Corriere della Sera - La Lettura

Una chiave che ci riporta a casa

- Da Venezia GIANCARLO GROSSI

Frontiere Céline Tricart ha ottenuto il Gran premio della giuria alla Mostra: «The Key» trasforma lo «storytelli­ng» in «storylivin­g»

La prima richiesta della donna è di non dimenticar­e mai la chiave. La seconda, di aiutarla a cercare, tra i suoi sogni, le memorie perdute dell’infanzia. Quando entriamo nell’anticamera di

The Key, l’esperienza immersiva scritta e diretta da Céline Tricart vincitrice del Gran premio per la miglior opera Vr al Venice Virtual Reality, è paradossal­mente una donna in carne e ossa ad accoglierc­i.

Una volta accettata la missione, possiamo infilare visore e controller e penetrare in uno scenario onirico e famigliare: l’interno di un’abitazione sospesa dalle nuvole, parte di una città celeste visibile da ogni finestra, dove si è liberi di interagire con tre sfere animate incandesce­nti che siamo invitati a custodire. Impresa che si dimostra subito non scontata: un’esplosione distrugge le mura e disperde ogni sfera nell’etere, mentre precipitia­mo in scenari apocalitti­ci dove dovremo fuggire, inclusi in una fila di ominidi dal volto bianco, da un mostruoso leviatano, verso un’ipotetica terra promessa.

È nelle transizion­i tra queste visioni che si rivela, in un risveglio segnato dal passaggio dall’animazione all’immagine fotografic­a, il trauma dimenticat­o: una casa distrutta dai bombardame­nti in Medio Oriente, la necessità di emigrare verso un porto sicuro, l’assenza di accoglienz­a. Unico elemento onirico a permanere, una volta rimosso il visore, è ancora la chiave. È infatti intorno a quest’ultima, spiega Céline Tricart, che nel 2018 è nata l’idea dell’esperienza, grazie all’incontro con Lauren Brockett, responsabi­le dell’associazio­ne no profit Friends of Refugees: «È stato quando Lauren mi ha raccontato la storia di molti rifugiati che conservano la chiave della loro casa, anche se potrebbe non esistere più e probabilme­nte non vi faranno mai più ritorno, che ho capito di avere la storia di cui avevo bisogno».

La singolarit­à maggiore di The Key consiste nell’immaginari­o fantastico, denso di realismo magico, con cui affronta la migrazione, le cui fonti d’ispirazion­e dichiarate sono Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro e

Big Fish di Tim Burton. Una metafora onirica che tiene conto della profonda analogia tra l’immersione in ambienti virtuali e la dimensione del sogno. Tricart afferma di essere lei stessa una sognatrice lucida: «La prima volta che ho provato un sistema di realtà virtuale room

scale (tecnologia che traduce in tempo reale l’ambiente circostant­e e l’interazion­e degli utenti in immagini Vr,

ndr) ho pensato che fosse la cosa più vicina ai sogni lucidi di cui abbia mai fatto esperienza».

Anche The Key sfrutta a pieno questa tecnologia, combinando diverse forme di interattiv­ità, dal teatro immersivo al videogame. Questo processo cambia radicalmen­te l’idea di storytelli­ng, che si tramuta in storyli

ving: «La maggiore sfida per me era creare l’interattiv­ità senza perdere la via dell’emozione». La chiave è la semplicità: non sono infatti previsti compiti complessi come in un videogame, basta toccare personaggi e oggetti per interagire con loro.

Si è spesso parlato, a partire dal Ted Talk di Chris Milk del 2015 e da Carne y Arena (2017) di Alejandro González Iñárritu (presentato alla Fondazione Prada di Milano), della realtà virtuale come «definitiva macchina dell’empatia». Lo stile di Tricart si differenzi­a però radicalmen­te dal proposito di mettere l’utente nei panni di qualcun altro: «Penso che chiunque nel campo della Vr sia stanco di sentire la parola d’ordine della “macchina dell’empatia”. È incredibil­mente difficile ottenere empatia, nella Vr come al di fuori». Al contrario, è importante che sia lo stesso vissuto del «visitatore» a entrare in gioco nell’immersione virtuale: «Quel che importa di più per me sono la storia e il modo in cui l’audience ne fa esperienza. La Vr è un medium in prima persona».

Su come questa tecnologia possa rappresent­are anche un’opportunit­à politica, Céline Tricart si divide tra dubbi e speranze: «Il mio desiderio è che si crei un legame tra “spettatori” e rifugiati. Durante il Festival di Venezia ho visto alcuni politici provare The Key. Sarà abbastanza per cambiare il modo in cui l’Italia affronta il tema dei migranti?». I sogni spesso portano consiglio.

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