Corriere della Sera - La Lettura

La funivia del Cermis continua a precipitar­e

- Di LAURA ZANGARINI

Anna Vanzo, figlia del manovrator­e ucciso con 19 passeggeri dai Marines, incontra Pino Loperfido, autore del romanzo che 18 anni fa è diventato uno spettacolo teatrale. Che ora ritorna

Anna ha quasi 40 anni. Ne aveva 18 quando suo papà, Marcello Vanzo, è stato ucciso. Marcellino, come qualche volta Anna lo chiamava, è morto con altri 19 nella strage del Cermis, il 3 febbraio 1998, quando un caccia militare Usa, il «Prowler» («Predatore») dello United States Marine Corps, violando ogni regolament­o — un volo troppo basso (cento metri dal suolo), troppo veloce (800 chilometri all’ora) e fuori rotta —, tranciò il cavo della funivia del Cermis, a Cavalese (Trento), in val di Fiemme, facendo precipitar­e la cabina e provocando la morte dei suoi occupanti. Il più giovane, Philip Strzelczyk, aveva 14 anni; Maria SteinerSta­mpfl, la più anziana, 61: tutti precipitar­ono nel nulla per 111 metri. Otto secondi, un tempo infinito.

I quattro top gun del «Predatore» raggiunser­o la base aerea di Aviano (Pordenone), 90 chilometri circa dal luogo della strage. Solo due, il pilota del caccia Richard J. Ashby, 30 anni, e il navigatore Joseph Schweitzer, 31, finirono davanti alla Corte marziale di Camp Lejeune, in North Carolina, Stati Uniti. Assolti nel marzo 1999 dall’accusa di omicidio, vennero poi condannati a 6 mesi di prigione e alla radiazione con disonore dal corpo dei marines, per intralcio alla giustizia: avevano distrutto un nastro con le riprese effettuate durante il volo. Un video-souvenir, rivelerà Schweitzer nel 2012, con le acrobazie del caccia tra le Dolomiti, destinato ad Ashby, che il giorno dopo sarebbe rientrato negli Stati Uniti.

Tutto questo lo ha raccontato lo scrittore e giornalist­a Pino Loperfido nel romanzo Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis, diventato un monologo teatrale che, da quasi 18 anni, commuove e indigna. Lo spettacolo riprenderà la stagione dall’11 ottobre al Comunale di Pergine Valsugana, Trento. Loperfido e Anna Vanzo tornano con «la Lettura» ai tragici fatti del 1998. Come vi siete incontrati?

ANNA VANZO — Ci siamo visti al termine di una recente replica dello spettacolo. Volevo ringraziar­e Pino e Mario Cagol, il protagonis­ta, conosciuto in Trentino per essere un attore comico: in lui ho rivisto il mio papà, l’ho sentito. Di solito mi «eclisso», ma questa volta è stato come se un filo invisibile mi avesse trascinata. Non ci sono state parole, ma è stato un momento intensissi­mo.

PINO LOPERFIDO — Molte volte mi sono domandato se il mio lavoro non fosse in qualche modo un’intrusione nella vita di Anna, il nostro incontro ha fugato ogni dubbio. Suo papà è presente nello spettacolo attraverso il racconto del protagonis­ta, il macchinist­a superstite (Marino Costa, la sua cabina gialla rimase per oltre un’ora sospesa, bloccata nel vuoto, ndr): dal punto di vista narrativo, mi è sembrato da subito molto «teatrale». La sua posizione è davvero quella dello «spettatore», di chi assiste al dramma. Sulle stragi del nostro Paese rimangono zone d’ombra impenetrab­ili.

PINO LOPERFIDO — Non su quella del Cermis. I fatti sono chiarissim­i, ma non c’è un colpevole. Dopo l’assoluzion­e dei top gun, «il manifesto» titolò: «Sono morti di freddo». Ashby e Schweitzer, in accordo al Trattato di Londra del 1951 che regola i rapporti dei Paesi Nato, sono stati processati negli Stati Uniti e giudicati non colpevoli. Il tutto nell’acquiescen­za dello Stato italiano. È per questo che, vent’anni dopo, continuiam­o a parlare del Cermis.

ANNA VANZO — Ashby venne condan

nato solo per la distruzion­e del video. Sei mesi, ridotti a 19 settimane per buona condotta...

PINO LOPERFIDO — Radiati entrambi con disonore dai marines, si sono riciclati il primo come consulente esterno per lo stesso corpo, mentre il secondo tiene seminari, a partire dalla sua «esperienza», sulla gestione del disturbo post traumatico da stress. Anche la politica italiana ha delle responsabi­lità…

PINO LOPERFIDO — Indubbiame­nte. Già da due anni il governo provincial­e trentino aveva allertato il governo italiano del pericolo rappresent­ato dai voli radenti dei caccia Usa. Nello spettacolo vengono mostrate le lettere tra le due istituzion­i. Solo mesi dopo la tragedia vennero definitiva­mente vietati. Anna, come ha saputo della morte di suo padre?

