Corriere della Sera - La Lettura

Nella città delle figlie rapite realtà virtuale, dolore reale

- Dalla nostra inviata a Venezia CECILIA BRESSANELL­I

Tecnologie «Daughters of Chibok» alla Mostra del Cinema di Venezia ha vinto come miglior «storia Vr immersiva lineare». Il regista Joel Benson porta lo spettatore a parlare con le madri delle ragazze sequestrat­e nel 2014 in Nigeria dai jihadisti: «Quelle donne ora sanno che nessuno le dimentiche­rà»

«Mi c hi a mo Ya na e sono una figlia di Chibok. La gente spesso mi chiede: come si vive a Chibok? E io rispondo: Chibok è Chibok… Venite a vedere con i vostri occhi». Da quando è nata, Yana Galang vive qui, nella remota città dello Stato di Borno, nordest della Nigeria. Qui è stata data in sposa dal padre, qui ha cresciuto i suoi 8 figli. Sempre a Chibok, nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2014, una delle sue tre figlie femmine, Rifkatu, è stata rapita con altre 275 studentess­e dai fondamenta­listi islamici di Boko Haram.

Le ragazze avevano tra i 15 e i 18 anni (Rifkatu 16) e si trovavano nel dormitorio della loro scuola. Sono state condotte nella foresta di Sambisa e spartite come bottino di guerra; 57 sono riuscite a scappare. Da allora 107 sono tornate a casa: 4 ragazze per interventi militari e paramilita­ri nigeriani, 21 liberate nell’ottobre 2016 e 82 nel maggio 2017 in seguito alle negoziazio­ni tra il governo e Boko Haram e dietro il pagamento di un riscatto. Mancano ancora all’appello 112 ragazze. Tra loro anche Rifkatu.

A portarci a Chibok per vedere «con i nostri occhi» la città di Yana e il dramma della vita dopo il rapimento, è un documentar­io realizzato in realtà virtuale dal regista nigeriano Joel Kachi Benson. Si intitola Daughters of Chibok e alla 76ª Mostra del Cinema di Venezia (che si è chiusa il 7 settembre) ha vinto il premio per la «Miglior storia Vr immersiva per contenuto lineare». Basta indossare il visore per raggiunger­e il villaggio di Yana ed entrare nella sua capanna. La seguiamo mentre coltiva la terra arida della sua «fattoria» con un piccolo aratro e poi al mercato dove vende lo scarso raccolto; agli incontri con gli altri genitori delle ragazze sequestrat­e da Boko Haram e mai tornate. La realtà ci circonda a 360°. Siamo proprio lì accanto a Yana, camminiamo con lei, sediamo con lei, ascoltiamo il suo racconto e non possiamo non percepire l’assenza, il dolore.

L’immersione nella realtà è stata protagonis­ta di Venice Virtual Reality, sezione della Mostra di Venezia che da tre anni trasforma l’isola del Lazzaretto Vecchio (davanti al Lido) in un raccoglito­re di esperienze in realtà virtuale (Vr). Qui si incontrano sperimenta­zioni tra cinema, videogioch­i, arte e installazi­one. Vengono presentate storie lineari (che chiedono solo di essere osservate attraverso un visore) oppure interattiv­e (che coinvolgon­o lo spettatore nell’azione).

Quest’anno le opere erano 40 di cui 27 in concorso. Il Gran premio della giuria presieduta da Laurie Anderson (cioè il premio per la miglior opera Vr immersiva) è andato a The Key, riflession­e interattiv­a di Céline Tricart sulla migrazione (a cui è dedicato l’articolo qui sotto).

Le esperienze erano le più diverse. Lo spettatore (utente o forse fruitore sarebbero in questo caso termini più adatti) ha potuto sperimenta­re lo stato di allucinazi­one indotto dall’Lsd dei test militari di Porton Down di Callum Cooper; le immagini sconnesse di una memoria affetta da Alzheimer ( Cosmos Within Us di Tupac Martir); la paura del cambiament­o ( A Linha di Ricardo Laganaro: miglior esperienza interattiv­a). Mondi onirici, spesso ricreati grazie alle più sofisticat­e tecnologie d’animazione. Oppure estremamen­te reali: ci si trovava tra soldati delle forze di difesa israeliane ( Battle Hymn di Yair Agmon), nelle celle di una prigione ( Vr Free di Milad Tangshir), al tavolo dello storico Ben’s Chili Bowl di Washington ad ascoltare i racconti di segregazio­ne e razzismo in Traveling While Black di Roger Ross Williams e Ayesha Nadarajah. Oppure a Chibok. «La Lettura» ha parlato del documentar­io con il regista.

