Corriere della Sera - La Lettura
Invenzione (e traduzione) di una lingua folgorante
Marisa Caramella tradusse «Il colore viola» nel 1984, adesso lo ha fatto Andreina Lombardi Bom. A «la Lettura» spiegano come hanno reso uno stile unico
Trentacinque anni fa, quando uscì in Italia la prima traduzione de Il colore viola firmata da Marisa Caramella, la cultura afroamericana e i suoi temi erano poco conosciuti nel nostro Paese. Molti caposcuola dovevano ancora realizzare le opere più significative: un film come Fa’ la cosa giusta di Spike Lee arriverà solo nel 1989, il romanzo Amatissima di Toni Morrison, su argomenti analoghi a quelli di Alice Walker, sarà scritto nel 1987. Quanto alla Harlem Renaissance, la rinascita artistica nera degli anni Venti-Trenta, era un patrimonio noto quasi solo in ambito accademico.
Pubblicare il romanzo in Italia — nel 1984, prima del film di Steven Spielberg del 1985 — era quindi una scelta coraggiosa che illuminava un universo ignoto. Ma oggi, il pianeta della cultura afroamericana è vasto, Alice Walker è un monumento, e su Celie e gli altri personaggi esistono migliaia di saggi. Inevitabile dunque che riproporre Il colore viola significasse, a distanza di anni, proporre una nuova traduzione, affidata ad Andreina Lombardi Bom.
Quella che raccontano a «la Lettura» le due traduttrici del 1984 e del 2019, Marisa Caramella e Andreina Lombardi Bom, è la storia di due versioni distanti nel tempo, ma anche la fortuna di un romanzo che oggi è carico di un bagaglio culturale cresciuto e capito in anni recenti, ma che 35 anni fa era una novità per il pubblico non americano.
«Anche rispetto a Toni Morrison, quello di Alice Walker era un altro registro, particolarissimo — inizia Marisa Caramella, autrice della prima traduzione —. Ma io avevo frequentato l’università in America, con una borsa di studio Fullbright. Così avevo avuto modo di restare negli Stati Uniti per parecchio tempo e di studiare all’University of Washington, a Seattle. E di imparare un sacco di cose sulla cultura americana, perché non c’è come quell’età per assorbire tutto. Nella zona, di afroamericani ce n’erano pochi, perché era un’oasi privilegiata di tedeschi, svedesi e cinesi, però nel campus c’erano i neri e molti neri africani con borse di studio. Quando ho visto il libro l’ho capito subito: non era difficile comprendere da dove venisse quella storia. Infatti avevo avuto familiarità con corsi di letteratura che comprendevano la Harlem Renaissance, la corrente letteraria che si è sviluppata a New York con Zora Neale Hurston e altri autori dei quali peraltro oggi si è un po’ persa la traccia, anche se sono editi in Italia».
A 35 anni di distanza, l’effetto sconvolgente è lo stesso, ma tutt’intorno il mondo è cambiato, racconta Andreina Lombardi Bom: «Dico sempre che ho la fortuna di tradurre al tempo di internet. Il colore viola è oggi uno dei testi più studiati, si dispone online di una bella rosa di saggi, di tesi di laurea, di analisi da un punto di vista sociale, letterario e linguistico. Nel testo c’erano molti termini che mi hanno richiesto un bel po’ di ricerche. Mi sono costruita un glossario, cosa che faccio di rado, proprio per ricordarmi il significato di parole che sul vocabolario non si trovano, e per annotarmi i modi di dire, gli stilemi. Dovevo impostare il linguaggio per questa “invenzione di dialetto” in italiano, non un dialetto vero e proprio ma una parlata popolare, con prestiti nascosti da vari dialetti italiani, il più sottotraccia possibile».
