Corriere della Sera - La Lettura
CACCIATO IL DITTATORE, IL SUDAN CERCA DI RIPARTIRE
Il Sudan ha vissuto pericolosamente buona parte della sua storia indipendente. Quattro colpi di Stato e, nel mezzo, una lunga guerra terminata con la secessione del Sud Sudan nel 2011, e il conflitto scoppiato nel Darfur nel 2003, noto per le violenze etniche. Il contorno è fatto di parziale isolamento e di pressioni internazionali nei confronti di un regime «canaglia» e destabilizzante.
Protagonista di tanta parte delle turbolenze è stato, per trent’anni, Omar al-Bashir. Arrivato al potere
manu militari nel 1989, Bashir è stato rovesciato da una piazza allo stremo. Pur ammantato di una fragile legittimazione elettorale, il regime di Khartoum si è distinto tra i più repressivi nella regione (la Corte penale internazionale emise due mandati di arresto nei riguardi del capo dello Stato per crimini contro l’umanità in Darfur).
Nel 2016 hanno avuto inizio le proteste popolari (la scintilla fu l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità) e con esse la durissima risposta governativa. Nuove ondate di manifestazioni all’inizio del 2019 non si arrestarono neppure di fronte alla proclamazione dello stato d’emergenza, vera misura di quanto Bashir sentisse scosso alle fondamenta il regime e vicina la fine. Per non affondare con lui, ad aprile i suoi militari lo hanno abbandonato come zavorra a mare.
È stato solo l’inizio di un braccio di ferro tra la componente militare e gli esponenti di società civile e opposizioni. I negoziati hanno faticosamente condotto a un accordo di cogestione del potere, sotto la guida di Abdalla Hamdok, un economista nominato primo ministro, per una transizione di durata triennale. Prima di affrontare nuove elezioni ( forse finalmente competitive) il Paese deve ritrovare equilibrio. La strada è presa, ma l’esito è tutt’altro che scontato.