Corriere della Sera - La Lettura
Un canto più profondo del pozzo
Federico García Lorca si appassionò al patrimonio lirico dell’Andalusia senza cedere al localismo: era il modo per arrivare a cogliere una voce primordiale e, soprattutto, universale Quasi un gorgheggio Il «Poema del cante jondo» celebra quello che l’autore definisce un «rarissimo esempio di canto primitivo», antico come nulla in Europa
La poesia del Novecento non si dovrebbe legare esclusivamente al mito del nuovo, della modernità, del cosmopolitismo, del continuo superamento di sé. Certo questa disposizione ne costituisce l’aspetto più eclatante e celebrato, tanto più per quanto riguarda la sua prima metà. Ma è vero che alla cosiddetta crisi dell’identità individuale, che della letteratura e più in genere dell’arte del ventesimo secolo costituisce il fondamento comune, si è risposto tante volte in modo pressoché opposto: scavando in profondità, volgendosi indietro, cercando la radice. E le cose si complicano ulteriormente poi, perché spesso e volentieri le due direzioni hanno finito paradossalmente per farne una sola. Pensiamo soltanto a Ungaretti, che nel suo primo e più importante libro ha coniugato la più spregiudicata rivoluzione espressiva alla ricerca, tutta in profondità e addirittura archetipica, di un porto sepolto leggendario e perduto.
Federico García Lorca ha rivolto alle viscere culturali e antropologiche della sua Andalusia un lungo periodo d’attenzione, coincidente grosso modo con gli anni Venti, prima che l’apertura a un orizzonte internazionale spostasse, pur senza stravolgerne o rinnegarne la sostanza ideale, il baricentro della sua poesia (si pensi solo ai suoi contatti col surrealismo e agli esperimenti di scrittura automatica, come nel notissimo Poeta a New York). A questo suo interesse, che è stato teorico e insieme poetico, si legano anzitutto due opere: il Romancero gitano e il Poema del cante jondo, il quale ultimo esce adesso nella traduzione italiana di Valerio Nardoni per la cura davvero pregevole di Enrico Di Pastena e dello stesso Nardoni (Passigli: il Romancero gitano era uscito sempre per Passigli nel 2012). Il volume include poi un fondamentale scritto di Lorca, Architettura del cante jondo, una conferenza che il poeta ha tenuto a più riprese nel corso degli anni, rimaneggiandola via via a partire da un nucleo originario del 1922.
Anche la stesura del Poema del cante jondo appartiene ai primissimi anni Venti, e precisamente al 1921, anche se il libro verrà pubblicato in forma un poco diversa solo una decina d’anni più tardi. Ciò che a questa altezza Lorca ha più a cuore è l’immaginazione popolare, e precisamente il retaggio della cultura gitana, la musica e la canzone (non va dimenticato che aveva ricevuto una più che rispettabile educazione musicale, e che era in possesso, tra l’altro, di un orecchio formidabile), la tradizione orale, ma anche la corrida, il flamenco, certe figure affioranti dai primordi del folklore andaluso. E a questo punto le precisazioni e i commenti dei curatori vengono davvero utili, sia per chiarire l’importanza di questi motivi nello svolgimento della poesia e del pensiero dello scrittore di Granada, sia per collocare storicamente la direzione del suo impegno, sia soprattutto per illuminare la sostanza più intima di un rapporto come quello tra la poesia e la tradizione popolare (o bassa, come ancora si dice), che per un lettore italiano risulta tutt’altro che scontato, forse addirittura poco plausibile vista la sostanziale impermeabilità della nostra tradizione lirica moderna e contemporanea (tra le poche eccezioni, l’interesse per la poesia popolare di Pascoli e di Pasolini).
In realtà Lorca è mosso da un intento tutt’altro che localistico. Il suo lavoro di scavo riguarda invece la possibilità stessa di un’espressione poetica sorgiva, necessaria, non compromessa dal governo della razionalità, dalle codificazioni istituzionali, dal predominio della tecnica, dall’utilitarismo. È lui stesso a parlare di «colore spirituale» di contro al «colore locale», o ancora a evocare la presenza comunque imprendibile del cosiddetto duende, lo spirito della terra, anche questo assolutamente non particolaristico e tanto meno nazionalistico. A questo punto diventa chiaro quale tensione intercorra tra lo sprofondamento nell’identità del luogo, ossia in ciò che è «peculiare dell’Andalusia» da una parte (quelle precise contrade, fisionomie, ritmi, voci, musiche, figure), e una specie di sfondamento nell’universale, o se si preferisce nell’indeterminato, nell’assoluto, nel non localizzabile dall’altro. Allo stesso modo in queste poesie straordinariamente intonate, spesso dolcissime, eppure altrettanto amare e struggenti, anche terribili («In Andalusia si canta solo colui che è sul filo», dice Lorca), radicamento e sradicamento, individuazione tellurica e libertà finiscono per risultare l’una il rovescio dell’altra.
Ma sentiamolo direttamente, dall’Architettura del cante jondo, tanto più che sembra restituire in immagine e in concetto qualcosa della musica dei suoi versi: «Il cante jondo si avvicina al gorgheggio dell’uccello, al canto del gallo e alle musiche naturali del pioppo e dell’onda; è semplice a forza di anni e di stilizzazione. È, dunque, un rarissimo esempio di canto primitivo, quanto di più antico ci sia in Europa». Colpisce tanto più oggi, allora, come nella sua ricostruzione storica il poeta insista sui procedimenti sincretici, sugli spostamenti e innesti reciproci di popoli e di lingue, sulla fecondità dei travasi di sangue diversi. L’antico canto che rivive nei suoi versi è infatti «impastato con il sangue dell’Africa», con l’eredità indiana, col retaggio della grande cultura arabo-andalusa. A questo punto, la figura del gitano e delle interposte persone che in questi versi ne incarnano spirito e parole, una figura sempre un po’ esclusa o renitente nei confronti del cosiddetto consorzio civile, diventa il doppio di quella del poeta o, forse meglio, della voce stessa della poesia.
Il cante jondo, ha scritto ancora Lorca, «è profondo, veramente profondo. Più di tutti i pozzi e i mari che circondano il mondo, molto più profondo del cuore attuale che lo crea e più profondo della voce che lo canta». Da poeta, Lorca non poteva rispondere alla perdita del senso che con una mitografia, nuova e insieme antica, sempre diversa eppure sempre la stessa. Il Poema del cante jondo sembra dare ragione a chi crede che la poesia non si trovi mai davvero a casa propria, neanche quando sembra riposare nella sua stessa lingua.