Corriere della Sera - La Lettura
Fino al Camerun inseguendo i metalli Le rotte dei Fenici
Storia Un’esposizione in Italia, una ricerca in Germania, un libro a più voci. Protagonisti, i pionieri della navigazione e dei commerci diventati poi padroni del Mediterraneo. Tutto cominciò grazie al cedro del Libano e ai suoi tronchi di 50 metri: fu così possibile costruire imbarcazioni che raggiunsero la Sicilia, la Sardegna, la Spagna, cercando giacimenti di stagno, rame e oro, impiantando miniere e manifatture, fondando città, spingendosi in Bretagna e lungo le coste atlantiche dell’Africa. Una grande civiltà di mare poi fermata soltanto da una grande civiltà di terra con la quale aveva collaborato: Roma
Senza un albero possente come il cedro, alto 50 metri, la storia del Mediterraneo sarebbe stata diversa. Con il legno di cedro, i Fenici di Tiro e Sidone furono in grado di costruire navi solide, capaci di affrontare lunghi viaggi, con un carico di merci fino a 150 tonnellate. Su quelle navi lunghe 30 metri i primi avventurieri fecero rotta verso occidente tremila anni fa. Ma la grande ondata partì un secolo dopo. I Fenici, maestri nell’arte del commercio, si lanciarono a caccia di metalli per venderli a principi e satrapi del Levante. Fu una vera corsa all’oro. Trasportavano legno, tessuti di lana e porpora da vendere o barattare; tornavano carichi di prodotti metalliferi.
Di notte si orientavano con le stelle: erano i più abili navigatori dell’antichità, conosciuti come «inventori della navigazione astrale». Seguivano due direttrici: una costeggiava l’Africa, l’altra passava per Cipro e puntava verso Creta, la Sicilia, la Sardegna, Ibiza, l’Andalusia. In Spagna, alle foci del Guadalquivir, trovarono l’oro. Si spinsero fino alle coste del Portogallo, dove scoprirono grosse riserve di stagno. Erano i disperati del primo millennio a. C., ma avevano messo in moto una vera conquista del Mediterraneo. Tanto che alcuni studiosi hanno paragonato la massiccia emigrazione dei Fenici alla colonizzazione del continente americano.
«Dal modo di agire dei conquistadores spagnoli nella caccia all’oro — spiega a “la Lettura” Massimo Cultraro, archeologo del Cnr — abbiamo capito come si muovevano i Fenici in una terra nuova e sconosciuta per individuare i luoghi dei metalli. Si servivano ano di informatori locali». Guidati dagli gli uomini dei nuraghi, i Fenici impianntarono un cantiere nel tormentato to territorio sardo del Sulcis. Erano bene ne organizzati con squadre di specialisti sti in grado di seguire le vene metallifere, re, minatori, carpentieri che puntellavano ano le gallerie, artigiani, fabbri, orefici. i. Nel buio dei tunnel il lavoro sporco era compito degli schiavi. Dal Sulcis estraevano rame (fuso con lo stagno dava il bronzo) e argento, ottenuto tenuto con procedimenti chimici di separazione da altri tri materiali. Fondevano i metalli ricavandone formelle circolari facili da caricare sulle navi.
Gli equipaggi appartenevano a varie etnie, Ciprioti, Fenici, Levantini. Parlavano lingue diverse. «Per comunicare fra loro — dice Cultraro — usavano savano la stessa tecnica dei pirati dei Caraibi, che erano no un miscuglio di predatori provenienti da vari angoli del mondo e per intendersi avevano inventato un loro linguaggio privato. Funzionava così anche sulle navi fenicie». nicie».
Rispetto ai miseri luoghi d’origine, ne, l’Occidente sembrò ai Fenici un paradiso con villaggi gi ricchi e coltivazioni floride. Molti decisero di restare invece di tornare a Oriente. I primi insediamenti portano ano i nomi di Lixus, Gades, Utica. Sulla costa africana individuarono dividuarono un golfo riparato, vicino a dove sorgerà Tunisi. nisi. E lì nell’814 a. C. gettarono le basi di quella che poi divenne ivenne la dominatri
ce del Mediterraneo, Karthadašt, Cartagine, Città nuova, più grande e opulenta della vecchia Tiro. Fu munita di due porti, uno dritto per le navi mercantili e l’altro, semicircolare, per le navi da guerra.
Ancora oggi quella città irradia un fascino straordinario. E ispira continue iniziative culturali. È appena uscito il libro Roma e Cartagine, due civiltà a confronto (Edizioni di Storia e Studi sociali), con gli scritti di dieci studiosi. Mentre a Roma, al Parco archeologico del Colosseo, è stata inaugurata il 27 settembre la prima grande mostra Carthago. Il mito immortale, che resterà aperta fino al 29 marzo 2020. Se ne occupano anche in Germania: l’Università di Tubinga ha affidato un progetto sulla cultura fenicia a un altro archeologo del Cnr, Paolo Xella, uno dei curatori della mostra romana. «Cartagine — dice Xella a “la Lettura” — segna l’inizio di una nuova espansione. La conquista dell’Occidente è avvenuta a opera di Fenici che mantenevano contatti con la madrepatria. Ora Cartagine apre una nuova fase. Ha tagliato i ponti con la lontana Fenicia. È lei la nuova Tiro. È una metropoli mediterranea, orgogliosa, potente; ha mezzo milione di abitanti». Cartagine ha il controllo del mare e prende sotto la sua protezione le colonie fenicie in Occidente. Garantisce pace e prosperità anche ai villaggi dell’entroterra, che s’arricchiscono di coltivazioni agricole, ulivi, viti, fichi, melograni. L’agronomo Magone insegna a coltivare la vite, i mandorli e il grano di cui Cartagine fa grande commercio.
