Corriere della Sera - La Lettura
Era bellissimo il sogno di Alce Nero
Darcy Padilla parla a «la Lettura» dei suoi scatti tra gli indiani lakota, premiati a Lodi
C’era la neve sul cimitero di Wounded Knee, come nel giorno del massacro. «Tamburi, preghiere, freddo. Un dolore profondo: decisi di capire e promisi di tornare». Se Darcy Padilla promette — l’ha imparato dal padre — vuol dire che tornerà. Incontrerà persone diverse, si siederà a tavola con loro, risponderà al telefono quando la chiameranno, nei momenti importanti ci sarà, e sarà allora che scatterà fotografie. «È il mio metodo — spiega a “la Lettura” —: lavorare su questioni che io possa continuare a seguire a lungo. Comincio con un’idea, avvicinandomi alla gente le cose si sviluppano e cambiano».
Un sistema consolidato dal suo progetto più celebre, La vita di Julie, che ha vinto ogni possibile prestigioso premio. Nei primi anni Novanta, Darcy si muoveva a San Francisco in quel concentrato di sofferenza americana che era l’Hotel Ambassador, droga, prostituzione, Aids, una ragazza coi piedi nudi, i pantaloni aperti, una neonata di otto giorni tra le braccia: Julie. Non l’avrebbe mai lasciata, fino alla morte in Alaska, anni più tardi. Sta portando ancora oggi avanti la storia, racconta, seguendo due figli della donna: la prima, Rachel, cresciuta tra il crack e i clienti; l’ultima, Elyssa, nata nel 2009, nei tempi finali della malattia.
La ricerca su Wounded Knee sembra altra cosa, ma muove dalle stesse spinte: andare nei luoghi diseredati d’America, senza giudizio né commiserazione, con l’intenzione onesta di capire. «La mia fotografia racconta storie di lotta per la sopravvivenza attraverso le generazioni. La motivazione è personale: voglio sapere perché». Né banale né facile. Lo scrittore francese Emmanuel Carrère su Darcy Padilla ha scritto pagine di pura ammirazione: una donna bella, sana, chicana che si è imposta per dedizione e talento; «va verso la gente come Julie, non smette di chiedersi che cosa voglia dire trovarsi al loro posto, pur restando nel proprio. Sa dove si trova». La giusta distanza.
Alla riserva indiana di Pine Ridge non s’è trasferita a vivere, ma c’è stata decine di volte, racconta. A partire dall’emozione per la cerimonia gelida a cui aveva assistito nel dicembre 2003 per le centinaia di lakota sioux sterminati sulle rive del torrente Wounded Knee, South Dakota, nel 1890. Ingiustizia e dolore, attraverso i secoli. Allora furono i soldati, oggi alcol e abbandono. Per i 40 mila che vivono nella riserva, annota la fotografa, «le statistiche sono devastanti: 85% disoccupati, 70% sotto la linea di povertà; l’aspettativa di vita è la seconda più bassa nell’emisfero occidentale, 47 anni per gli uomini e 52 per le donne». Eppure il progetto si chiama The Dreamers, i sognatori, per una citazione nella quale Darcy si è imbattuta all’inizio del lavoro: «Alce Nero, guerriero oglala lakota e uomo sacro, testimone a Wounded Knee, del massacro diceva: il sogno di un popolo è morto qui. Era un sogno bellissimo».