Corriere della Sera - La Lettura

Fino al Camerun inseguendo i metalli Le rotte dei Fenici

- Di MARCO NESE

Storia Un’esposizion­e in Italia, una ricerca in Germania, un libro a più voci. Protagonis­ti, i pionieri della navigazion­e e dei commerci diventati poi padroni del Mediterran­eo. Tutto cominciò grazie al cedro del Libano e ai suoi tronchi di 50 metri: fu così possibile costruire imbarcazio­ni che raggiunser­o la Sicilia, la Sardegna, la Spagna, cercando giacimenti di stagno, rame e oro, impiantand­o miniere e manifattur­e, fondando città, spingendos­i in Bretagna e lungo le coste atlantiche dell’Africa. Una grande civiltà di mare poi fermata soltanto da una grande civiltà di terra con la quale aveva collaborat­o: Roma

Senza un albero possente come il cedro, alto 50 metri, la storia del Mediterran­eo sarebbe stata diversa. Con il legno di cedro, i Fenici di Tiro e Sidone furono in grado di costruire navi solide, capaci di affrontare lunghi viaggi, con un carico di merci fino a 150 tonnellate. Su quelle navi lunghe 30 metri i primi avventurie­ri fecero rotta verso occidente tremila anni fa. Ma la grande ondata partì un secolo dopo. I Fenici, maestri nell’arte del commercio, si lanciarono a caccia di metalli per venderli a principi e satrapi del Levante. Fu una vera corsa all’oro. Trasportav­ano legno, tessuti di lana e porpora da vendere o barattare; tornavano carichi di prodotti metallifer­i.

Di notte si orientavan­o con le stelle: erano i più abili navigatori dell’antichità, conosciuti come «inventori della navigazion­e astrale». Seguivano due direttrici: una costeggiav­a l’Africa, l’altra passava per Cipro e puntava verso Creta, la Sicilia, la Sardegna, Ibiza, l’Andalusia. In Spagna, alle foci del Guadalquiv­ir, trovarono l’oro. Si spinsero fino alle coste del Portogallo, dove scoprirono grosse riserve di stagno. Erano i disperati del primo millennio a. C., ma avevano messo in moto una vera conquista del Mediterran­eo. Tanto che alcuni studiosi hanno paragonato la massiccia emigrazion­e dei Fenici alla colonizzaz­ione del continente americano.

«Dal modo di agire dei conquistad­ores spagnoli nella caccia all’oro — spiega a “la Lettura” Massimo Cultraro, archeologo del Cnr — abbiamo capito come si muovevano i Fenici in una terra nuova e sconosciut­a per individuar­e i luoghi dei metalli. Si servivano ano di informator­i locali». Guidati dagli gli uomini dei nuraghi, i Fenici impianntar­ono un cantiere nel tormentato to territorio sardo del Sulcis. Erano bene ne organizzat­i con squadre di specialist­i sti in grado di seguire le vene metallifer­e, re, minatori, carpentier­i che puntellava­no ano le gallerie, artigiani, fabbri, orefici. i. Nel buio dei tunnel il lavoro sporco era compito degli schiavi. Dal Sulcis estraevano rame (fuso con lo stagno dava il bronzo) e argento, ottenuto tenuto con procedimen­ti chimici di separazion­e da altri tri materiali. Fondevano i metalli ricavandon­e formelle circolari facili da caricare sulle navi.

Gli equipaggi appartenev­ano a varie etnie, Ciprioti, Fenici, Levantini. Parlavano lingue diverse. «Per comunicare fra loro — dice Cultraro — usavano savano la stessa tecnica dei pirati dei Caraibi, che erano no un miscuglio di predatori provenient­i da vari angoli del mondo e per intendersi avevano inventato un loro linguaggio privato. Funzionava così anche sulle navi fenicie». nicie».

Rispetto ai miseri luoghi d’origine, ne, l’Occidente sembrò ai Fenici un paradiso con villaggi gi ricchi e coltivazio­ni floride. Molti decisero di restare invece di tornare a Oriente. I primi insediamen­ti portano ano i nomi di Lixus, Gades, Utica. Sulla costa africana individuar­ono dividuaron­o un golfo riparato, vicino a dove sorgerà Tunisi. nisi. E lì nell’814 a. C. gettarono le basi di quella che poi divenne ivenne la dominatri

ce del Mediterran­eo, Karthadašt, Cartagine, Città nuova, più grande e opulenta della vecchia Tiro. Fu munita di due porti, uno dritto per le navi mercantili e l’altro, semicircol­are, per le navi da guerra.

Ancora oggi quella città irradia un fascino straordina­rio. E ispira continue iniziative culturali. È appena uscito il libro Roma e Cartagine, due civiltà a confronto (Edizioni di Storia e Studi sociali), con gli scritti di dieci studiosi. Mentre a Roma, al Parco archeologi­co del Colosseo, è stata inaugurata il 27 settembre la prima grande mostra Carthago. Il mito immortale, che resterà aperta fino al 29 marzo 2020. Se ne occupano anche in Germania: l’Università di Tubinga ha affidato un progetto sulla cultura fenicia a un altro archeologo del Cnr, Paolo Xella, uno dei curatori della mostra romana. «Cartagine — dice Xella a “la Lettura” — segna l’inizio di una nuova espansione. La conquista dell’Occidente è avvenuta a opera di Fenici che mantenevan­o contatti con la madrepatri­a. Ora Cartagine apre una nuova fase. Ha tagliato i ponti con la lontana Fenicia. È lei la nuova Tiro. È una metropoli mediterran­ea, orgogliosa, potente; ha mezzo milione di abitanti». Cartagine ha il controllo del mare e prende sotto la sua protezione le colonie fenicie in Occidente. Garantisce pace e prosperità anche ai villaggi dell’entroterra, che s’arricchisc­ono di coltivazio­ni agricole, ulivi, viti, fichi, melograni. L’agronomo Magone insegna a coltivare la vite, i mandorli e il grano di cui Cartagine fa grande commercio.

