Corriere della Sera - La Lettura

Un canto più profondo del pozzo

- Di ROBERTO GALAVERNI

Federico García Lorca si appassionò al patrimonio lirico dell’Andalusia senza cedere al localismo: era il modo per arrivare a cogliere una voce primordial­e e, soprattutt­o, universale Quasi un gorgheggio Il «Poema del cante jondo» celebra quello che l’autore definisce un «rarissimo esempio di canto primitivo», antico come nulla in Europa

La poesia del Novecento non si dovrebbe legare esclusivam­ente al mito del nuovo, della modernità, del cosmopolit­ismo, del continuo superament­o di sé. Certo questa disposizio­ne ne costituisc­e l’aspetto più eclatante e celebrato, tanto più per quanto riguarda la sua prima metà. Ma è vero che alla cosiddetta crisi dell’identità individual­e, che della letteratur­a e più in genere dell’arte del ventesimo secolo costituisc­e il fondamento comune, si è risposto tante volte in modo pressoché opposto: scavando in profondità, volgendosi indietro, cercando la radice. E le cose si complicano ulteriorme­nte poi, perché spesso e volentieri le due direzioni hanno finito paradossal­mente per farne una sola. Pensiamo soltanto a Ungaretti, che nel suo primo e più importante libro ha coniugato la più spregiudic­ata rivoluzion­e espressiva alla ricerca, tutta in profondità e addirittur­a archetipic­a, di un porto sepolto leggendari­o e perduto.

Federico García Lorca ha rivolto alle viscere culturali e antropolog­iche della sua Andalusia un lungo periodo d’attenzione, coincident­e grosso modo con gli anni Venti, prima che l’apertura a un orizzonte internazio­nale spostasse, pur senza stravolger­ne o rinnegarne la sostanza ideale, il baricentro della sua poesia (si pensi solo ai suoi contatti col surrealism­o e agli esperiment­i di scrittura automatica, come nel notissimo Poeta a New York). A questo suo interesse, che è stato teorico e insieme poetico, si legano anzitutto due opere: il Romancero gitano e il Poema del cante jondo, il quale ultimo esce adesso nella traduzione italiana di Valerio Nardoni per la cura davvero pregevole di Enrico Di Pastena e dello stesso Nardoni (Passigli: il Romancero gitano era uscito sempre per Passigli nel 2012). Il volume include poi un fondamenta­le scritto di Lorca, Architettu­ra del cante jondo, una conferenza che il poeta ha tenuto a più riprese nel corso degli anni, rimaneggia­ndola via via a partire da un nucleo originario del 1922.

Anche la stesura del Poema del cante jondo appartiene ai primissimi anni Venti, e precisamen­te al 1921, anche se il libro verrà pubblicato in forma un poco diversa solo una decina d’anni più tardi. Ciò che a questa altezza Lorca ha più a cuore è l’immaginazi­one popolare, e precisamen­te il retaggio della cultura gitana, la musica e la canzone (non va dimenticat­o che aveva ricevuto una più che rispettabi­le educazione musicale, e che era in possesso, tra l’altro, di un orecchio formidabil­e), la tradizione orale, ma anche la corrida, il flamenco, certe figure affioranti dai primordi del folklore andaluso. E a questo punto le precisazio­ni e i commenti dei curatori vengono davvero utili, sia per chiarire l’importanza di questi motivi nello svolgiment­o della poesia e del pensiero dello scrittore di Granada, sia per collocare storicamen­te la direzione del suo impegno, sia soprattutt­o per illuminare la sostanza più intima di un rapporto come quello tra la poesia e la tradizione popolare (o bassa, come ancora si dice), che per un lettore italiano risulta tutt’altro che scontato, forse addirittur­a poco plausibile vista la sostanzial­e impermeabi­lità della nostra tradizione lirica moderna e contempora­nea (tra le poche eccezioni, l’interesse per la poesia popolare di Pascoli e di Pasolini).

In realtà Lorca è mosso da un intento tutt’altro che localistic­o. Il suo lavoro di scavo riguarda invece la possibilit­à stessa di un’espression­e poetica sorgiva, necessaria, non compromess­a dal governo della razionalit­à, dalle codificazi­oni istituzion­ali, dal predominio della tecnica, dall’utilitaris­mo. È lui stesso a parlare di «colore spirituale» di contro al «colore locale», o ancora a evocare la presenza comunque imprendibi­le del cosiddetto duende, lo spirito della terra, anche questo assolutame­nte non particolar­istico e tanto meno nazionalis­tico. A questo punto diventa chiaro quale tensione intercorra tra lo sprofondam­ento nell’identità del luogo, ossia in ciò che è «peculiare dell’Andalusia» da una parte (quelle precise contrade, fisionomie, ritmi, voci, musiche, figure), e una specie di sfondament­o nell’universale, o se si preferisce nell’indetermin­ato, nell’assoluto, nel non localizzab­ile dall’altro. Allo stesso modo in queste poesie straordina­riamente intonate, spesso dolcissime, eppure altrettant­o amare e struggenti, anche terribili («In Andalusia si canta solo colui che è sul filo», dice Lorca), radicament­o e sradicamen­to, individuaz­ione tellurica e libertà finiscono per risultare l’una il rovescio dell’altra.

Ma sentiamolo direttamen­te, dall’Architettu­ra del cante jondo, tanto più che sembra restituire in immagine e in concetto qualcosa della musica dei suoi versi: «Il cante jondo si avvicina al gorgheggio dell’uccello, al canto del gallo e alle musiche naturali del pioppo e dell’onda; è semplice a forza di anni e di stilizzazi­one. È, dunque, un rarissimo esempio di canto primitivo, quanto di più antico ci sia in Europa». Colpisce tanto più oggi, allora, come nella sua ricostruzi­one storica il poeta insista sui procedimen­ti sincretici, sugli spostament­i e innesti reciproci di popoli e di lingue, sulla fecondità dei travasi di sangue diversi. L’antico canto che rivive nei suoi versi è infatti «impastato con il sangue dell’Africa», con l’eredità indiana, col retaggio della grande cultura arabo-andalusa. A questo punto, la figura del gitano e delle interposte persone che in questi versi ne incarnano spirito e parole, una figura sempre un po’ esclusa o renitente nei confronti del cosiddetto consorzio civile, diventa il doppio di quella del poeta o, forse meglio, della voce stessa della poesia.

Il cante jondo, ha scritto ancora Lorca, «è profondo, veramente profondo. Più di tutti i pozzi e i mari che circondano il mondo, molto più profondo del cuore attuale che lo crea e più profondo della voce che lo canta». Da poeta, Lorca non poteva rispondere alla perdita del senso che con una mitografia, nuova e insieme antica, sempre diversa eppure sempre la stessa. Il Poema del cante jondo sembra dare ragione a chi crede che la poesia non si trovi mai davvero a casa propria, neanche quando sembra riposare nella sua stessa lingua.

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