Un linguaggio in parte inventato, spiegano entrambe, che richiedeva invenzione anche nella traduzione. «Ho fatto subito — continua Marisa Caramella — cambiamenti abbastanza personali. Ad esempio, in inglese la locuzione con cui Celie si rivolge a Dio è Dear God, caro dio. A me il suono sembrava orrendo e ho scelto “dio mio”, che suonava meglio: perché noi in italiano non diciamo “caro dio”. Mi sono presa un po’ di libertà». E aggiunge Caramella: «Mi ha stupito che l’editore avesse osato tanto, non era un libro facile da proporre. Adesso, oggi, abbiamo avuto esperienze letterarie di tutti i tipi in quel campo, anche importantissime, ma a quel tempo... Ho cercato di rendere la traduzione non dialettale, non volevo che la lingua di Walker suonasse come un dialetto, o con una sgrammaticatura eccessiva. Volevo che non avesse un registro diverso da quello che si usava per i nostri scrittori. Secondo me non è un libro che ha a che fare con il dialetto. Era una lingua, e andava inventata. E inventarla non era facile. Dovevo lisciarla un po’, mettere non il lettore, ma lo stesso libro, un po’ a suo agio, cioè inventarlo, linguisticamente, da capo».
Con le «invenzioni» di Walker ha avuto a che fare anche Lombardi Bom, che propone qualche esempio: «La voce della ragazzetta di Harpo, figliastro di Celie, è descritta con l’aggettivo inventato teenouncy. Mi sono detta: se è inventato, va tradotto con un vocabolo inventato: strillazzante. Quando Celie deve fare la barba a Mister le viene voglia di tagliargli la gola, ma Shug la ferma e lui diventa niggerish: in un saggio del 2011 sul black American English, ho trovato che è una via di mezzo tra aggressivo e cafone, con una forte componente razzista (già le sorelle di Mister avevano definito Shug “troppo nera”). L’ho risolto con “Si incavola come un babbuino”, con il forte elemento razzista. Quanto a Dear God, è la formula delle preghiere in inglese. Noi diremmo “o signore”, ma trattandosi di lettere non ho avuto dubbi, perché le lettere si cominciano così, “Caro Tizio”».
E poi la Nina, la Pinta e la Santamaria di Cristoforo Colombo che diventano per l’analfabeta Celie «la Nina, la Finta e la Saltamarinta», o le capanne africane (visitate dalla sorella missionaria di Celie) coperte di inaudite roof leaf, «foglie da tetto». O le malattie flu, diarrhea e pneumonia che in Alice Walker si storpiano in flue, direar, newmonya, tradotte da Lombardi Bom con «l’infludenza, l’adiarrea, l’abbronchite». E via inventando.
E l’impressione da lettrici? Per le due traduttrici non è molto diversa: «Di questo libro, all’epoca — conclude Marisa Caramella — ho pensato che fosse un esperimento. Invece non lo era, era una realtà per me a ncora i nvi s i bi l e , nonostante l e esperienze americane. Era uno stile. Esperimento, semmai, lo era nel senso che era una voce femminile, per di più giovane». «L’avevo letto allora — concorda Lombardi Bom — e ovviamente l’ho riletto adesso. E s ono r i masta fo l gorat a , per l a complessità linguistica che non mi aspettavo. Una scrittura che sembra, ma non è, semplice e immediata, e bisogna sudare per renderla. Il linguaggio di Celie cresce con il suo crescere come persona: lei comincia come ragazzina maltrattata, abusata e semianalfabeta, ma gli incontri che fa, con Sofia, con Shug, contribuiscono ad arricchirla e ad arricchire il suo linguaggio». E Lombardi Bom confessa, a proposito di «fortuna» de Il colore viola in questi 35 anni: «Mentre traducevo le lettere di Celie, mi vedevo davanti la faccia di Whoopy Goldberg. Altre scelte di Spielberg per il film forse erano non condivisibili, e la stessa Walker non le condivise, ma quella della Goldberg era azzeccata, era Celie».