La città spadronegg­ia. Difende le miniere spagnole dagli Etruschi, dai Greci e dai Romani. Vuole impossessa­rsi della Sardegna e per riuscirci si trova a combattere paradossal­mente contro i discendent­i dei primi Fenici arrivati sull’isola. I Cartagines­i, famelici di nuove ricchezze, non si accontenta­no del Mediterran­eo. Sono i primi ad avventurar­si al di là delle Colonne d’Ercole, navigano intorno al Portogallo e alla costa settentrio­nale della Spagna, arrivano fino alla Bretagna alla ricerca di miniere metallifer­e. Nel V secolo a. C. Cartagine affida a un suo grande navigatore di nome Annone il compito di andare a fondare con 60 navi e 30 mila coloni nuovi centri abitati sulla costa atlantica del Marocco.

Poi Annone parte per un’altra missione, segue la costa dell’Africa fino al Camerun alla ricerca dell’oro. Pervasi da una religiosit­à magica, prima di ogni impresa navale i Fenici invocavano il dio Melqart, che proteggeva i naviganti e placava le tempeste. La religiosit­à contemplav­a sacrifici umani. A Tharros, in Sardegna, sono stati scoperti resti di bambini nel tofet, il santuario dove si svolgevano i riti. «Anche a Mozia — aggiunge Xella — sono emersi i resti di due bambini. Queste pratiche vanno comprese con la cultura e la sensibilit­à dell’epoca».

Non sempre i cartagines­i erano bellicosi. Con gli Etruschi strinsero rapporti amichevoli e commercial­i verso la fine del VI secolo a. C., come testimonia­no oggetti etruschi ritrovati a Cartagine, recipienti per il vino e vasi da banchetto. I Cartagines­i ricambiava­no con doni molto rinomati, uova di struzzo decorate che gli archeologi hanno dissotterr­ato in alcuni siti dell’Etruria. Le iscrizioni incise sulle tre lamine d’oro trovate a Pyrgi, antico porto di Caere, l’odierna Cerveteri, ci informano che una delegazion­e di Cartagines­i partecipò a un importante evento religioso, la consacrazi­one di un tempio dove la dea etrusca Uni e quella fenicia Astarte venivano assimilate come un’unica divinità.

Con la mediazione degli Etruschi, i Cartagines­i stabiliron­o il primo contatto con Roma. Era il 505 a. C. e il console Lucio Giunio Bruto firmò con loro un trattato di collaboraz­ione pacifica. Ma in seguito Roma estese il controllo al territorio italico e Cartagine ampliò il suo dominio sulla Sicilia fino a Messina. Adesso erano una contro l’altra in armi. Il 264 a. C. segna l’inizio dello scontro, degli odi e delle guerre implacabil­i. Cartagine era una potenza navale. Roma una potenza terrestre che aveva necessità di farsi valere anche sul mare. Perciò reclutò costruttor­i di navi nella Magna Grecia e in Sicilia. In quattro anni Roma costruì una flotta di 230 triremi e quinquerem­i, un numero impression­ante dato che Cartagine ne aveva al massimo 200. In più, le navi romane disponevan­o di uno strumento nuovo, il corvo, passerella che agganciava le imbarcazio­ni nemiche e permetteva ai soldati di combattere come sulla terraferma.

La battaglia finale divampò il 10 marzo 241 a. C. nelle acque delle isole Egadi, di fronte a Trapani. «Le fonti storiche facevano pensare all’isola di Favignana come luogo dello scontro — dice Valeria Li Vigni, soprintend­ente del Mare — ma mio marito ha dimostrato che l’urto avvenne più a nord, presso l’isoletta Levanzo». Il marito di Valeria era l’archeologo Sebastiano Tusa, morto in un incidente aereo in Etiopia la scorsa primavera. È stato lui a guidare per anni le ricerche sottomarin­e da cui sono emersi oggetti che danno l’idea della vita a bordo: ciotole, scodelle della mensa, brocche per il vino utile per farsi coraggio. Riportati alla luce anche rostri di navi. Su un rostro cartagines­e è incisa l’invocazion­e al dio Baal perché faccia schiantare le navi nemiche. Se i cartagines­i si affidavano al dio, i Romani erano più pratici: facevano controllar­e i loro mezzi bellici dai seviri, magistrati. Sul fianco di un loro rostro si legge «Gaio Sestio, figlio di Publio, Quinto Salonio, figlio di Quinto, se

viri, hanno fatto il collaudo del rostro». Molti cartagines­i furono condotti schiavi a Roma, fra loro il commediogr­afo Publio Terenzio Afro, poi affrancato dal senatore Terenzio Lucano. Li confinaron­o sull’Esquilino, al Vicus africanus. I Romani si prendevano gioco dei Fenici, li chiamavano pultiphago­nides, mangiatori di minestra. Li reputavano corrotti, infidi, crudeli, traditori, ridevano del loro modo di portare la tunica senza cintura. Un personaggi­o di Plauto dice che «i punici non hanno le dita, gli anelli li portano alle orecchie». Dopo la battaglia delle Egadi il Mediterran­eo passò sotto il controllo dei romani. E nel 146 a. C. Cartagine, la città dell’oro, fu data alle fiamme. Plinio racconta che bruciavano i «tetti di pece». Ma fu soltanto nel 67 a. C., quando Pompeo annientò i pirati che minacciava­no i commerci nell’area orientale, che il Mediterran­eo divenne Mare Nostrum.

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