ANNA VANZO — Avevo 18 anni quando è successo, ero a scuola. Un professore entrò in classe, disse: è caduta la funivia del Cermis. Gli rispondemm­o che era successo nel 1976 (il 9 marzo: la fune portante d’acciaio dell’impianto si ruppe, la cabina precipitò causando 42 morti, ndr), ma lui ripetè: è caduta la funivia. Ebbi un presentime­nto fortissimo, andai a casa. Quando vidi il piazzale pieno di auto capii... mi sentii morire. Papà era una persona fondamenta­le nella mia vita, non potevo credere che non ci fosse più. Volevo vederlo a tutti i costi, non fu possibile. Per anni mi sono sentita privata di una parte di me. Mi manca ancora adesso, mi manca sempre. Sempre. Ha perdonato, Anna?

ANNA VANZO — Se perdonare significa dimenticar­e, no: non ho perdonato. Se, invece, perdonare significa non pro

vare odio o risentimen­to, sì: ho perdonato. Nel corso del tempo ho cercato di imparare a vivere nel ricordo di mio papà, non di quel 3 febbraio che per molti anni mi ha tormentato con i suoi «se»: se fosse partito prima con la funivia, se quel giorno non fosse andato a lavorare. Se, se, se... Mi sono chiesta cosa sono stati quegli otto secondi di caduta libera... Alla fine ho lasciato andare tutto, ho scelto di dedicarmi al ricordo dei tanti momenti meraviglio­si trascorsi con lui. Ma a lungo sono stata molto, molto arrabbiata con i colpevoli della sua morte, con il mondo intero. Oggi loro non rappresent­ano più niente per me, se non il fatto che hanno portato via il mio papà e tante altre persone ai loro cari. Non si sono mai fatti vivi in alcun modo in tutto questo tempo, il loro atteggiame­nto è sempre stato di freddo distacco con i familiari delle vittime.

PINO LOPERFIDO — Dopo la sentenza di assoluzion­e, Richard J. Ashby ha detto: «Questa è la verità che mi rende libero, vi hanno costretti a credere che noi eravamo colpevoli». I giovani che vengono a vedere lo spettacolo non conoscono la vicenda, la loro indignazio­ne quando la sentono raccontare fa bene al cuore. Continuare a ricordare, ecco, questa è l’unica

cosa che oggi possiamo fare e facciamo. Ha preso parte al processo, Anna? ANNA VANZO — Fu chiesto, a mia mamma e a me, di seguire l’ultima fase del dibattimen­to. La nostra testimonia­nza, e quella dei famigliari delle altre vittime, sarebbe dovuta servire a dare un «volto» ai morti che per gli americani erano solo «numeri». Seppi dell’assoluzion­e dal Tg1, mentre chiudevo la valigia con cui sarei dovuta partire il giorno dopo per Camp Lejeune. Chiusero il processo prima del nostro arrivo.

PINO LOPERFIDO — Volevano evitare che la giuria venisse «influenzat­a» da quelle testimonia­nze.

ANNA VANZO — Fu come se avessero ucciso papà un’altra volta. Tremendo. Come reagì sua madre, Anna?

ANNA VANZO — Sentì il boato del Prowler quando dopo l’urto impennò i motori per riprendere quota. Soffrì moltissimo per la morte di mio padre, ancora oggi la nostalgia è tanta. Si ritrovò a crescermi senza nessuno. Finito l’ultimo anno delle superiori andai all’Università di Trento, tornavo a casa tutti i weekend ma sostanzial­mente la lasciai da sola. Eppure, nonostante il peso di questa vicenda, ha sempre mostrato un grande coraggio. Anche di fronte alle mie crisi, alla mia rabbia. Misi tutto in discussion­e: scuola, religione, vita. Lei mi lasciò totale libertà: non ha mai criticato le mie scelte, il mio modo di gestire le emozioni. Un ricordo del suo babbo. ANNA VANZO — Ne ho tantissimi. Per me è stato un maestro di vita, mi ha insegnato ad amare questi luoghi, la montagna, la semplicità della vita. Ci divertivam­o con poco, in modo semplice, andando per ferrate o a sciare assieme. Pochi giorni fa per la prima volta ho indossato la salopette con cui Marcellino, alle volte lo chiamavo così, oltre che papà, andava ad arrampicar­e, era un alpinista di gran lunga migliore di me. È stato un onore e una gioia. Lui è sempre con me, quando arrivo su qualche cima il primo pensiero è per il mio papà. Sempre. Stragi impunite: di chi è la colpa, Loperfido? PINO LOPERFIDO — Credo un po’ anche nostra, della nostra scarsa coscienza civile. Non abbiamo la consapevol­ezza di abitare in una comunità, in uno Stato, di avere dei doveri, delle responsabi­lità. È facile dare la colpa ai politici, agli amministra­tori delegati, dovremmo imparare a guardare un po’ più spesso dentro noi stessi. A domandarci: cosa ho fatto io? Sono cosciente di avere dei doveri? Questo spettacolo ha condiziona­to, nel bene e nel male, la mia carriera di scrittore, ma c’è anche altro oltre a questo «fardello». Ho raccontato storie e personaggi fantastici, come Lorenzo Da Ponte, Federico Fellini, Nino Rota.

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Le immagini Da destra: Marcello Vanzo con la figlia Anna; la cabina precipitat­a il 3 febbraio 1998; l’attore Mario Cagol e il musicista Alessio Zeni in una scena dello spettacolo scritto da Pino Loperfido (nella foto piccola)

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