Corriere della Sera - La Lettura
«Il lutto ero io Così sono sopravvissuta a me stessa»
La vicenda Napoletana, 39 anni, Fuani Marino racconta il proprio tentato suicidio e le sue cause, i numerosi interventi chirurgici e i mesi di ospedalizzazione. «I segnali, a ben vedere, ci sono sempre» Le cause «Ero una giovane donna che non sopportava
In Lady Lazarus, una poesia scritta poco prima del suicidio, avvenuto l’11 febbraio 1963, Sylvia Plath scrive: «Morire/ è un’arte, come qualunque altra cosa./ Io lo faccio in modo magistrale». Oggi possiamo dirci lontani dalla teologia dantesca che colloca i suicidi nel II girone nel settimo cerchio dell’Inferno, eppure a essi si guarda sempre con retrospettivo sconcerto. Sarah Kane, Francesca Woodman, Virginia Woolf, Primo Levi, Cesare Pavese, David Foster Wallace, Anne Sexton sono alcuni nomi noti, poi ci sono moltissimi anonimi che secondo statistiche crescenti nei Paesi occidentali si suicidano. Perché? E soprattutto, si poteva evitare?
A porsi queste domande nel caso di Svegliami a mezzanotte non è un amico, un biografo, un medico o un sociologo, una terza persona che ha ricostruito a posteriori, come avviene in questi casi, i fatti.
Fuani Marino, 39 anni, napoletana, racconta in prima persona il proprio suicidio, fallito, e come sia sopravvissuta a sé stessa sette anni fa. «Il mio lutto ero io», scrive. Dopo un volo da un balcone a dodici metri di altezza. «Allora ho preso coraggio e mi sono buttata (...). C’ero solo io che precipitavo perché volevo farlo, perché quel volo era un mezzo per raggiungere la fine, mi sono detta questo: sta per finire. E poi sono caduta, ma non sono morta».
Alla mia domanda su quale fosse il suo intento nello scrivere questo memoir, così privo di pathos e per questo tanto più abrasivo, Fuani Marino (il nome è una crasi dai nomi dei genitori: Furio e Anita) risponde così: «Molti raccontano la perdita di una persona che si è uccisa. Le emozioni sono quasi sempre ambivalenti: pena, rabbia, rimorso, biasimo. A me è toccato riversare tutto questo nei confronti di me stessa. I numerosi interventi chirurgici e i lunghi mesi di ospedalizzazione che sono seguiti mi hanno tenuta impegnata, ma a un certo punto ho dovuto confrontarmi con quello che ero: una giovane donna che non era riuscita a sopportare la pressione del matrimonio, delle convenzioni sociali, delle ambizioni sul lavoro, della nascita di una figlia. Buttandomi da quel balcone ho vanificato in un attimo tutte le aspettative che avevo su di me. Ho voluto ricostruire la storia della mia depressione, cercarne i presagi nella mia vita precedente. I segnali ci sono sempre, a saperli vedere».
Il disagio psichico per molti versi è ancora tabù?
«Il suicidio sembra l’atto terminale di un malessere profondo con sé stessi ma anche con il mondo, come se la frattura fra ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere diventasse sempre più incolmabile. Per questo è sempre ritenuto deviante rispetto all’insieme di regole scritte e non scritte di una società. È indicibile, è peccato, è crimine. La malattia mentale non ha la stessa dignità delle altre. Di un malato di cancro si dice che lotta contro la sua malattia, di un malato mentale si tace».
Quindi il suo è anche un libro politico?
«Rivendico la dimensione politica di ciò che ho scritto. Credo sia importante poter parlare di malattia mentale, di depressione e di cura, senza incorrere nello stigma sociale. All’inizio della mia malattia non ero in grado di riconoscere i sintomi, l’alternarsi di picchi di euforia e cali spaventosi dell’umore, ad esempio, e io stessa non ho saputo accettare la diagnosi di disturbo bipolare che mi è stata fatta. Proprio perché la malattia mentale è considerata tabù, ricevere una diagnosi in tal senso è disarmante, lascia sgomenti. Molte persone non l’accettano, non assumono i farmaci che vengono prescritti e questo amplifica il problema. La mia storia potrebbe servire a molti altri che si trovano in queste stesse condizioni».
Lei racconta di uno psichiatra che a ogni incontro doveva nettarsi ripetutamente le mani con salviettine umidificate e poi le negò i farmaci antidepressivi perché avrebbero interferito con l’allattamento. Dunque anche da parte della medicina il disagio mentale può essere sottovalutato?
