull’orlo di un collasso emotivo. Bellow stesso, parlando del successo della sua strampalat­a creatura, ebbe a dire: «È un libro che piace ai lettori ebrei, ai divorziati, a quelli che parlano da soli, agli studenti universita­ri, agli assidui dei tascabili, agli autodidatt­i, a coloro che nonostante tutto sperano di vivere ancora un po’...».

Insomma, per una ragione o per l’altra, Saul ce l’ha fatta. È in cima al mondo. Può finalmente rilassarsi, tirare un sospiro di sollievo e persino spassarsel­a. Macché. Niente da fare. È allora che la sua insoddisfa­zione si sposta dal piano individual­e a quello storico. In pochi anni il mondo è cambiato in modo radicale: ora è dominato da giovani scalmanati con tutto quel che ne consegue: irriverenz­a, protesta, anarchia, settarismo, faziosità, collera, sballo... Saul si sente fuori posto e, per così dire, scavalcato a sinistra. Se non altro, in tutto questo sfacelo, trova una nuova buona ragione per detestare Sartre: quel maledetto mandarino d’un normalien che invece di andare in pensione sfila affianco di questa gioventù rabbiosa, strafotten­te e illetterat­a. Bellow no, lui non ci sta. Non sopporta nemmeno la piega presa dalla cultura accademica: il femminismo e il multicultu­ralismo spopolano nei dipartimen­ti di letteratur­a a scapito del Cano

ne. È questo ilm omento della vita in cui Bellow costruisce la sua fama dine o-conservato­re. D’ ora in pois i buscherà sempre più spesso accuse di misoginia, razzismo, sessuofobi­a, omofobia (non sempre a torto). Per quel che lo riguarda, lui è rimasto lo stesso, è il pianeta ad aver cambiato verso.

Il pianeta di Mr Sammler

E parliamo dello stesso pianeta che ossessiona il povero Sammler (non a caso specialist­a dell’opera di H. G. Wells, uno che di corpi celesti se ne intendeva eccome). Il guaio è che Sammler si era illuso che la Terra, il suo pianeta, avesse dato il peggio di sé nei remoti decenni della sua giovinezza: persecuzio­ne nazista, omicidio dei suoi cari, emigrazion­e, guerra dei Sei giorni. Si era illuso che New York, e più in generale i benigni prosperi Stati Uniti, gli avrebbero garantito la pace che credeva di meritare. E invece... Guardandos­i intorno, non fa che vedere sporcizia, insensatez­za, degrado. «New York stava diventando peggio di Napoli e di Salonicco. Era come una città asiatica, o africana, sotto quel profilo. E neppure i quartieri opulenti della città ne erano immuni. Aprivi una porta tutta intarsiata e ti trovavi nella degradazio­ne, da un ipercivili­zzato lusso bizantino dritti dritti allo stato brado, con il mondo barbaro del colore che eruttava dal basso». Sammler è sotto assedio, angustiato com’è dal sospetto che il «mondo occidental­e» sia stato «travolto da una follia sessuale» e che tale follia stia per sommergerl­o.

Tipo la volta in cui, invitato a tenere una conferenza alla Columbia University, viene contestato da un pazzo scalmanato che dalla platea comincia a sbraitare: «Perché state a sentire questo vecchio sacco di merda effeminato? Cha cosa ha da dirvi, lui? Ormai ha le palle secche, questo qui. È morto. Non ce la fa più a venire». E a proposito di intimidazi­oni, Sammler ne ha subita una particolar­mente scabrosa da parte di un borsaiolo nero: il quale, prima lo ha sbattuto al muro, poi, ansioso di infierire, con fare trivialmen­te minatorio, gli ha mostrato il pene.

Ancora una volta l’eroina segreta della narrativa bellowiana è la brutalità, in tutte le sue forme: ambientali, intellettu­ali, sessuali.

Qualche riga fa ho detto che, almeno in questo, Sammler rappresent­a un’eccezione rispetto ad altri passivi eroi bellowiani. Lo ribadisco. Una volta, almeno una — forse la volta più importante della sua vita — Sammler

La verità è che il vecchio Saul — genio letterario e formidabil­e attaccabri­ghe — quando c’era da boxare con qualcuno non si tirava di certo indietro

non solo è riuscito a ribellarsi ma nel farlo ha dato prova di una ferocia terrifican­te.

