Corriere della Sera - La Lettura
Persino la fisica sa fermare l’attimo La musica lo fa già
«Il suono lavora sempre nel tempo», dice il compositore Luca Francesconi. Rilancia lo scienziato Fabio Peri: «Siamo viziati dall’idea di Newton secondo cui il tempo è un contenitore che ospita tutto ciò che avviene. Oggi si parla di “granularità” di spazio e tempo: possiamo immaginarci un “grano di tempo”?». È il tema di un festival milanese: «la Lettura» ha invitato al confronto due protagonisti
«Siamo tutti viaggiatori nel tempo, diretti verso il futuro», scherza Fabio Peri, astrofisico con la passione dell’arte e della musica. Ma quanti tempi esistono? Innanzitutto il tempo della fisica, che tutti subiamo senza poter intervenire. Ma esiste almeno un altro tempo, su cui invece qualche potere lo abbiamo: un tempo che sfugge alla semplice cronologia e può essere organizzato a nostro piacere. «È il tempo della musica. Anzi, al plurale: i tempi della musica», spiega Luca Francesconi, a cui il Festival Milano Musica ha dedicato la prossima rassegna, la 28ª, intitolata guarda caso Velocità del tempo, dal 2 ottobre al 25 novembre.
Basta leggere i titoli del catalogo di Francesconi («Dentro non ha tempo», «Lontananza e ora, qui», «Attesa», «Attesa nello spazio»...), per capire quanto la riflessione sul tempo e la sua organizzazione in un brano lo guidino nel processo compositivo. È così?
LUCA FRANCESCONI — La musica lavora sempre nel tempo, sono riflessioni da cui non si può prescindere. Ma il tempo musicale non ha nulla a che vedere con il metronomo, che invece ha solo un’utilità pratica. C’è sempre un valore aggiunto da considerare, persino nei casi estremi come la musica pulsata: è l’aspetto qualitativo. Ecco, potrebbe essere una definizione di musica: una distribuzione di qualità nel tempo. Come stabilisce queste qualità?
LUCA FRANCESCONI — Nel mio lavoro parto sempre da pure energie. Queste devono essere analizzate me
diante le nostre capacità formali, radicate nella cultura occidentale come risultato della nostra hýbris. Io la chiamo «sindrome di Ulisse», e credo che ci abbia allontanati da un atteggiamento contemplativo nei confronti della natura, per consentirci di costruire le scienze. Ma dall’altra parte non possiamo ignorare il peso del passato, della storia, di una pressione semantica che la musica subisce sempre di più. Di fronte a questa dittatura dei significati si deve avere un atteggiamento attivo e affrontare la materia musicale come se fosse viva: solo così capiremo cosa ha da dirci, e finalmente comincerà a muoversi, a generare tempo. Anche in fisica sono tanti i tempi?
FABIO PERI — Il bello della fisica è che non c’è mai una risposta definitiva. Circa il tempo, siamo ancora un po’ viziati da Newton secondo il quale il tempo è una sorta di contenitore che ospita tutto ciò che avviene, parametro comodo per scrivere equazioni e fare i calcoli. Ma dalla relatività in poi è diventato difficile parlare persino di presente, dopo che Einstein ha messo in crisi il concetto di simultaneità, oltre ad aver legato il concetto di tempo a quello di spazio. Le cose sono peggiorate dopo la rivoluzione quantistica, quando si è iniziato a parlare di una granularità delle particelle, e oggi addirittura di una granularità di spazio e tempo. Che cosa vuol dire che esiste un tempo al di sotto del quale non si può andare? Possiamo immaginarci un «grano di tempo»? Si riferisce alla descrizione quantistica della relatività generale?
FABIO PERI — Siamo ancora lontani da una soluzione ma ci sono molte teorie in proposito. In una di queste, la Loop Quantum Gravity, il tempo non si usa nemmeno, smette di essere un parametro e compaiono soltanto relazioni tra eventi. Se fosse corretta ci ritroveremmo con l’imbarazzo di chiederci da dove viene fuori il tempo, di cui tutti noi percepiamo la realtà. Quando si parla di tempo abbiamo sempre la tentazione di fare i filosofi. Penso sia normale, anche se per un fisico dovrebbero valere le stesse cose per lo spazio. Ma è più forte di noi, forse perché si può sempre dire «voglio andare là», anche se parliamo di milioni di anni luce di distanza, mentre non si può dire «voglio andare a quell’istante».
LUCA FRANCESCONI — Proust rilevava una sproporzione tra il poco spazio che occupiamo fisicamente e la quantità di tempo che consumiamo. Ma se sommassimo tutte le posizioni occupate nel corso della nostra vita la sproporzione diminuirebbe: mi sembra un modo semplice per trovare una relazione tra spazio e tempo.
FABIO PERI — Se si aggiunge che le particelle di cui siamo fatti potrebbero avere miliardi di anni, la relazione diventa ancora più impressionante. Quando beviamo un bicchiere d’acqua non pensiamo che una parte di quell’idrogeno si è formato durante il Big Bang, circa 13,8 miliardi di anni fa. Stiamo bevendo senza accorgercene idrogeno primordiale, che ha vissuto l’intera storia dell’universo e ha visto tutto, perché si è trovato nel punto in cui c’era proprio tutto. In qualche modo anche noi eravamo al centro dell’universo, anzi eravamo l’universo stesso. Ma bisogna stare attenti a non lasciarsi troppo trasportare dagli spunti della fisica. E rinunciare alle interpretazioni? FABIO PERI — Però sono belle; e poi siamo uomini: viviamo di interpretazioni.