«Mi sono chiesta perché lo abbia fatto, forse pensava che allattando avrei stabilito un contatto positivo con mia figlia, ma in quel momento la mia sofferenza mentale mi impediva di apprezzare i
sentimenti, come l’amore che costituisce un solido appiglio, non riuscivo ad aggrapparmi a niente. Nel caso delle donne, credo che il venire meno al proprio ruolo di madre sia ancora più biasimato. Quante volte la depressione post partum viene sottostimata, ad esempio. Se mi avessero ricoverata allora, forse non sarebbe successo ciò che è successo. Non dovrei rimpiangere una me stessa che non c’è più, il dolore causato alla mia famiglia, il senso di colpa e inadeguatezza con cui faccio i conti ogni giorno».
Anche i farmaci sono in un certo senso tabù?
«Tutto ciò che ruota intorno alla malattia psichica lo è. Basaglia ha restituito il deviante alla società, ma si tratta di rivoluzioni molto lente nei fatti e nella pratica culturale. A volte si sente parlare di abuso di psicofarmaci, come se non si abusasse mille volte di più di antibiotici e antidolorifici. Gli psicofarmaci servono a riequilibrare uno stato mentale alterato, a rendere possibile di nuovo la vita per persone la cui sofferenza mentale è devastante. Non ha senso demonizzarli. Occorre affrontare l’ansia e la depressione come si affrontano il mal di stomaco e il mal di testa».
Lei scrive: «Il suicidio deriva da un eccesso di pensiero». Che cosa intende?
«Io non ho trovato una risposta al perché del mio gesto, ogni suicidio rimane un mistero individuale, come un mistero sono le persone; magari qualcun altro con la mia stessa storia avrebbe reagito diversamente. So che lo stato di prostrazione in cui mi trovavo era estremo, l’ansia indomabile. Non era tristezza, che è un sentimento con cui si può convivere, era totale mancanza di senso, lo scollamento rispetto agli altri, a me stessa, al mondo. Come se la mia testa moltiplicasse i giri a vuoto, e i miei sensi fossero divorati dal nulla. La depressione si nutre della perdita di significato che è una sensazione incompatibile con l’essere in vita, per questo spinge verso la morte».
È possibile la cura?
«Sì, curarsi è possibile. Ho scritto questo libro anche per ricostruire un percorso di cura. Sono stata fortunata: ho avuto i mezzi economici, la comprensione e il sostegno di chi mi stava intorno e di alcuni medici. Non sempre è così. La maggior parte delle persone che commettono suicidio ha avuto contatti con personale medico nei mesi immediatamente precedenti l’atto, ma questo con ogni evidenza non basta. Forse occorre pensare, come lo psichiatra Piero Cipriano, che “siamo tutti in un modo o nell’altro suscettibili di scivolare in quel piano inclinato della sofferenza psichica”. C’è chi è più predisposto, per ragioni biologiche, per le circostanze della vita ma, sempre per citare Cipriano, “siamo tutti potenzialmente matti, perché tutti potenzialmente indisponibili ad accettare le circostanze storiche in cui viviamo, tutti potenzialmente e intimamente disperati”. Difficile da introiettare in una cultura come la nostra che pone così tanto l’accento sul successo, la perfomance, il dover essere felici a tutti i costi».
A un certo punto di «Svegliami a mezzanotte» si domanda se pubblicare questo libro possa considerarsi un atto di autolesionismo. In un altro punto, invece, definisce curativa la scrittura. Dove pende maggiormente l’ago della bilancia?
«Sicuramente dalla parte della cura. Scrivere mi ha consentito di riaffrontare la mia vicenda, prenderla in mano, e prenderne le distanze, per quanto possibile. Dopo tanti fallimenti, l’ho vissuta come una prova di coraggio che volevo affrontare e superare. Un modo per rimediare al dolore, e creare un ponte, visto che non si scrive mai solo per sé stessi. Ho curato me stessa con l’unico artificio di cui ero capace. Poi certo mi sono domandata, e continuo a domandarmi, quale sarà la reazione di chi leggerà, avendo esposto così tanto me stessa e la mia vita, il che costituisce sempre un fatto scivoloso. Ma la malattia psichica è un luogo oscuro e io sono convinta che la letteratura debba indagare i luoghi oscuri, affinché lo siano un po’ di meno».