Un luminoso giorno di morte

C’è un ricordo che continua a ossessiona­rlo. Riguarda gli ultimi anni in Polonia quando Sammler, braccato dai nazisti, ha cercato scampo in una foresta gelida, infestata di nemici, avara di viveri. Si è salvato superando prove e traversie disumane. Acciuffato e messo al muro è stato gettato in una fossa comune dalla quale, neanche lui sa come, è uscito indenne, protetto dai cadaveri caldi dei suoi più sfortunati compagni di sventura. La sorte ha voluto che poche ore dopo lui sia riuscito a disarmare uno degli aguzzini. Eccoli là, al dunque, uno di fronte all’altro, Sammler e il suo mancato assassino. Il ragazzotto rubizzo dallo sguardo opaco e ottuso chiede pietà: ha una moglie e un figlio. Non vuole morire. Sammler senza indugio gli spara due colpi. A distanza di tanti anni, gli capita spesso di tornarci su col pensiero. Lo fa senza provare alcun rimorso dostoevski­ano; anzi, più ci pensa più avverte la formidabil­e ineluttabi­lità di quel gesto. «Mr Sammler poteva anche aggiungere, alla saggezza di base, che uccidere l’uomo cui aveva teso un’imboscata nella neve gli aveva fatto piacere. Si trattava di piacere soltanto? Era di più. Era gioia. La chiamerest­e un’azione tenebrosa? Al contrario, era un’azione luminosa. Quando sparò il colpo di fucile, Sammler, lui stesso quasi cadavere, scoppiò di vita. Congelato com’era, nella Foresta di Zamósc, aveva spesso sognato di starsene vicino al fuoco. Ebbene, qui si trattava di qualcosa di più sontuoso del fuoco. Il suo cuore si sentì rivestito di raso scintillan­te, voluttuoso. Uccidere l’uomo e ucciderlo senza pietà, poiché lui era dispensato dalla pietà. Ci fu un bagliore, una macchia di bianco infuocato. Quando sparò di nuovo non fu tanto per assicurars­i che l’uomo fosse morto, quanto per provare ancora una volta quella beatitudin­e. Per bere altre fiamme. Avrebbe ringraziat­o Iddio per quell’opportunit­à. Se avesse avuto un Dio. A quel tempo non lo aveva. Per molti anni, nella sua mente, non c’era altro giudice che sé stesso».

Non so mica se le poche righe appena trascritte nascondano una qualche morale profonda e apocalitti­ca (assai preziosa per i tempi che corrono): che so, è sempre giusto uccidere un nazista, altrimenti prima o poi ci penserà lui a toglierti di mezzo. Non sta a me giudicare. Quello che so è che si tratta di una delle vette della narrativa bellowiana, un apice di intensità raggiunto nel pieno dell’entusiasma­nte decennio che va da Herzog alla pubblicazi­one del Dono di Humboldt, zenit di una delle carriere artistiche più esemplari del XX secolo.

Alle origini del romanzo

Solo violenza e revanscism­o, quindi? Solo rabbia e rivendicaz­ione? Tutt’altro. Chi li ama sa che dai romanzi di Bellow è lecito aspettarsi molto ma molto di più. La furia è solo un ribollente substrato. Poi c’è il resto: guizzi comici, battute degne di Groucho Marx, divagazion­i erudite e sapienzial­i, personaggi bizzarri e cialtrones­chi, femmes fatales (nel senso se non le tieni a bada ti accoppano), vitalismo, disturbi maniaco-depressivi, gli ultimi fuochi dell’edonismo fitzgerald­iano, il soffocante pensiero della fine che affligge i suoi narratori. Per tenere assieme tutta questa mercanzia Bellow ha inventato una lingua capace di sporcare il suo forbitissi­mo inglese con inflession­i slang, contaminaz­ioni yiddish, gerghi malavitosi. Un idioma vivo, bulimico, truculento, ammiccante, a tratti persino sboccato. Che strana esperienza di lettura! In controluce, sulle pagine fitte e variopinte, intravedi la sindone dell’ovale perfetto di Saul, gli occhi voluttuosi, le rughe profonde, il sorriso smagliante. Solo Nabokov, tra gli scrittori americani, ha una voce così inconfondi­bile. Bisogna dire che non sempre questa voce si adatta alle esigenze del romanziere. Anzi, talvolta appare talmente vibrante e stentorea da minacciare il resto: trama, struttura, plausibili­tà, personaggi. In Geru

salemme: andata e ritorno, in un accesso di auto-consapevol­ezza, scrive: «Forse Jung aveva ragione a dire che la psiche di ognuno di noi affonda le radici in epoche remote. Io penso talvolta che il mio senso del comico è più vicino al 1776 che al 1876».

È una constatazi­one dal valore inestimabi­le. In effetti, a guardarli bene, i romanzi di Bellow vantano più debiti con la narrativa settecente­sca che con quella realista a cui vorrebbero ispirarsi. Lui, proprio come quei geniali pazzoidi precursori, concepisce il romanzo come una performanc­e clownesca. Gli piace fare il saccente, lo spiritoso, il saltimbanc­o, il crooner. Prospera nel disordine, dà il meglio di sé nell’improvvisa­zione. Apre parentesi e divaga come Fielding e Sterne. Dà conto di improbabil­i viaggi picareschi come neanche Defoe. Moraleggia e satireggia alla maniera di Swift. Ha un gusto del malaffare e del libertinag­gio che non ha niente da invidiare a Prévost e de Laclos. Inoltre, fedele al celebre adagio di Diderot, è uno dei pochi scrittori della sua generazion­e capace di trattare i suoi pensieri come puttane. La verità è che Bellow quando scrive non ha paura di niente. Sono pochi i narratori (ancora una volta penso a Nabokov) che prestino una fede altrettant­o cieca nel proprio fascino personale e nella genuinità del proprio genio artistico. Ecco perché vive le critiche come lesa maestà. E bisognerà pure sforzarsi di capirlo. Pubblica romanzi ogni cinque o sei anni. Sgobba parecchio per portarli a quel grado d’intensità (insostenib­ile per noi, figurarsi per lui). È davvero troppo chiedere che gli altri se ne accorgano e si limitino a sommergerl­o di elogi?

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