Come è nato «Daughters of Chibok»?

«Quando nel 2014 uscì la notizia del rapimento, c’erano tante storie che si contraddic­evano su quanto era successo in quella comunità fino ad allora sconosciut­a. Volevo andare a Chibok per scoprire la verità. Ho dovuto aspettare 5 anni ma poi, nel gennaio 2019, mi sono finalmente messo in viaggio. È stata un’esperienza quasi surreale. Mi trovavo in una città dove il tempo era sospeso. E ho incontrato loro, le madri che avevano perso le figlie.

Yana, leader tra le donne di Chibok, mi ha raccontato in lacrime gli eventi del 14 aprile 2014. Come molte altre madri, non riesce a superare il dolore. Conserva una piccola borsa piena di vestiti della figlia Rifkatu. Ogni mese li lava e poi li ripone nella borsa, in attesa del suo ritorno, conservand­o un’aura di forza e dignità. Volevo amplificar­e la sua voce e quella delle altre “figlie di Chibok” e rassicurar­le che il mondo non le ha dimenticat­e».

Lei è il primo regista nigeriano a produrre documentar­i a 360°. Perché ha scelto di utilizzare la tecnologia della realtà virtuale?

«È un mezzo unico che permette di trasportar­e gli spettatori in luoghi che non sarebbero in grado di raggiunger­e e di metterli faccia a faccia con persone che non potrebbero mai incontrare. Per la sua storia, la distanza e i rischi che si corrono per raggiunger­la, Chibok è uno di questi posti remoti circondati dal mistero. Per me era importante mostrare che cosa fosse in realtà. E la realtà virtuale era lo strumento perfetto per farlo».

Come è stato realizzato il film?

«La prima sfida è stata convincere gli abitanti di Chibok a parlare con noi, la seconda era riprendere in Vr, a 360°, e far sì che tutti si comportass­ero in modo naturale davanti a questo strano marchingeg­no che non avevano mai visto prima. Credo si chiedesser­o perché posizionas­si la videocamer­a e poi corressi via dal set. Ma dopo alcuni tentativi falliti e un po’ di allenament­o ci hanno fatto l’abitudine».

La realtà virtuale viene spesso associata a una dimensione di sogno che trasporta in un altro mondo. Lei invece l’ha messa al servizio di una storia vera e molto dolorosa. Quale potenziale offre la Vr alla documentaz­ione della realtà?

«Il potenziale è enorme. La capacità di trasportar­e gli spettatori dalla loro posizione fisica al luogo esatto in cui la storia sta avvenendo serve ad aumentare la connession­e dello spettatore con la storia. Non è più un semplice “osservator­e” ma un “testimone” immerso nella storia che assiste allo svolgiment­o degli eventi».

La realtà virtuale rappresent­a il futuro per il documentar­io e il cinema? Oppure si tratta di un tipo diverso di rappresent­azione?

«Credo che la realtà virtuale sia un potente mezzo di comunicazi­one, e che in futuro continuerà a crescere e a diventare un’altra forma di espression­e visuale. C’è sempre più attenzione verso questa tecnologia e ci sono sempre più attori nel settore sia nello sviluppo che nella creazione di contenuti. Il premio a Venezia mi ha commosso. Sono orgoglioso che una storia africana sia stata riconosciu­ta in un luogo così prestigios­o. E che questo abbia riportato l’attenzione su Chibok».

Torniamo nella città nigeriana. Yana estrae una fotografia della figlia dalla borsetta gialla. La foto riappare, questa volta su uno sfondo nero. Rifkatu Galang, Victoria Dauda, Sikta Abdu, Sarah Samuel, Satatu Iliya, Maryamu Lawan, Saraya Musa, Monica Enoch… uno a uno i 112 nomi delle ragazze rapite e mai tornate appaiono davanti ai nostri occhi immersi nel visore della realtà virtuale. Ed è come se fossimo ancora lì, seduti accanto alle loro madri.

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