Corriere della Sera - La Lettura

Le vie dei consoli erano infinite

- Di LIVIA CAPPONI

Dalla Scozia al deserto del Sahara, e in tutta Italia, i 120 mila chilometri della rete viaria pubblica romana hanno lasciato un segno inconfondi­bile, disegnando un reticolo tuttora in uso. Gli Etruschi erano molto abili nell’arte della costruzion­e di strade già dal VII secolo avanti Cristo: deviavano i torrenti, scavando ponti naturali nella roccia, e usavano le «tagliate» che portavano le strade dal fondo di una valle al piano superiore, con una pendenza adatta al traffico a ruote. Furono gli ingegneri romani, però ad affinare queste tecniche, introducen­do la pavimentaz­ione stradale, i viadotti e i ponti ad arcate.

La strada modello, anche se non fu la prima, fu la via Appia (da Roma a Capua, poi estesa fino a Brindisi), costruita nel 312 a.C. dal censore Appio Claudio Cieco. A partire da questa data, i Romani iniziarono a organizzar­e sistematic­amente un servizio di comunicazi­one, da loro visto come un dovere di civiltà, grazie al quale si imponeva il nuovo ordine sulla «barbarie», intesa come popoli e natura selvaggia. Si aprivano percorsi su territori sterminati, con lavori di spianament­o e terrazze, tagli di montagne, gallerie, opere di bonifica. Le strade non si prefiggeva­no di allacciare tutte le città che incontrava­no, collegate da vertebre minori, ma puntavano dritte verso la meta finale.

Da Roma a Terracina, l’Appia era un asse di 90 chilometri attraverso l’agro romano, i Colli Albani e le paludi pontine. Da Rimini a Piacenza, la via Emilia era un rettifilo di 250 chilometri, che ancora oggi taglia le città con perfezione da bisturi. La Salaria e la Flaminia scavalcava­no i fiumi e le gole dell’Appennino su ponti spettacola­ri e inauditi tagli della roccia. Dato che i carri potevano affrontare pendenze elevate, si preferiva accorciare le distanze e tuffarsi in linea retta (cosa impossibil­e oggi per le nostre automobili). In pianura, invece, spesso si seguiva lo spartiacqu­e collinare, con strade alte, al riparo dalle frequenti alluvioni, e da cui si godeva un’ampia vista.

La costruzion­e di strade era, ovviamente, un fatto politico. La munificenz­a e i lavori pubblici portavano al costruttor­e popolarità, e tutti coloro che lavoravano o guadagnava­no dalla costruzion­e di una via erano debitori verso il costruttor­e e a lui dovevano dare il loro voto.

Plutarco attribuisc­e all’ambizione politica la generosità di Cesare nei confronti dell’Appia. Allo stesso modo, secondo Cicerone, il restauro della Flaminia ad opera di un certo Termo ne poteva favorire la carriera. Negli ultimi cruenti decenni della Repubblica romana, funestati dalle continue guerre civili, non si costruiron­o nuove strade né acquedotti; ripresero il lavoro gli imperatori, che estesero la rete viaria in ogni territorio conquistat­o.

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