In musica è possibile dire all’attimo di fermarsi, come voleva Faust? LUCA FRANCESCONI — Certo che si può. Basta pensare alla poliritmia dei pigmei africani che, anche se sembra un’alluvione di ritmo e di velocità, non va da nessuna parte. Si tratta di una stratificazione: un primo
pattern ritmico che si ripete, poi un secondo, un terzo e così via; tutti condividono una pulsazione, come un denominatore comune che dà il groove al pezzo. Ma è una tecnica che non entra nell’oggetto: le manca il momento dell’analisi formale di cui si è parlato prima. Anche l’Ho
quetus David di Guillaume de Machaut (1300-1377, ndr) ha un’organizzazione del tempo analoga, oppure Le Sa
cre du printemps di Igor Stravinskij, che ha una struttura a ondate: si arriva sempre a una saturazione, e poi si ricomincia. Ovviamente Stravinskij era un genio, quindi la macchina riparte sempre con idee magnifiche. Sono tutti esempi in cui il tempo gira su sé stesso, come le filastrocche della tradizione popolare: un tempo circolare con cui si spera inconsciamente di esorcizzare il nostro destino individuale e la trasformazione lineare delle cellule, che gradualmente invecchiano e muoiono. E in fisica esiste un attimo eterno? FABIO PERI — Se viaggiassimo alla velocità della luce vivremmo in un eterno presente, senza passato né futuro. O ancora avvicinandoci a un buco nero, il tempo passerebbe sempre più lentamente fino a farci vedere tutto l’universo in un solo attimo. Dovremmo persino lasciare fuori la nostra immagine perché in un buco nero la luce non può entrare. Ed è proprio la luce l’unica fonte di informazioni per un astrofisico: non si può certo andare su una stella a fare delle misure.
LUCA FRANCESCONI — Come si misura la luce? FABIO PERI — Con uno spettrometro, che mostra la distribuzione di energia dell’onda elettromagnetica attraverso le varie frequenze: la luce è un fenomeno ondulatorio che ha in sé sia il tempo sia lo spazio.
LUCA FRANCESCONI — Proprio come il suono: anche nel mio lavoro conta l’analisi spettrale. Ricordo che anni fa, all’Ircam di Parigi, mi ero messo in testa di basare un pezzo su un glissando fra due armonie. Quando decisi di analizzare un punto in mezzo (avevo i mezzi informatici per farlo) ho visto che si trattava di rumore puro. Rimasi a bocca aperta. Ho capito che un glissando non è altro che un cluster nel tempo: rumore che si muove. Ora, la cosa che mi dispiace è che la musica sia troppo spesso esclusa dal dibattito culturale, non solo umanistico ma anche scientifico: è una specie di Ufo che non si sa da quale parte prendere. Eppure la musica contemporanea ha spesso a che fare con concetti fisici non banali. LUCA FRANCESCONI — Con ironia Bruno Maderna diceva che i nostri, rispetto a quelli dei fisici, sono i conti della serva; ma è indubbio che un compositore oggi debba trovare il modo di formalizzare eventi impalpabili e misteriosi. Sembrerà strano, ma anche questa è libertà espressiva, la stessa che piaceva a Baudelaire e Mallarmé. La musica resta sempre poesia, e riesce a slegarsi da qualsiasi riferimento per volare in territori eterei: non la vedi, non la tocchi, eppure può colpirti come un pugno.
FABIO PERI — Anche la scienza moderna, ormai sempre più difficile, ha assunto aspetti che sembrano un po’ esoterici. Non è magia dire che quando si cammina il tempo passa più lentamente rispetto a quando si è fermi? O che l’intero universo potrebbe essersi prodotto dal nulla in un solo attimo? Eppure le attuali leggi della fisica consentono tali pensieri.
Il lato esoterico è importante anche nell’opera di Karlheinz Stockhausen (1928-2007), che sarà accostato a Francesconi in tre concerti al Planetario di Milano (26 ottobre, 2 e 9 novembre), dove Peri avrà spazio per un approfondimento sul tempo nella fisica. LUCA FRANCESCONI — Si tratta di brani molto diversi tra loro: il mio Tracce è pura trasformazione da una minicellula all’altra. Quanto a Stockhausen, l’opera da cui sono stati scelti i tre brani, Klang, è totalmente statica: quasi una rotazione, come un guanto che si rivolta. Ricordo che una volta Stockhausen mi chiese la formula del silenzio: non seppi rispondere. Mi disse che era il rapporto tre a due. Quando tempo dopo gli feci notare che nel suo monumentale Licht, basato su una superformula moltiplicata per un numero gigantesco, una semplice pausa avrebbe comportato un silenzio di venti minuti, mi rispose che tanto il silenzio non esiste: siamo sempre circondati da musica cosmica.