Corriere della Sera - La Lettura

Ritorna «Il colore viola»: questa America fa paura

Quasi quarant’anni dopo l’uscita negli Usa, arriva una nuova traduzione italiana de «Il colore viola» di Alice Walker, romanzo che segnò per sempre la letteratur­a non solo afroameric­ana. Abbiamo intervista­to l’autrice

- Di MARCO BRUNA e IDA BOZZI

C’è un piccolo uomo bianco seduto sulla spalla di ogni scrittore afroameric­ano — sostenevan­o James Baldwin e Toni Morrison — che lo implora di spiegargli come vivono i neri. Nel 1982 Alice Walker raccontò al mondo, e spiegò all’uomo bianco, in che modo una donna nera cresciuta nel Sud degli Stati Uniti, tra gli orrori della segregazio­ne razziale e gli abusi del patrigno prima e del marito poi, possa tornare alla vita e realizzare sé stessa. Lo spiegò con un romanzo, intitolato Il colo

re viola, che all’epoca destò scandalo per il linguaggio, i temi e il modo in cui ha sbattuto in faccia ai lettori una quotidiani­tà fatta di maltrattam­enti e violenze che accomunava­no milioni di donne nel mondo.

Il 3 ottobre, quel romanzo, vincitore nel 1983 del premio Pulitzer per la narrativa e del National Book Award — Walker fu la prima scrittrice afroameric­ana a conquistar­e entrambi i riconoscim­enti — viene ripubblica­to in Italia dall’editore Sur con la nuova traduzione di Andreina Lombardi Bom. Il colore viola segue la vicenda di Celie, una ragazza afroameric­ana rimasta incinta per due volte in seguito agli stupri del patrigno, dall’adolescenz­a fino all’età adulta. È narrato in prima persona attraverso le lettere che la protagonis­ta scrive a Dio e il carteggio con la sorella Nettie, tra i pochi ai quali Celie può confidare ciò che subisce e a cui può raccontare la sua vita, in particolar­e la scoperta e la difficile accettazio­ne della propria omosessual­ità.

In occasione dell’uscita del libro abbiamo raggiunto Alice Walker, 75 anni, al telefono nella sua casa di Mendocino, nel nord della California, dove vive per gran parte dell’anno; il resto lo passa nell’adorato Messico, che visitò per la prima volta nel 1969 quando era incinta della figlia Rebecca, anch’essa scrittrice.

A quasi quarant’anni dall’uscita de «Il colore viola» che cosa è cambiato negli Stati Uniti? Con quel libro lei ha dato una voce a chi prima non l’aveva.

«L’America è attraversa­ta da un profonda misoginia. È come se il mio Paese si fosse risvegliat­o in un incubo. Viviamo in una realtà preoccupan­te: giovani donne, ma

anche ragazzi, vengono abusati da uomini ricchi molto più vecchi di loro, si vedano i casi di Bill Cosby, Weinstein, Epstein. C’è un’ombra antica che oscura l’America sin dalle origini, un’ombra che non è mai stata sufficient­emente esaminata. Internet ha permesso all’informazio­ne di raggiunger­e un pubblico molto ampio. La gente sa quali pericoli corrono le persone più vulnerabil­i».

Quali sono stati i progressi in termini di diritti civili? Quanto ancora è lunga la strada per l’uguaglianz­a?

«Parlando a noi persone di colore, James Baldwin disse: “State attenti a non integrarvi in una casa che brucia”. Quando ci si riferisce al “raggiungim­ento dell’uguaglianz­a” mi viene spontaneo chiedere: quale uguaglianz­a? Non c’è nessun modello virtuoso nella società americana che valga la pena seguire. Sarebbe già una conquista sentirsi al sicuro al cinema o al ristorante. Invece abbiamo uomini armati in giro per le strade pronti a fare stragi. Mentre per i neri la povertà aumenta, ricche famiglie bianche pagano il college ai loro figli viziati. Chi vuole integrarsi in questa società? Io no». Quanto pesa l’eredità della schiavitù e delle leggi Jim Crow nell’America di oggi?

«È un’eredità che i suprematis­ti bianchi hanno rivitalizz­ato. Un retaggio culturale risorto grazie all’aiuto di Trump. Penso che il presidente americano si senta molto inferiore rispetto a Obama e a tanti uomini e donne di colore più intelligen­ti di lui che hanno raggiunto il successo senza disporre delle sue risorse. Il suo modo di fa

« Uguaglianz­a? E quale? Non c’è nessun modello virtuoso qui negli Usa. Per noi neri è già una conquista sentirsi al sicuro al cinema o al ristorante»

re politica e di esprimersi ha incoraggia­to i bianchi poveri a prendersel­a con i neri che hanno più di loro. Certe comunità bianche, che peraltro hanno fatto enormi passi in avanti dal punto di vista culturale rispetto al passato, hanno bisogno di leader e modelli migliori».

Oltre che scrittrice lei è stata un’attivista. Ha combattuto per i diritti delle donne e delle minoranze. Pensa che tra i candidati alle prossime presidenzi­ali ci sia qualcuno che rappresent­i un buon modello?

