Corriere della Sera - La Lettura

La guerra di Hebron: voci, dolori e vittime

Va in scena il 4 ottobre a Lugano, nell’ambito del Festival internazio­nale del teatro, «H2-Hebron» dell’israeliana Ruth Rosenthal. «Centinaia di coloni ebrei, centinaia di migliaia di palestines­i. Vicini e lontanissi­mi»

- LORENZO CREMONESI

Un conflitto produce sempre narrative diverse. Del colono medico Baruch Goldstein, che la mattina del 25 febbraio 1994 assassinò a sangue freddo 29 palestines­i e ne ferì un’altra settantina genuflessi a pregare nella Moschea di Abramo, molti tra i circa 800 ebrei di Hebron parlano come di «un’anima pura», di un «santo», un «santo martire». Il mondo arabo lo considera un criminale e celebra quei coraggiosi che riuscirono a ucciderlo a sprangate mentre cercava di ricaricare il mitra.

La sua tomba nell’insediamen­to ebraico di Kiryat Arba — alla periferia di Hebron, città palestines­e di 300 mila abitanti, trenta chilometri a sud di Gerusalemm­e — resta meta di pellegrina­ggi. Un luogo benedetto e venerato «in nome di Dio» tra gli adepti dell’annessione integrale dei te r r i to r i occupati sin dalla guerra del 1967. Da quel massacro scaturì il montare delle tensioni che — passando per gli attentati kamikaze jihadisti palestines­i al cuore delle città israeliane e l’assassinio del premier Yitzhak Rabin da parte di un estremista ebreo il 4 novembre 1995 — condusse a l l ’a f f o s s a mento d e l processo negoziale iniziato a Oslo nel 1993 che puntava alla nascita di due Stati in nome della «divisione della terra in cambio della pace».

Proprio sui modi opposti di descrivere il braccio di ferro per il cuore della città si concentra H2-Hebron di Ruth Rosenthal, 42 anni, unica attrice in scena, coautrice con il marito Xavier Klaine. Uno spettacolo teatrale rappresent­ato in Belgio e Francia l’anno scorso che il 4 ottobre sarà a Lugano per poi andare a Gerusalemm­e e in Giappone. «H1 e H2 sono le aree in cui è diviso il nucleo urbano dal tempo degli accordi tra Benjamin Netanyahu e Yasser Arafat nel 1997. Poche centinaia di coloni oggi paralizzan­o il cuore antico dell’area. Sono vicini, ma vedono la situazione da prospettiv­e lontanissi­me», spiega Ruth a «la Lettura».

E così una colona, madre di 11 figli, racconta a circa metà spettacolo di quel 24 marzo 2016, quando affacciand­osi alla finestra della sua abitazione di Tel Rumeida, vide il soldato israeliano Elon Azaria sparare a freddo contro Abdel Fattah al Sharif, il giovane palestines­e caduto a terra ferito dopo che aveva cercato di accoltella­rlo. «Ero a casa con i miei bambini. Sentimmo gli spari. Vidi il terrorista sul selciato; si muoveva ancora. C’era mio marito Shmuel in piedi vicino al soldato. Guardai ancora e vidi il soldato che sparava: uno, due colpi. Iniziai a gridare. Mio figlio cercò di calmarmi: “Tranquilla mamma, va bene, è un arabo”».

Un altro soldato israeliano spiega che Elon ha sparato anche su istigazion­e del colono, che è più anziano e vive nel quartiere: «C’è un colono che urla “finiscilo, finiscilo”; ha più anni di noi, conosce il territorio, è abituato a darci ordini. È lo stesso che un’ora prima ci ha offerto una Coca gelata a casa di Anat».

Così, per contro, un palestines­e residente nella via accanto ricorda quello stesso evento: «Non voglio scusare le aggression­i. Ma voi ci ponete sotto pressioni immense, ci trattate talmente male, uccidete i nostri cugini, i nostri amici; non aspettatev­i che poi noi possiamo contribuir­e a migliorare la situazione… L’esecuzione di Abdel Fattah al Sharif non è affatto fuori dall’ordinario. L’unica differenza quella volta è stata che c’era qualcuno che riprendeva e ha diffuso il video. Ma capita tutte le volte. Ci sono tre tipi di attacchi con il coltello: militanti che aggredisco­no soldati, oppure che rispondono agli attacchi dei coloni: i soldati li uccidono e poi gettano un coltello vicino al cadavere. E poi ci sono i casi dei suicidi: ragazze che si avvicinano a tre metri dai posti di blocco con un coltello e aspettano di essere massacrate».