La città spadroneggia. Difende le miniere spagnole dagli Etruschi, dai Greci e dai Romani. Vuole impossessarsi della Sardegna e per riuscirci si trova a combattere paradossalmente contro i discendenti dei primi Fenici arrivati sull’isola. I Cartaginesi, famelici di nuove ricchezze, non si accontentano del Mediterraneo. Sono i primi ad avventurarsi al di là delle Colonne d’Ercole, navigano intorno al Portogallo e alla costa settentrionale della Spagna, arrivano fino alla Bretagna alla ricerca di miniere metallifere. Nel V secolo a. C. Cartagine affida a un suo grande navigatore di nome Annone il compito di andare a fondare con 60 navi e 30 mila coloni nuovi centri abitati sulla costa atlantica del Marocco.
Poi Annone parte per un’altra missione, segue la costa dell’Africa fino al Camerun alla ricerca dell’oro. Pervasi da una religiosità magica, prima di ogni impresa navale i Fenici invocavano il dio Melqart, che proteggeva i naviganti e placava le tempeste. La religiosità contemplava sacrifici umani. A Tharros, in Sardegna, sono stati scoperti resti di bambini nel tofet, il santuario dove si svolgevano i riti. «Anche a Mozia — aggiunge Xella — sono emersi i resti di due bambini. Queste pratiche vanno comprese con la cultura e la sensibilità dell’epoca».
Non sempre i cartaginesi erano bellicosi. Con gli Etruschi strinsero rapporti amichevoli e commerciali verso la fine del VI secolo a. C., come testimoniano oggetti etruschi ritrovati a Cartagine, recipienti per il vino e vasi da banchetto. I Cartaginesi ricambiavano con doni molto rinomati, uova di struzzo decorate che gli archeologi hanno dissotterrato in alcuni siti dell’Etruria. Le iscrizioni incise sulle tre lamine d’oro trovate a Pyrgi, antico porto di Caere, l’odierna Cerveteri, ci informano che una delegazione di Cartaginesi partecipò a un importante evento religioso, la consacrazione di un tempio dove la dea etrusca Uni e quella fenicia Astarte venivano assimilate come un’unica divinità.
Con la mediazione degli Etruschi, i Cartaginesi stabilirono il primo contatto con Roma. Era il 505 a. C. e il console Lucio Giunio Bruto firmò con loro un trattato di collaborazione pacifica. Ma in seguito Roma estese il controllo al territorio italico e Cartagine ampliò il suo dominio sulla Sicilia fino a Messina. Adesso erano una contro l’altra in armi. Il 264 a. C. segna l’inizio dello scontro, degli odi e delle guerre implacabili. Cartagine era una potenza navale. Roma una potenza terrestre che aveva necessità di farsi valere anche sul mare. Perciò reclutò costruttori di navi nella Magna Grecia e in Sicilia. In quattro anni Roma costruì una flotta di 230 triremi e quinqueremi, un numero impressionante dato che Cartagine ne aveva al massimo 200. In più, le navi romane disponevano di uno strumento nuovo, il corvo, passerella che agganciava le imbarcazioni nemiche e permetteva ai soldati di combattere come sulla terraferma.
La battaglia finale divampò il 10 marzo 241 a. C. nelle acque delle isole Egadi, di fronte a Trapani. «Le fonti storiche facevano pensare all’isola di Favignana come luogo dello scontro — dice Valeria Li Vigni, soprintendente del Mare — ma mio marito ha dimostrato che l’urto avvenne più a nord, presso l’isoletta Levanzo». Il marito di Valeria era l’archeologo Sebastiano Tusa, morto in un incidente aereo in Etiopia la scorsa primavera. È stato lui a guidare per anni le ricerche sottomarine da cui sono emersi oggetti che danno l’idea della vita a bordo: ciotole, scodelle della mensa, brocche per il vino utile per farsi coraggio. Riportati alla luce anche rostri di navi. Su un rostro cartaginese è incisa l’invocazione al dio Baal perché faccia schiantare le navi nemiche. Se i cartaginesi si affidavano al dio, i Romani erano più pratici: facevano controllare i loro mezzi bellici dai seviri, magistrati. Sul fianco di un loro rostro si legge «Gaio Sestio, figlio di Publio, Quinto Salonio, figlio di Quinto, se
viri, hanno fatto il collaudo del rostro». Molti cartaginesi furono condotti schiavi a Roma, fra loro il commediografo Publio Terenzio Afro, poi affrancato dal senatore Terenzio Lucano. Li confinarono sull’Esquilino, al Vicus africanus. I Romani si prendevano gioco dei Fenici, li chiamavano pultiphagonides, mangiatori di minestra. Li reputavano corrotti, infidi, crudeli, traditori, ridevano del loro modo di portare la tunica senza cintura. Un personaggio di Plauto dice che «i punici non hanno le dita, gli anelli li portano alle orecchie». Dopo la battaglia delle Egadi il Mediterraneo passò sotto il controllo dei romani. E nel 146 a. C. Cartagine, la città dell’oro, fu data alle fiamme. Plinio racconta che bruciavano i «tetti di pece». Ma fu soltanto nel 67 a. C., quando Pompeo annientò i pirati che minacciavano i commerci nell’area orientale, che il Mediterraneo divenne Mare Nostrum.