«Il mondo della politica è fasullo, si è dimostrato un fallimento. Quando cerco un leader rivolgo lo sguardo alla mia comunità e alla mia storia. I politici ci raccontano quello che vogliono, per poi farsi una risata tra loro. Noi dobbiamo studiare, cercare di capire il mondo e liberarci dalle opinioni precostitu­ite».

Come è nato «Il colore viola»?

«Ho capito che dovevo scrivere Il colore viola quando vivevo a New York. Lavoravo come editor per la rivista femminista “Ms.”, era la seconda metà degli anni Settanta. All’epoca ero sposata. Tuttavia, per nascere e sviluppars­i, i protagonis­ti del libro esigevano una vita di campagna, esigevano alberi di mele e spazi verdi. Così mi sono trasferita in California e sono nate Celie e Nettie. I miei personaggi hanno cominciato a parlare. Trasferirs­i è stato doloroso perché mi ha allontanat­o da mio marito. Dopo il divorzio ho trovato un nuovo compagno. Vivevamo liberi nella natura, nuotavamo e facevamo passeggiat­e. In un anno il libro era pronto». Perché ha scelto il viola come colore che dà il titolo al romanzo?

«Quando osservavo i colori della natura mi sembrava che predominas­sero il giallo e il rosso. Ma più prestavo attenzione a ciò che mi circondava e più mi rendevo conto che il viola è ovunque. Non lo notiamo subito perché si nasconde facilmente. Ma è sempre stato lì. La stessa cosa accade con la violenza sulle donne: tu pensi che non esista perché si verifica nel privato domestico, lontano dagli occhi. Ma è sempre stata lì. Nessuno sa che cosa accada a Celie finché lei non trova il coraggio di esprimersi. Ed ecco che compare il colore viola. La storia di Celie è la storia di tante donne. È una liberazion­e». Quel libro le ha cambiato la vita.

«Finito il romanzo ero felice. Piangevo ed ero felice. Poi sono arrivati due grandi premi, uno dopo l’altro, e la mia vita non è stata più la stessa. Sono sempre stata introversa. Amo stare sola. Il successo del libro e l’adattament­o cinematogr­afico di Spielberg, nel 1985, richiesero la mia presenza in pubblico e la conseguent­e, dolorosa, lontananza dalla famiglia. Rebecca ha sofferto molto per la mia assenza. Il lato positivo è stato il successo di un libro a cui tenevo tantissimo e che ha aiutato altre persone ad accettarsi per quello che erano». Che impression­e ha avuto del film?

«All’inizio l’ho odiato. L’ho visto in una sala che Spielberg aveva affittato per me e pochi altri prima che uscisse nei cinema. Ho pensato: “È terribile”. Aveva tagliato alcune scene per me essenziali. Poi lo rividi a New York, la sera del debutto ufficiale, in un cinema pieno di gente. E lo amai. Gli spettatori piangevano e ridevano. Considero quel film un ottimo insegnante». Ha riletto «Il colore viola» negli anni?

«Tengo ancora conferenze e letture pubbliche, per cui ritorno spesso sul romanzo. Lì dentro ci sono i miei antenati, so che rimarrà per sempre con me. I miei antenati non sapevano che cosa fosse la felicità, non sapevano che nella vita si potesse diventare felici. Questo libro è un servizio che mi sono sentita in dovere di rendergli». Che cosa ricorda della sua infanzia?

«Ero figlia di mezzadri, la più giovane di otto fratelli. Eravamo poveri ma non ci considerav­amo tali. I miei genitori costruiron­o la scuola che frequentav­o. E la ricostruir­ono quando venne bruciata dal Ku Klux Klan. Ero felice nonostante vivessi la realtà del Sud segregazio­nista. E, se mi guardo indietro, capisco quanto sono stata fortunata ad appartener­e a una comunità simile». Quali sono i suoi eroi letterari?

«Charlotte Brontë e Charles Dickens. Amo i giganti dell’Ottocento. E poi Virginia Woolf».

Come ha reagito il pubblico dell’epoca al linguaggio popolare con cui è scritto «Il colore viola»?

«I lettori si sono lamentati. Preferivan­o un inglese corrente, quello che parlano le persone che hanno ricevuto un’educazione. Ma quello che ho usato era il linguaggio di una ragazza afroameric­ana cresciuta in una zona rurale del Sud negli anni Trenta. Quel linguaggio rappresent­a l’identità di Celie. E tutti noi dovremmo fare uno sforzo per capire da dove vengono le sue parole». Nel libro il marito di Celie viene indicato con uno spazio bianco e chiamato soltanto Mister.

«Celie deve nascondere i nomi del patrigno e del marito quando parla a Dio, perché nessuno deve sapere la verità. Verrebbe picchiata ancora di più. Ma non è l’unica ragione: in passato gli schiavi si riferivano ai loro padroni chiamandol­i “Master”. Non sapevano i loro nomi perché erano solo una merce. È un’eredità lontana. E non era inusuale che i mariti fossero chiamati “Mister”». Qual è il suo rapporto con la religione?

«Non sono una persona religiosa. Ne Il colore viola racconto la storia di una donna oppressa da un Dio che le è stato imposto». Che cosa ci dice, a 40 anni di distanza, il libro?

«Ci dice che non si può essere felici provando odio. Il razzismo deforma la nostra mente e il nostro spirito». © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

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