I monologhi si susseguono serrati, incalzanti, talvolta in ordine logico, conseguent­e, ma anche in modo apparentem­ente scoordinat­o, comunque sempre violento, contraddit­torio. «L’effetto del caos, la confusione delle parole, sono voluti per raccontare questo conflitto assurdo. Nell’ora di rappresent­azione nulla è inventato, non c’è frase che non sia stata raccolta direttamen­te sul campo tra soldati israeliani, coloni ebrei, residenti palestines­i e operatori umanitari internazio­nali. Uno scontro ideologico e religioso, articolato in narrative contrastan­ti, affascinan­ti per la loro siderale diversità nello descrivere gli stessi fatti, che si escludono a vicenda nei linguaggi, nelle idee, nei valori di riferiment­o. Mi è sembrato il modo migliore per cercare di rappresent­are la guerra di Hebron, un microcosmo di tensioni esasperate che sintetizza nella sua crudezza l’essenza della questione israelo-palestines­e», spiega ancora Ruth.

Nata ad Haifa nel 1977 da una famiglia di askenaziti (gli ebrei originari dell’Europa centro-occidental­e), da ragazza è cresciuta in ambiente laico, aperto al mondo. «Mi sono sempre riconosciu­ta nei valori della democrazia laica. Ma non ho mai militato nella sinistra israeliana, non sono mai andata alle manifestaz­ioni dei movimenti contro l’occupazion­e di Cisgiordan­ia e Gaza», aggiunge. Nel 2005 conosce Xavier, si trasferisc­e con lui a Parigi, hanno una figlia. Nel 2014 tornano in Israele, lavorano assieme nel teatro. È però l’incontro casuale nel 2015 con una vecchia compagna di scuola, di cui rivela solo l’iniziale del nome S., a condurla nel cuore della questione Hebron. «Da ragazze eravamo state amiche, poi lei si è sposata e i casi della vita ci hanno allontanat­e. Quattro anni fa mi ha detto che dopo il fallimento del primo matrimonio si era risposata con un colono di Tel Rumeida, il centro militante della Hebron ebraica. Era diventata molto religiosa e mi ha invitato a casa sua. È lì che mi sono imbattuta in una situazione umana e sociale che non esito a definire folle, malata, assolutame­nte disturbata. Un universo di fanatici pronti a sacrificar­e tutto, le loro vite, i figli, gli affetti, alla loro lettura distorta della storia, della religione, dell’ebraismo, del rapporto con gli altri. Sono guidati dalla loro interpreta­zione con il paraocchi della Bibbia, esaltano ogni resto archeologi­co del passato ebraico come prova dalla loro legittimit­à a prendersi la terra e le case dei palestines­i. Vedono Hebron solo come la città santa dei Patriarchi, vorrebbero vendicare il pogrom arabo del 1929, che causò almeno 67 morti tra l’antica comunità ebraica locale. Concepisco­no Goldstein come un inviato che prepara la loro redenzione».

Non è l’unica a pensarla in questo modo. Riflettend­o preoccupat­o sui jihadisti musulmani, ma soprattutt­o sui coloni di Hebron, sulla biografia di Yigal Amir (l’assassino di Rabin) e sulla crescita dei partiti della destra israeliana, lo scrittore Amoz Oz (scomparso il 28 dicembre dell’anno scorso) ha pubblicato nel 2017 Cari fanatici. Si tratta di una condanna durissima di quello che anche negli incontri con il «Corriere» non esitava a definire «un cancro pericoloso per l’esistenza stessa di Israele». A Hebron ci sono rabbini e militanti che parlano apertament­e di «superiorit­à del sangue ebraico», leader di una piccola comunità che una volta appariva totalmente marginale, ma che politicame­nte sta guadagnand­o peso.

Ruth li avverte come una minaccia personale: «Negli ultimi anni sta manifestan­dosi un fenomeno estremamen­te grave. Gli estremisti sono entrati nel Parlamento, nell’esercito, stanno diventando maestri, giudici, soldati. Se il rabbino Meir Kahane prima del suo assassinio nel 1990 era considerat­o dai più come un pazzo rappresent­ante solo di sé stesso, oggi il kahanismo, ovvero la sua predicazio­ne per la deportazio­ne forzata dei palestines­i all’estero assieme alla lotta contro i matrimoni misti e il razzismo pro-ebraico, appaiono in crescita. Discorsi che una volta erano tabù sono sempre più accettati. Magari non condivisi, ma accolti come componente legittima del dibattito pubblico». In teatro le sue parole si reificano nei plastici bianchi dei modellini degli edifici della Hebron storica, che lei via via pone sul tavolone di fronte al pubblico. Inizialmen­te è vuoto. Ma progressiv­amente appaiono i posti di blocco, le strade chiuse, le sinagoghe diventate nei secoli chiese, moschee, di nuovo sinagoghe, i luoghi dei massacri. Alla fine si materializ­za come un labirinto di conflitti e odî, da cui pare impossibil­e uscire.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy