Corriere della Sera - La Lettura
LA FURIA DI DUTERTE INGUAIA LE FILIPPINE
Con Trump, Orbán e Bolsonaro, Rodrigo Duterte può essere ritenuto l’esponente più significativo del populismo mondiale. Propugnatore di metodi spicci e autoritari, il presidente filippino è stato in grado di affascinare vasti strati della popolazione adottando atteggiamenti provocatori e talvolta inconsulti, e un linguaggio violento e scurrile che non ha risparmiato neppure la Chiesa cattolica e Papa Francesco. L’indiscutibile successo mediatico di Duterte è frutto, come accade in altri Paesi, soprattutto di un uso demagogico della paura, agitata di fronte a ceti resi sempre più fragili dall’incertezza economica e dalle difficili condizioni di vita nelle aree metropolitane. E saranno proprio le pur fallimentari campagne per estirpare in pochi mesi la criminalità urbana e piegare il traffico di droga a consolidare l’immagine di Duterte come salvifico «uomo forte».
La sua improvvisa ascesa nella vita politica nazionale, nel 2016, dopo una controversa carriera nella periferica città di Davao, si spiega con la delusione provocata dall’incapacità delle tradizionali élite liberal-democratiche di garantire sviluppo e prosperità: le Filippine, infatti, si sono rivelate un caso fallimentare in termini di crescita economica, soprattutto rispetto ad altri Paesi dell’Asia orientale. Una via, comunque, che non sembra essere stata intrapresa neppure da Duterte, poiché l’attuale presidenza ha introdotto ulteriori elementi di instabilità economica e sociale oltre ad aver minato uno dei pilastri delle relazioni internazionali del Paese. Gravi le implicazioni della sua strategia: il tentativo di mantenere una sorta di equidistanza tra Cina e Stati Uniti non ha costituito affatto, come in altri contesti, una scelta realistica ma ha determinato una rottura drammatica dei decennali rapporti «speciali» tra Washington e Manila. L’allentamento dei legami storici con gli Usa sembra destinata a erodere i vantaggi di cui le Filippine hanno goduto in passato, in cambio di un rapporto con Pechino all’insegna della precarietà e di un problematico condizionamento a lungo termine.